Tubercolosi: quando un’epidemia cambiò la Sanità italiana

Carlo Patriarca, Milano

L’Europa del secolo dei lumi ha oramai le idee chiare a proposito delle malattie contagiose, e anche se si è quasi dimenticata della peste, sa che quando compaiono lebbra, tifo e vaiolo, l’isolamento del malato è la prima risorsa. La medicina dell’epoca trascura il ruolo patologico dei microbi ma sa che queste malattie sono tutte contagiose, compresa la sifilide; tutte tranne la tubercolosi. Lo sviluppo cronico e il decorso lento della tisi, fatto di riaccensioni saltuarie dei sintomi, non aiutava i medici a comprendere le modalità di contagio di un morbo che pure era diffuso e conosciuto fin dai tempi di Ippocrate.

Nell’Ottocento Hermann Brehemer, giovane botanico tedesco guarito dalla tubercolosi dopo un viaggio in Himalaya, si laureò in medicina e fondò il primo sanatorio in quota. In Italia  fu il medico piemontese Biagio Castaldi  ad affermare per primo l’efficacia dei sanatori alpini nella cura dei tubercolotici. A suo dire l’incidenza della tubercolosi declinava con la quota ed era molto rara sopra i 1000 metri di altitudine. I congressi di fine Ottocento, di fronte al diffondersi dell’epidemia di tubercolosi, sancirono l’importanza dei sanatori. Isolamento, aria buona, luce solare e cucina abbondante, che si credeva dovesse raggiungere le 6000 calorie giornaliere, divennero i capisaldi della cura. In Europa e negli Stati Uniti vennero costruiti centinaia di sanatori, per lo più fondati da medici specialisti con l’aiuto di società filantropiche, o anche (in Germania) sostenuti dalle casse di assicurazione; erano sanatori popolari per i malati poveri, ma non mancavano i sanatori di lusso per i ricchi,  e alcuni erano sulle Alpi.

Fu allora che Davos, 1560 metri d’altitudine, posizione soleggiata e inverni secchi e ventilati, divenne uno dei maggiori centri sanatoriali d’Europa. In una quarantina d’anni in quei dintorni spuntarono decine di cliniche sanatoriali grandi e piccole. Sono luoghi in cui si intrecciano storie a lungo celebrate dalla letteratura, posti in cui si respira un’aria appropriata al clima tardo romantico oltre che alla guarigione dei polmoni. I facoltosi ospiti della “montagna magica” trascorrono in quelle cliniche intere stagioni (“L’unità più piccola di tempo è per noi il mese; contiamo in grande stile noi”) nel più completo riposo (“noi viviamo orizzontalmente, noi siamo orizzontali”). I sanatori sono visti come luoghi di ricostituzione psicofisica per pazienti colpiti da un morbo che per molti medici, all’oscuro delle cause, comportava una certa predisposizione interiore, una sensibilità passionale di cui non vergognarsi, a differenza del cancro, come ha sottolineato Susan Sontag che a proposito della comune percezione della malattia neoplastica esprimeva un punto di vista che oggi appare per fortuna superato. Ma sono anche una fabbrica di soggetti che, una volta dimessi dalle lunghe degenze, faticano a reinserirsi nel tessuto sociale di provenienza.

Con la seconda rivoluzione industriale, la tubercolosi prende a crescere epidemicamente anche in Italia e si diffonde nelle classi popolari: i contadini si spostano nelle città per vivere e trovare impiego nelle fabbriche dove lavorano in condizioni spesso disagiate; nei centri urbani la qualità dell’aria va rapidamente deteriorando a causa dell’inquinamento industriale e a questo si aggiunge la penuria alimentare legata alla crescita demografica.

