Pasolini: Massacro di un poeta. Storia dell’incomprensione di un dramma intellettuale

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A cura di
Enrico Ruffino, Venezia –

Il tuo libro (Pasolini, Massacro di un poeta, Ponte alle Grazie, 2015) è un libro d’inchiesta ma, per quello che mi riguarda, l’ho trovato interessante per un punto nodale, che mi sembra rappresenti l’anima del tuo lavoro: la critica alla cattiva propensione ad analizzare, interpretare e forzare la morte di un uomo di lettere, immensamente complesso e dai poliedrici spunti intellettuali, sotto quello che mi sento di definire il “paradigma dell’omosessualità”. Non credo di sbagliare accezione o di traviare il tuo pensiero nel definire tale un modello che ha spinto anche bravi critici (mi ha colpito la critica che fai a Belpoliti) a declinare la “tragedia” pasoliniana o a coniugare l’intera sua parabola attraverso la categoria dell’omosessualità estetizzante. Penso che, invece, l’intero percorso intellettuale pasoliniano abbia una costante: l’incomprensione. D’altronde lui stesso scrisse che “la morte non è nel non poter comunicare ma nel non poter più essere compresi.” E’ sbagliato affermare che non aver capito Pasolini possa aver generato una trappola interpretativa come quella dell’omosessualità? Potresti spiegare al lettore perché si tratta di un paradigma e per quale motivo ritieni che la stragrande maggioranza dei commentatori incappi in questo errore?

 

Sì, mi sento di condividere questa tua sintesi espressiva su ciò che parte della intellighenzia soprattutto di sinistra, appoggiata da quella di destra, ha perpetrato contro di lui e che ricade in pieno nella trappola, da te menzionata, in cui sono caduti alcuni involontariamente, altri per quello stato di conto in sospeso che con Pasolini avevano. Equilibrio capovolto certo durante gli anni in cui lo scrittore era in vita, ma entrambi “gli schieramenti” non ne sono stati esenti.  E anche in questo senso nel mio libro vi è un abbozzo d’inchiesta culturale, verso la fine, nelle pagine dell’epilogo ma che riprenderò insieme ad altro. Perché prima di tutto ho creduto fosse necessario, e mancasse, un lavoro investigativo di sintesi nuovo e unitario sul “cosa” ha portato al massacro Pasolini e sulle modalità specifiche. Poi è stato inevitabile, a 40 anni da quel massacro, fare qualcosa che un giornalista non dovrebbe fare: avanzare anche le ipotesi sul “chi” e non parlo solo dell’aver delineato i diversi livelli operativi coinvolti. Il “chi” infatti spetterebbe ad avvocati e magistrati, soprattutto a questi ultimi. Un lavoro questo che è mancato anche nelle ultime indagini preliminari aperte dalla Procura di Roma e durate 5 anni. Nella raccolta postuma Lettere Luterane del novembre ’76, nella serie dedicata a Gennariello rimasta incompiuta, il ragazzo immaginario a cui Pasolini indirizza un piccolo trattato, è lo stesso scrittore che risponde alla tua domanda parlando di “tinta”: mantello di pregiudizi ai quali nemmeno gli intellettuali si sono sottratti, i quali coprivano ogni sua analisi e critica, una su tutte quella sull’aborto. Lì Pasolini riferiva come la sua figura fosse paragonabile a quella dei neri, rinchiusa cioè in un ghetto mentale a cui vengono assegnati tutti coloro che appartengono a una minoranza. La polemica sull’aborto che lo travolse in particolare era stata appunto ammantata da una “tinta che proviene da una mia esperienza particolare e diversa della vita, e della vita sessuale”. E’ il paradigma che lo ha inseguito fino a oltre la morte. Per anni, ma anche adesso, a partire dal ’92, il capitolo in Petrolio sui Pratoni della Casilina ha impregnato molte pagine culturali come in un istinto voyeristico incontrollabile, rinnegando il ruolo specifico invece dato da Pasolini al sesso in quell’opera letterario-giornalistica che proseguì a rappresentare nel film Salò, rimasta anch’essa incompiuta. Concludo ricordando le parole che usò Pasolini nel maggio del 1969 per definire il “caso Lavorini” che mi sembra emblematico e precursore di tutto ciò che sarebbe avvenuto durante la strategia della tensione. Ermanno Lavorini è stata una giovanissima vittima di un omicidio avvenuto a gennaio dello stesso anno in un primo momento fatto ricadere in un contesto omosessuale. In Caos Pasolini scrive: “L’uomo medio rappresentato e officiato dai giornali richiede ancora come nel profondo dei millenni, il “capro espiatorio”: sente cioè il bisogno del linciaggio. Le vittime da linciare continuano a venire regolarmente cercate tra i diversi…” Poi le indagini sull’omicidio portarono a individuare due neo fascisti e a un monarchico che avevano montato inizialmente il tutto.

