Il funerale della Repubblica: il corpo di Aldo Moro e la morte di un’idea di Stato

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Enrico Ruffino, Venezia –

Nel 1996 lo storico Piero Craveri così commentava il funerale di Aldo Moro:

 

L’intensità religiosa e umana della figura del pontefice faceva da singolare contrasto con l’immagine anonima del pubblico illustre che occupava la navata della Chiesa. Poteva ben dirsi che lì, in un momento così drammatico e significativo, la Repubblica era scomparsa, senza più immagine e parola, e il suo posto era interamente occupato dal rito solenne della Chiesa di Roma.

 

Craveri non era di certo né il primo né l’ultimo ad aver commentato in questo modo i funerali di Aldo Moro. Storici illustri – tra cui Guido Crainz e Andrea Riccardi – avevano parlato e parleranno infatti di “funerale della Repubblica”, volendo affermare in altre parole che, seppellendo il corpo dello Statista, era come se si seppellisse, simbolicamente, il corpo di una parte della Storia della Repubblica.

 

 

La fonte fotografica

La storia del corpo di Aldo Moro è interessante da più punti vista. Le immagini parlano e incuriosiscono perché fermano un momento, catturano l’attimo, lo anestetizzano: allora chi le guarda è costretto a porsi delle domande, a cercare di andare oltre le immagini, vedere cosa c’è dietro, cosa si muoveva ai lati, alle spalle, dietro e davanti il soggetto e il fotografo.

Ma soprattutto l’immagine ti pone delle questioni cruciali: su chi fotografa, su chi è fotografato e sulla condizione umana, psicologica e circostanziale dei due protagonisti della performance. Dunque, senza alcun dubbio, potremmo dire che l’immagine è un documento storico: una fonte che va contestualizzata, scevrata, analizzata, reindirizzata al suo ambiente originario.

Potremmo scrivere un saggio intero sugli occhi di Aldo Moro nelle foto della sua prigionia, potremmo dire che – come aveva intuito Leonardo Sciascia – l’uomo di potere si era spogliato del potere stesso divenendo semplicemente un uomo, un carcerato. Per dire questo però dovremmo guardare alle spalle, dove una bandiera delle Brigate Rosse campeggia in segno di dominio; oppure dovremmo guardare la camicia – aperta, trasandata, spoglia – per comprendere il contesto dell’uomo divenuto prigioniero.

Ne ha parlato, in un bello e minuto saggio, Marco Belpoliti, a cui reinviamo. Quella che qui vorremmo introdurre è un’altra immagine, quella del corpo esanime dello Statista, della sua non-vita, del significato simbolico che ha emanato. A nostro avviso capiremmo che il funerale è avvenuto in Via Caetani. Non davanti alla sua bara.

 

 

Il corpo di Aldo Moro

A differenza del suo più illustre collega, Giulio Andreotti, ad Aldo Moro non è mai stato affibbiato un soprannome fisico. Se la fisicità di Andreotti era essa stessa simbolo di un’intrinseca macchinosità, di un potere che si manifestava negli handicap fisici – in cui, ad esempio, una “gobba” nascondeva i segreti – nella figura di Aldo Moro non contava il corpo in sé ma il corpo in res, in azione.

Nella sua mutilata carriera politica, il corpo di Aldo Moro si è manifestato soprattutto nell’azione, che per un politico equivale al discorso; i suoi discorsi erano un po’come lui: lunghi, esili e sfiancanti. Era capace – i verbali dei congressi lo dimostrano – di parlare, senza pause e inflessioni, per ore con la sua voce esile, monocorde e senza sbalzi di tonalità.

Il suo corpo, intanto, raffigurava il discorso, la sua propensione ad un certo rigore logico e austero di argomentazione. Di un uomo che sapeva guardare in prospettiva, prevedere il futuro e affrontare globalmente il paese che serviva, restando fermo, immobile e coi piedi ben saldi all’interno della realtà.

Pasolini, dal canto suo, lo aveva immobilizzato in una fotografia, quella del linguaggio, in cui le “lucciole erano sparite”. Quell’articolo è, adesso, interpretato come l’atto di nascita del personaggio Moro: ma forse ha ragione Simona Zecchi, che in una nostra intervista, ha voluto affermare che lo Statista in realtà si è creato da solo. E sono proprio i contrasti di immagini che, a posteriori, fanno di Moro l’uomo che muore portandosi dietro la Repubblica.