Qual era la mortalità per tubercolosi in Italia all’inizio del Novecento? 50-55 mila morti all’anno e il dato non scendeva da tempo. Sembrava oramai impossibile ridurre il numero delle vittime della “peste bianca” in assenza di ospedali specializzati. Le rare strutture “di pianura”, come quella di Orbassano o alcune colonie marine, non bastavano più. L’Italia avrà il suo primo vero sanatorio nel 1903, il “Pineta di Sortenna”, un sanatorio d’alta quota come quelli nati in Engadina; sorgerà a Sondalo in Valtellina e sarà il primo sanatorio italiano, fortemente voluto e fondato da Ausonio Zubiani, un medico socialista dotato di spirito imprenditoriale (figura sotto). Negli stessi anni vengono poste le basi per un sanatorio popolare, sempre in Valtellina (Prasomaso). Si tratta delle prime strutture dedicate, a parte il sanatorio di Gries (Bolzano), ma a quei tempi la stazione climatica altoatesina era in territorio austriaco.

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Nel 1910 Francesco Gatti dell’Ospedale Maggiore di Milano, allievo di Carlo Forlanini cui si doveva l’introduzione del pneumotorace terapeutico (unica vera novità nella cura della tbc), si sfoga così: “Di sanatori popolari in Italia ne abbiamo uno, quello di Prasomaso […] ed uno che sta per essere chiuso, quello di Budrio; […] quando la Germania ne conta 99!”.

Eppure oramai i medici sanno di trovarsi di fronte a una malattia contagiosa e di natura infettiva. La contesa tra Robert Koch (lo scopritore del micobatterio responsabile della tubercolosi) e Rudolf Virchow, il grande patologo che non credeva al ruolo causale del micobatterio, è finalmente alle spalle anche se venne tenuta in vita per decenni, con il contributo del cinema dell’epoca nazista.  Le sfide tra scienziati in vista piacciono sempre, e si tramandò che il “professore dei professori” (Virchow) avesse abbandonato la sala per dispetto, la sera in cui Robert Koch aveva presentato i suoi dati alla Berlin Physiological Society.

Insomma i sanatori sono visti come le uniche strutture che, grazie all’isolamento dei malati infetti, alla collocazione geografica speciale e alla molteplicità di specialità richieste per la cura – dalla radiologia (figura sotto) alla chirurgia e alla lunga riabilitazione – possono far fronte alla diffusione della malattia. Cresceva anche la consapevolezza dell’importanza dei dispensari antitubercolari come luoghi di prevenzione.

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Qual era la situazione italiana alla vigilia della Prima Guerra Mondiale? La gran parte dei capoluoghi di provincia aveva padiglioni o reparti di isolamento per tubercolosi, ma su tutto il territorio nazionale c’erano solamente 7 sanatori, di cui 4 popolari.

A peggiorare le cose intervennero i disagi della Guerra, gli spostamenti di truppe, gli affollamenti delle trincee e più ancora la tragica (e tragicamente ignorata) condizione di denutrizione e abbandono dei prigionieri di guerra. La mortalità per tubercolosi durante gli anni di guerra aumentò fino alla cifra record di 73.000 morti nell’anno 1918. La filantropia borghese e la Chiesa non sarebbero più bastate.

Alla fine lo Stato corse ai ripari, assumendosi l’onere del ricovero dei tubercolosi invalidi di guerra (venne istituita l’Opera Nazionale Invalidi di Guerra che andò a incorporare anche la cura dei militari ed ex militari tisici). Vennero decuplicate le somme per l’istituzione dei sanatori (legge del 1919), per il funzionamento di nuovi dispensari antitubercolari e per la preparazione del personale specializzato.

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Negli anni successivi si rafforzarono e si federarono i gruppi di volontariato (Federazione Nazionale Italiana per la Lotta contro la Tubercolosi), la Croce Rossa riconvertì le sue strutture di assistenza all’esercito in sanatori per civili, venne imposta una tassa minima pro-capite per finanziare le cure, nel 1927 si arrivò all’assicurazione obbligatoria per tutti i lavoratori subordinati  e vennero avviate diverse campagne antitubercolari.

