Una “via selvatica” per l’uomo, tra azione e rivoluzione: “Il silenzio coprì le sue tracce”, uno splendido romanzo di Matteo Caccia

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Oriana Rodella, Verona –

 

“The first revolutionary act is to call things by their name”.

 

“Chi lo diceva?” mi interrogava l’altra sera al telefono Francesca Benedetta Montagnoli detta Bene, linguista ad Amburgo e amica fraterna, a proposito della fedeltà e dell’esattezza della parole. Entrambe non riuscivamo a ricondurre quell’espressione a un nome e dopo vari tentativi ci siamo arrese a Google: Rosa Luxemburg, rivoluzionaria.

La via selvatica è il titolo che avevo scelto, ma poi la casa editrice ha deciso di sostituirlo”. Questa è stata l’unica battuta che ci siamo scambiati quest’estate io e Matteo a proposito del suo libro quando ancora non lo non avevo letto.

 

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La via selvatica porta nel nome il germe della trasformazione e del cambiamento. Narra infatti la storia di Zambo che se ne va da Genova con il suo cane Tobia per compiere una rivoluzione: valicare le montagne per raggiungere a piedi la casa in Maremma in cui il padre trascorse i momenti più dolorosi della resistenza partigiana e riportarvi la pistola con la quale l’uomo si tolse la vita.

È proprio nel passaggio di Zambo dalla civiltà verso la via selvatica che ci viene rivelata tra i flashback la storia tormentata della sua famiglia; ed è ancora qui, lungo il percorso che conduce il protagonista verso l’esilio, che si compie la sua vera trasformazione. La metamorfosi di Zambo è al contempo fisica e spirituale e culmina nell’incontro catartico con un lupo. L’animale, simbolo dell’introspezione e dell’istinto per antonomasia, diventa una sorta di alter ego per Zambo attraverso il quale egli si specchia per ritrovarsi e riconoscersi intimamente.

Non è forse vero allora che questo nome, La via selvatica, ci riconduce naturalmente a Zambo? Ce ne anticipa l’identità, ci dona un frammento del suo destino?

 

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La via selvatica, Dittico ad opera di Maria Teresa Palladino, Tecnica mista su cartone (olio, acquerello, carta e incisione), 2018. by @meri529

 

Si ritiene che chi abbia coraggio fisico non abbia molto di quel che chiamano “coraggio morale”. Che le due faccende non vadano proprio a braccetto. Come se uno fosse in grado di attraversare da solo gli oceani in tempesta, scalare l’Everest in ventiquattr’ore, sfidare la forza di gravità solo per vedere da vicino la Luna, ma poi, davanti a una faccenda irrisolta, a un piccolo incidente, a un problemino da niente, bum! Si trasformi improvvisamente nel più scellerato dei vigliacchi.

Zambo ribalta il pregiudizio perché, nell’accettare la via selvatica, diviene a sua volta un rivoluzionario. Nel compiere la difficile impresa quest’uomo combina l’audacia fisica di chi sfida la fame, il freddo e i pericoli della montagna con l’ardire morale di chi si lascia alle spalle l’abitudine, la casa e la propria identità, non per disfarsi o liberarsi, non per vivere come un selvaggio che si affida solo all’istinto o ai più semplici bisogni, al contrario. È un eroe Zambo perché è inevitabilmente condotto a mettere ordine, ad avvicinarsi alle cose della vita, a guardarle da vicino e nel farlo non si tira indietro, cavalca le fatalità, le indica, dà loro un nome senza abbandonarle nella verginità assurda dei lattanti.

Non è ancora una volta quindi La via selvatica a rimarcare, con la forza del proprio nome, il limite tra l’orizzonte fisico e quello intimo, la frontiera tra l’ordine e l’istinto, tra il terreno certo e quello del dubbio capovolgendone gli estremi in un solo tempo? Proprio come se l’uno non potesse fare a meno dell’altro.

È in quest’ottica dunque che non ci può essere banalità o casualità ne La via selvatica. Essa ci permette di oltrepassare un confine: quello della responsabilità verso noi stessi. Perché paliamoci chiaro: è del tutto inutile considerare gli uomini esseri candidati a un’esistenza ordinaria e monotona. L’uomo è fatto per l’azione, il movimento, la dialettica. Zambo affronta una montagna che è di fatto fisica e intima al contempo. Per questo Zambo è un uomo in rivolta.

Tutti gli uomini vivono le loro rivoluzioni. Silenziosamente. E per fare la rivoluzione non serve compiere gesta eclatanti, sfidare i pericoli, combattere a gran voce i mostri che causano l’infelicità.

Per fare la rivoluzione bisogna attuare soprattutto una trasformazione che parte da dentro, è necessario valicare la via selvatica per chiamare le cose con il loro nome, per comprendere che il dolore e la sofferenza spesso hanno le sembianze della solitudine che paralizza, dell’abitudine che anestetizza, della sofferenza che non viene rivelata, del timore della perdita di una parte di sé, pena l’allontanamento e l’esclusione. La missione dell’uomo è tutta qui. Il compito dell’uomo è quello di ribellarsi. Solo così si può arrivare alla conoscenza, solo così si può cercare il proprio nome autentico, la propria verità.

 

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La via selvatica, di Maria Teresa Palladino. Tecnica mista su cartone (2018) by @meri529

 

In uno dei romanzi a me più cari (P. Mercier, Treno di notte per Lisbona, Milano, 2008), il protagonista Amadeu de Prado, un giovane medico idealista, sognatore e dissidente durante il regime di Salazar, scrive una raccolta di riflessioni dal titolo L’orafo delle parole, che si dispiegano qua e là come spunti all’interno del romanzo.

Tra i vari pensieri, Amadeu riflette sul fatto che la gente abbia sempre un gran dire nel ritenere che i momenti risolutivi nella vita delle persone, quelli in cui il cammino ordinario modifica per sempre il suo corso, siano accompagnati da una fanfara festosa, da un’esplosione chiassosa e rimbombante e da tragici e drammatici dibattiti interiori.

In realtà, spiega Amadeu, il momento che determina un drammatico cambiamento di vita è spesso connotato da una leggerezza incredibile. Ha talmente poca affinità con uno scoppio o uno strepito che spesso, quando la metamorfosi si compie ed estende tutto il suo effetto rivoluzionario inondando la vita di una luce del tutto nuova e assegnandole una melodia inaudita, lo fa silenziosamente ed è proprio “in questa silenziosità meravigliosa che risiede tutta la sua nobiltà particolare“.

 

M. Caccia,
Il silenzio coprì le sue tracce,
Baldini&Castoldi, Milano, 2017,
pp. 189