Gli altri feriti: la «nevrosi di guerra» e le vittime dimenticate del primo conflitto mondiale

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Andrea Castelletto, Roma –

La prima guerra mondiale ha lasciato dietro di sé una scia di vittime ignorate per decenni dai censimenti ufficiali e dalla memoria pubblica. Si tratta dei soldati ritornati a casa con gravi patologie psichiatriche dovute ai traumi bellici, di norma riassunte dalla letteratura medica sotto il nome di «nevrosi di guerra».

Nascosti agli occhi el mondo dietro le spesse mura dei manicomi, degli ospedali o, per i più fortunati, delle proprie abitazioni, questi reduci finiscono ai margini della società e devono spesso subire l’aperta accusa di diserzione. Essi costituiscono, per gli Stati europei di allora, un motivo di vergogna, qualcosa che deve essere occultato alla vista dei civili e degli altri soldati che ancora combattono.

Per dare un’idea della vastità del fenomeno, basti pensare che le più recenti indagini storiografiche (ad esempio quelle condotte dal Centro di ricerca «Historial de la Grande Guerre» di Peronne e confluite nell’Encyclopédie de la Grande Guerre 1914-1918, pubblicata in Italia da Einaudi nel 2007) stimano a 200 000 per ciascun paese i soldati ospedalizzati per malattie mentali in Francia, Germania e Gran Bretagna; intorno ai 40 000 quelli italiani (numero probabilmente sottostimato).

 

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Come si manifestano, concretamente, queste nevrosi di guerra? Ai primi sintomi, mutismo e apatia, vanno aggiunte gravi forme di angoscia, amnesia, manie di persecuzione, ipersensibilità ai rumori (al minimo suono improvviso molti ricoverati assumono posizioni di difesa, come se si trovino nell’imminenza di un attacco).

Dai resoconti di molti reduci emerge la sensazione di trovarsi in trappola: da una parte la morte per mano del nemico e dall’altra, in caso di fuga, la morte per mano del tribunale militare. La nevrosi è una fuga da una situazione insopportabile: si tratta di una sorta di ultima spiaggia per quell’istinto di sopravvivenza seppellito sotto l’autorità repressiva della vita militare.

 

 

Certamente, una delle ragioni più importanti per cui la prima guerra mondiale ha causato tanti nevrotici è il suo essere la prima guerra «moderna», ossia meccanizzata: gli uomini si sentono sottomessi alla volontà delle macchine, sulle quali sembrano aver perso ogni controllo.

Dalla meccanizzazione della guerra discendono poi altre caratteristiche importanti che incidono sulla psiche dei combattenti: meccanizzazione significa armi più letali, quantità di morti e di distruzioni maggiori che in tutte le guerre precedenti. La violenza impersonale della tecnologia bellica schierata nella prima guerra mondiale demolisce le difese psichiche dei combattenti.

Al tempo stesso però – e questa è una contraddizione insolubile per i combattenti – questa violenza che si esprime attraverso le macchine è creata dall’uomo. L’immobilismo, tratto caratteristico della guerra di trincea, è oggi riconosciuto come un altro fattore scatenante, proprio per il senso di passività che trasmette ai soldati.

Gli psichiatri dell’epoca seguono con interesse le vicende belliche, consapevoli della funzione catalizzatrice della guerra sulle patologie psichiatriche. Le domande con cui la comunità scientifica si avvia verso il fronte sono: è la guerra la causa diretta delle malattie mentali, oppure bisogna credere che il malato abbia una predisposizione innata, e che la guerra ne velocizzi solo la manifestazione?

 

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La teoria della predisposizione innata domina il mondo medico e non ci vuole molto perché questa etichetta venga applicata anche ai reduci. Il soldato che non si riprende dallo Shell-Shock (trauma da esplosione) che segue un attacco viene spesso definito «degenerato».

Le malattie mentali vengono trattate con giudizi più morali che medici e i malati definiti con termini più giuridici che clinici. Dissimulatori, autolesionisti, disertori: questi gli epiteti con cui vengono bollati – non solo dalla politica nazionalista, ma anche dagli psichiatri – i soldati traumatizzati.