 

Simona Zecchi


Quando ho letto nel tuo libro la parte relativa allo “schema perfetto” non ho potuto non pensare ad una sceneggiatura (la preparazione della morte) e alla messa in scena (la morte). Il delitto Pasolini è un po’ un film, è letteratura (nel senso che Pasolini diventa egli stesso un personaggio da costruire), diventa un personaggio letterario in una fiction in cui il dominus non può che essere rappresentato dall’erotismo. Infatti, come tu sottolinei, i primi resoconti sono colmi di dettagli scabrosi. Ma l’eros, in realtà, che ruolo aveva nella parabola pasoliniana? E parlo della parabola reale, non nella fiction.

 

Lo “schema perfetto” è il “film” che non si potrà mai girare credo sulla morte di Pasolini, l’unico film rispetto ai tanti che si sono già girati – eccetto uno quello di M.T. Giordana Pasolini, un delitto italiano (‘95) solo ovviamente datato – perché di fatto è la dinamica reale e più vicina al vero che lo ha condotto alla morte. Per ricostruirlo ho dovuto attraversare mille cavità buie e affrontare un lavoro complesso, tagliando i rami delle suggestioni o dei depistaggi a volte autoinflitti da chi indaga su questi fatti. Non ci sono abbastanza coraggio e capacità oggi per realizzare un film senza trasformare quei fatti che ve l’hanno condotto appunto, e Pasolini stesso, in una materia da macchia per fiction (non film). Pasolini diventa “personaggio” da character assassination (C.A.), buono per comminargli una strategia del linciaggio in cui tutti cadono, salvo poi per alcuni di essi tornare indietro e fare finta di non esservi mai caduti. Tipo di tecnica, questa del C.A., creata appositamente dai regimi totalitari e dai suoi agenti di copertura per distrug­gere la credibilità e la reputazione di una persona comune o di una figura che emerge dalla società in contrasto con il sistema, deformandone i tratti e trasformandolo appunto in un personaggio, una macchietta. E’ una questione reale non una definizione letteraria. L’eros è stato uno dei filtri da lui usati per entrare nelle viscere della realtà e indagarla o anche soltanto rappresentarla, oltre che parte spiccante, indubbiamente, della sua intima personalità. Quell’eros speculare al sesso il quale è usato invece da Pasolini come altro filtro, come accennavo prima, per raccontare la perversione del potere nel film Salò. Il punto vero è che in Italia non c’è un Pasolini: permangono invece i metodi, perché non è vero –  come si percepisce- che si è smesso di uccidere le persone dannose per il sistema: è meno frequente e si riesce a confondere queste morti con le altre casualità della cronaca ma non impossibile. Ma questa è un’altra questione.

 

Ritornando all’incomprensione. Mi sembra che l’ ”ossessione per la verità” di Pasolini determinasse anche l’incomprensione. I fascisti, certo, che giocano un ruolo principale, di esecutori, nel tuo libro ma ci sono anche quelli che, per un periodo, furono i “compagni politici” del poeta friulano: i comunisti. Senza entrare all’interno della rottura, che ruolo hanno avuto i personaggi del PCI (ricordi le censure di Togliatti) nella costruzione del “paradigma” omosessuale?