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Già nel 1922 i dispensari erano molti di più e si giunse in vent’anni alla costruzione di circa 60 ospedali-sanatori su tutto il suolo italiano, con una campagna di interventi di stampo centralistico che ben si accordava con lo spirito del nuovo regime. I posti letto nei sanatori, che erano 12.000 nel 1923, già nel 1930 erano diventati 32.000.

Eppure il tisiologo e senatore del Regno Eugenio Morelli, allievo prediletto di Carlo Forlanini, non era ancora soddisfatto, nonostante fosse riuscito nel suo intento di far edificare numerosi sanatori, tra i quali spiccava il gigantesco complesso sanatoriale di Sondalo, ultimato solo nel 1940 (figura sotto). In una sua relazione del 1931 si legge: “i sanatori rappresentano solo la parte curativa, che sarebbe vana se non fosse coadiuvata da quella preventiva”.

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Questa frustrazione nasceva anche dai ritardi nel riuscire a mettere a punto una vaccinazione efficace, soprattutto dopo lo scandalo causato dal “disastro di Lubecca”. Quale? Da anni si sperimentava con un nuovo vaccino, il BCG (bacillo di Calmette e Guerin). Accadde però che nella città tedesca 251 neonati vennero vaccinati  con ceppi di BCG contaminati, 173 di loro svilupparono la tubercolosi e 72 bambini morirono entro un anno (in 68 di loro venne eseguita l’autopsia che confermò la diagnosi di tubercolosi). Successe perché il vaccino era stato contaminato con dei ceppi virulenti  durante la preparazione di laboratorio. Dunque il colpevole non era il vaccino in sé, ma questo non impedì che la paura si diffondesse ritardando di anni la messa a punto della vaccinazione.

Così, pur nella generale consapevolezza dell’importanza di migliorare le condizioni igienico sanitarie, i sanatori ospedalieri per la cura e la rete di dispensari per la prevenzione rimasero come capisaldi della lotta alla tubercolosi. I risultati si videro, perché alla fine degli anni ’30 la mortalità era dimezzata, nonostante un incremento della popolazione di oltre 5 milioni di italiani. Ma nel corso del ventennio non mancarono voci di dissenso alla politica sanitaria del ricovero di massa nei sanatori. Emersero per esempio nel corso di un congresso a Milano nel 1927 significativamente intitolato “Come si combatte la tubercolosi”. Vi si sottolineava come la base delle campagne antitubercolari fosse nella “terapia dei sanatori e  nella profilassi dei dispensari”, ma come il terzo pilastro risiedesse nella medicina del territorio, ovvero nell’educazione all’igiene che chiamava direttamente in causa i medici condotti, nel loro ruolo di assistenza a domicilio. “Bisognerebbe dare all’ammalato la possibilità di vivere con la propria famiglia in un alloggio moderno e igienico; bisognerebbe che l’ammalato avesse la sua cameretta con la disinfezione continua”, così scriveva Clelia Lollini, una delle prime donne medico del nostro Paese.

 

Letture consigliate:

T. Mann, La Montagna Incantata, Corbaccio, Milano, 2011

S. Sabbatini, La nascita dei sanatori, in “Le infezioni in Medicina”. N.2, 123-132, 2005

PL. Patriarca, La valle Incantata. Storia della tubercolosi e della lotta antitubercolare in Valtellina, L’Officina del Libro, Sondrio, 2001

M. Martini et al, The History of Tuberculosis: the social role of sanatoria for the treatment of tuberculosis in Italy, in “J Prev Med Hyg”, 59, 323-327, 2018

G. Cosmacini, Medici e Medicina durante il Fascismo, Pantarei, Milano, 2019

2 thoughts on “Tubercolosi: quando un’epidemia cambiò la Sanità italiana

  • Bellissimo e didattico.
    Da far circolare per aprire tante menti sulla situazione attuale.

  • Molto interessante questa ricostruzione per i molti profili indagati oltre a quello medico-scientifico; in particolare quello sociale cui e’ strettamente intrecciata la storia della malattia

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