Evidentemente – affermano i medici – non è quella particolare guerra a causare quei disturbi: essa rivela semplicemente la vera natura delle persone, dei forti e dei valorosi, dei deboli e degli inadatti. In ultima analisi, il compito affidato agli psichiatri negli ospedali da campo non è tanto quello di curare i pazienti, ma di usare qualunque mezzo per far sì che i soldati possano tornare a combattere nel più breve tempo possibile.

Interpretazioni successive hanno dimostrato che la tanto diffusa nevrosi di guerra non è una simulazione del soldato per smettere di combattere, ma una risposta inconscia al dissidio interiore fra il dovere, che impone di attaccare, e l’istinto di sopravvivenza, che impone di allontanarsi dal pericolo. A ciò naturalmente si deve aggiungere l’incapacità – descritta da moltissimi reduci – di parlare, e quindi di elaborare e metabolizzare quanto si è visto, fatto e subito durante quegli anni.

Infatti, tra i sintomi più diffusi delle psicosi di guerra vi sono mutismo, chiusura in se stessi, amnesia, apatia. La caratteristica che accomuna i casi studiati è il silenzio. Il silenzio dettato dall’incapacità di comunicare qualcosa di tanto inaccettabile per chi l’ha vissuto e incomprensibile per chi è rimasto a casa.

 

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La letteratura offre ottime descrizioni dell’incomunicabilità della vita di trincea e dell’incomprensione di quel mondo da parte di chi non l’ha mai vissuto. Prendiamo l’esempio del ritorno a casa per una breve licenza di Paul Bäumer, il protagonista del celeberrimo romanzo Niente di nuovo sul fronte occidentale. Di fronte all’insistenza del padre perché racconti la vita al fronte, il diciottenne Paul pensa che egli

 

“non sa quanto sia impossibile raccontare certe cose; ovviamente mi farebbe piacere, ma è pericoloso tradurre quegli eventi in parole, temo che diventerebbero enormi, gigantesche, e che non le saprei più dominare”.

 

Il protagonista ricerca solo la solitudine e il silenzio: le altre persone, i suoi stessi familiari, gli sembrano lontane, ostili, straniere. Come in una sorta di mondo alla rovescia, dopo qualche giorno a casa non vede l’ora che la licenza termini e di poter fare ritorno a quello che sente come il suo vero habitat: il fronte.

Quella descritta qui da Eric Maria Remarque non è che una piccola anticipazione della profonda estraneità che i reduci avrebbero sentito dopo il termine della guerra. Per molti il ritorno alla vita civile sarà impossibile, e le porte del manicomio tenderanno presto a spalancarsi davanti a sé.

LE LETTURE CONSIGLIATE:

  • B. Bianchi, Delirio, smemoratezza e fuga. Il soldato e la patologia della paura, in Leoni Diego, Zadra Camillo (a cura di), La Grande Guerra. Esperienza, memoria, immagini, Il Mulino, Bologna, 1986;
  • B. Bianchi, La follia e la fuga. Nevrosi di guerra, diserzione e disobbedienza nell’esercito italiano (1915-1918), Bulzoni, Roma, 2001;
  • B. Bianchi, Psichiatria e guerra, in Audoin-Rouzeau Stéphane, Becker Jean-Jacques, Gibelli Antonio (a cura di), La prima guerra mondiale, 2 voll., Einaudi, Torino, 2007 (prima edizione: Éditions Bayard, Parigi, 2004);
  • E. Gentile, L’apocalisse della modernità. La Grande Guerra per l’uomo nuovo, Mondadori, Milano, 2008;
  • A. Gibelli, L’esperienza di guerra. Fonti medico-psichiatriche e antropologiche, in Leoni Diego, Zadra Camillo (a cura di), La Grande Guerra. Esperienza, memoria, immagini, Il Mulino, Bologna, 1986;
  • A. Gibelli, L’officina della guerra. La Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Bollati Boringhieri, Torino, 1991;
  • V. Labita, La psicologia militare italiana (1915-1918), in Leoni Diego, Zadra Camillo (a cura di), La Grande Guerra. Esperienza, memoria, immagini, Il Mulino, Bologna, 1986;
  • E. Leed, Terra di nessuno. Esperienza bellica e identità personale nella prima guerra mondiale, Il Mulino, Bologna, 1985;
  • E. M. Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale, Neri Pozza, Vicenza, 2016;
  • E. Traverso, A ferro e fuoco. La guerra civile europea 1914-1945, Il Mulino, Bologna, 2007.