 

 

Sequestrare un’immagine

Fino al suo rapimento, l’immagine dello statista democristiano aveva rappresentato una certa idea di centrismo. Era l’uomo delle aperture, delle grandi intese, del cattolicesimo a sinistra: l’uomo – appunto – del centrosinistra. Ciò che però non deve sfuggire è il retroscena della fotografia: davanti e dietro al grande progetto politico, vive anche un grande progetto di Stato: uno Stato di centro, che sappia mediare tra le due grandi potenze (USA e URSS), ma che allo stesso tempo si svincoli da esse.

E infatti – dopo i fallimenti degli anni ’60 con il PSI – l’accordo con il PCI sarebbe stato uno smacco “indipendentista” dalle grandi potenze. Un progetto che muore nei tempi e coi tempi di Via Caetani: l’immagine del corpo esanime è l’immagine di un’idea di Stato che muore, di un progetto di Stato che affonda nelle guerre intestine e sotterranee, quelle che non si vedono a prima vista, che restano opache in superficie e che possono essere interpretate solo da alcuni.

Via Fani è il preludio: un attentato che uccide chi difende il progetto e sequestra il “progetto” stesso. Si tratta dell’inizio del sequestro sì dell’uomo, del politico, del democristiano, ma anche dell’idea, del progetto. Le Br, per loro stessa ammissione, non sapevano cosa fosse il potere ed è lo stesso Mario Moretti a dirlo nel suo libro di memorie.

Si trovano in un certo senso inermi dinanzi ad un uomo che incarna un’idea, un progetto e che risulta essere ingombrante, con un’immagine troppo grande, che attira interessi enormi. Attorno all’immagine di Moro si scatena una guerra.

 

 

Celebrare il funerale

I “55 giorni” sono una guerra d’immagini. I corpi esamini degli uomini della scorta; l’immagine di una Roma blindata ma violabile; l’immagine dell’impunità delle Brigate Rosse; l’immagine dell’impotenza della politica; le immagini dell’uomo con i suoi sguardi che dicono tutto e niente della sua prigionia; le immagini di un lago anonimo; le immagini di un Papa che si appella alle Brigate Rosse.

Infine, l’immagine di Via Caetani: dopo il 9 maggio il corpo di Aldo Moro scompare. Non esiste più. Le immagini si arrestano al portabagagli della Renault 4. Il corpo di Moro da quel giorno è un fantasma che non interessa più a nessuno. Come se quel corpo accartocciato, esile ed esamine, con il viso incolto e crivellato di colpi non avesse un dopo: non esistono immagini del corpo di Moro oltre Via Caetani perché dopo quel giorno, il fallimento, la resa, la fine di un’idea e di un progetto di Stato sono stati annullati dai proiettili.

Allora non serve che il corpo di Moro dica altro: ha già detto tutto in quel senza asfalto ma con i sampietrini, in cui è stato portato un corpo senza vita. Sembra quasi un corpo anonimo, sembra quasi non essere Moro: un corpo derubato dell’anima. La sensazione che si prova a guardare quella foto è infatti strana: è una sensazione di vuoto profondo, di un corpo che non è più.

In Via Caetani, a dieci metri dal punto in cui è stato trovato il corpo di Aldo Moro, risiede la Biblioteca di storia moderna e contemporanea. A dieci metri dal luogo in cui la Repubblica ha deciso di celebrare il proprio funerale.

 

 

Qualche giorno fa mi trovavo con un’amica a Roma. Siamo passati da Via Caetani. Mi piace concludere questo articolo riportando un dialogo tra me e lei:

– Lei: Per me (via Caetani ndr) è un posto che mi dà soggezione e sfinimento, non so perché…

-Io: Eh, perché…è una strada stretta e sampietrinata, in cui si è concluso un affaire enorme che ha riguardato, e ancora riguarda, le sorti della Repubblica…sembra esserci l’ombra di Moro in quella strada. Penso che provi lo sfinimento di un sequestro e la soggezione di una storia grande, troppo grande.

-Lei: Si, ma ti pare di vederla, quella Renault Rossa (che sai che è Rossa ma che non hai visto che è rossa); sembra sempre lì, ferma, con il portabagagli aperto e con tutte le persone intorno, in bianco e nero. Sai solo che la Renault è rossa e che il sangue di Moro è rosso e ti chiedi: rosso come la macchina? Però in ogni caso io mi sento quasi un fantasma quando passo lì, come quando i fantasmi passano attraverso le cose: uguale. Solo che il fantasma è reale e la macchina no, pur essendo lì. È strano…anche perché non tutti hanno la stessa consapevolezza e passano e spassano per quella via come se non avesse quel nome.

 

La consapevolezza è quella di chi studia la Storia. Il fantasma è quello di Moro.

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