Perchè leggere (o rileggere) “Il maestro e Margherita” di Mikhail Bulgakov

Francesco Zevio, Padova –

Michail Bulgakov: Il Maestro e Margherita. Perché la recente rilettura di questo libro è stata per me tanto liberatoria, tanto pregna di un inesausto sentimento di rivolta, tanto commuovente? In fondo, si tratta solo di una storia sull’arrivo e la materializzazione di Woland, ovvero Satana, a Mosca. Woland arriva in città con un seguito di surreali cortigiani e trasforma tutto in un delirio: incidenti singolari con decapitazioni e olio di girasole, colazioni con Kant, gatti grossi come maiali che si lisciano i baffi e comprano biglietti in tram, spettacoli di magia nera, valuta straniera e banconote trasformate in graffette e pezzi di carta, incendi vari e inspiegabili teletrasporti a Jalta, teste che si staccano e riattaccano, burocrati smaterializzati e vestiti che continuano indefessi a firmare carte e cambiali, abbietti amministratori condominiali trasformati in porci volanti e cavalcati da donne di servizio trasfigurate in amazzoni di Sabba e notti di Valpurga… tutto questo dovrebbe far ridere, magari scandalizzare, certo non commuovere!

E poi, soprattutto: va bene la commozione e queste cose da lettore onnivoro e incostante…  ma perché diavolo ti torna in mente il saggio di Benjamin Kritik der Gewalt, la Critica della violenza? Bah! Come spesso si dice nel libro di Bulgakov, certo ironicamente, “solo il diavolo lo sa…” il diavolo! ‒ ovvero Woland, un protagonista del libro.

 

mikhail bulgakov, il maestro e margherita, einaudi, storia della letteratura russa, letteratura, classici, letteratura russa

 

E forse è proprio Woland la chiave di tutto questo: poiché egli rappresenta una violenza pura, non istituzionalizzata ‒ una violenza che non si appoggia a ingranaggi di potere, a retoriche e propaganda, a partiti e pubbliche opinioni, a processi di razionalità politica o interessi parziali. In questo senso, l’arrivo di Woland a Mosca è una possibile trasposizione profana dell’immagine messianica tanto cara a Benjamin: perché il suo arrivo in città sospende la legge della polis ‒ perché tra giullari diabolici, gatti sproloquianti e pistoleri dediti al Cognac, questa pura violenza smaschera e spazza via tutto lo sciame di meschinità e violenze istituzionalizzate, la quotidiana abiezione nei vari baciamano e nell’ossequio al potere vigente, tutti gli ingranaggi della macchina sociale e politica volta al perseguimento di gretti rendiconti personali insieme all’ipocrito mantenimento di una buona coscienza. Ecco cosa! ‒ con l’arrivo di Woland e del suo seguito, a Mosca, per qualche giorno il male smette finalmente di essere banale e torna a essere qualcosa di tragico, sconfinato, irreparabile. La violenza getta la maschera che gli avevano cucito addosso: smette di essere un fatto di ordinaria amministrazione, torna pura violenza deliberata. “Il re è nudo!” (e pure libidinoso…): questo è l’immenso, liberatorio grido a levarsi da Il maestro e Margherita.

Ma perché la rivolta? In parallelo alle peripezie di Woland e assistenti, leggiamo la storia del “quinto procuratore della Giudea” Ponzio Pilato e di un povero medico vagabondo: di un sognatore cencioso, un rivoluzionario suo malgrado per il solo fatto di guardare gli uomini negli occhi, per cercare di comprenderli e suggerire al quinto procuratore della Giudea di lasciare il palazzo… il palazzo ‒ quel luogo dove i nomi si tramutano in titoli e gli uomini in ingranaggi ‒ lasciare il palazzo per passeggiare un poco a piedi nei dintorni, magari sul monte di Elaion, dove il vagabondo gli avrebbe tenuto compagnia e dove insieme avrebbero parlato dei nuovi pensieri che gli sono venuti in mente. Il nome di quest’uomo: Jehoshua Ha-Nozri, il Nazareno. La vera rivolta è questa: è guardare gli uomini negli occhi e cercare di capirli, è guardare i fatti e le cose del mondo e tentare di conoscerne la storia, decifrarne le mistificazioni cucite loro addosso.

 

Mikhail Bulgakov nel 1935

 

Ma perché la commozione? Forse perché la storia di Ha-Nozri e Ponzio Pilato altro non è che il romanzo scritto da un uomo che viene chiamato Il Maestro, che in quella Mosca messa a soqquadro da Woland e il suo corteo di giullari ultraterreni ci vive e scrive, ci vive e vi ama una donna incontrata per caso sull’Arbat con degli “inquietanti e orribili fiori gialli”. Questa donna è Margherita: una donna pronta a rinunciare a tutto e a sottomettersi al demonio per tornare a cuocere patate nella stufa e a sporcarsi le mani col Maestro in un seminterrato, durante i temporali di Maggio; pronta a rinunciare alla sua felicità per alleviare la pena di un’anima dell’inferno, condannata per avere ucciso nella più totale necessità e disperazione il proprio bambino; pronta a trasformarsi in strega e spazzare via quegli individui che, genuflettendosi al potere e l’opinione, hanno rovinato il Maestro facendolo sparire chissà dove e distruggendo la loro vita nel seminterrato… una vita fatta di ricami nel cappello, di primavera nel giardino che profuma di buddleja e di lillà, di cancelli che si chiudono e batticuori, di estate e rose e temporali estivi che rigenerano l’aria e spezzano rametti con grappoli di fiori bianchi.

Con questo libro si fa esperienza di una immensa liberazione ‒ qualcosa di mirabilmente estatico e catartico.

 

Michail Bulgakov,
Il maestro e Margherita,
Torino, Einaudi, 1967
pp. 390