 

Quando uscì Ragazzi di Vita (1955), il romanzo che lo consacrò al successo letterario e per il quale fu anche accusato di oscenità e pornografia, gli attacchi più profondi arrivarono dal PCI. Il fratello di Berlinguer, Giovanni, deputato del partito per tre legislature, scrisse un lungo articolo sull’inopportunità di vedere rappresentata la borgata come una classe abietta e infima mostrando di non aver voluto capire la profonda svolta che nel mondo della letteratura con quel romanzo avveniva. La periferia e le borgate si presentavano infatti per quelle che erano senza falsi moralismi fra pure cattiveria e bontà e situazioni sociali ed economiche fuori da ogni decenza. Quindi anche una denuncia. Al suo funerale gli unici due politici che inviarono un telegramma di condoglianze alla famiglia di Pasolini furono il Berlinguer segretario, Enrico, e Aldo Moro il cui fratello fu giudice di primo grado del processo contro Pino Pelosi, l’unico che riconobbe il “concorso con ignoti”. Come riporto nel mio libro, in un messaggio pubblicato su L’Unità all’indomani della morte c’è tutta la cecità di quella parte politica a cui comunque Pasolini pur avverso e contrario apparteneva: “La «vita violenta» su cui egli ha indagato con una vivacità intellettuale forse senza eguali nel nostro paese, è divenuta ora causa terribile della sua scomparsa. Quasi che egli avesse teso a cercare questo epilogo.” Quest’ultimo periodo può fare il paio con ciò che fino al ’93 Giulio Andreotti aveva sempre dichiarato “Se l’è cercata”. Nel 1979 poi Giovanni Berlinguer si scusò, senso di colpa postumo, e al contempo fece un’interrogazione parlamentare per istituire una Commissione d’inchiesta sulla morte, andata come le ultime richieste in merito, nel vuoto. Poi c’è l’esempio che hai fatto tu di Togliatti riportato sempre nel libro, ma si potrebbe ben andare a ritroso fino allo “scandalo” che lo vide protagonista nel ’49 e che gli causò la cacciata dal partito. Tessera che non fece più.

 

Lo studio di Simona Zecchi su Pasolini (Ponte alle Grazie, 2015)

Qualche volta è forse meglio tacere che dire la verità. E’ più sano, forse, qualche volta, tenersela dentro, la verità.” Questo pensiero subentra subito dopo una critica a Calvino, reo di aver “taciuto” o “forse un po’ mentito”, a proposito del modo con il quale affrontare l’attualità. Nel tuo libro hai affermato che “Pasolini aveva un’ossessione: la verità”. Come interpreti, allora, questa frase?

 

E’ un periodo estratto dal suo saggio sull’opera di Italo Calvino, Le Città Invisibili (’72), contenuto in una raccolta più ampia di scritti fra il ’72 e il ’75, pubblicati di volta in volta sul settimanale Il Tempo. Scritti “poetici”, letterari rispetto a quelli composti nello stesso periodo che invece vedranno la luce unica negli Scritti Corsari (’75). Nel momento in cui scrive, Calvino e Pasolini sono lontani tra di loro, lacerati da una polemica che ha messo a dura prova la loro bella amicizia. Questa affermazione in realtà deve essere letta all’interno di quelle pagine come un qualcosa di  polemico contro il suo ex amico, pur recensendo le Città Invisibili in modo favorevole. Secondo questa affermazione, infatti, resta netta la contrapposizione che Pasolini fa tra lui stesso, che gridava “a tutti i venti il ristabilirsi della verità come una gallina spennacchiata”, e Calvino su cui Pasolini non sapeva, scriveva, “cosa è passato realmente dentro la testa in questi ultimi anni, perché Calvino forse diplomaticamente ha taciuto o ha un pò mentito”. E’ un allontanamento che inizia con la polemica fra i membri del Gruppo ’63 e l’Avanguardia Letteraria, a cui Calvino si avvicinò, e lo scrittore corsaro e che proseguirà fino alla morte stessa con l’altra polemica: quella che vedeva contrapporsi l’accusa di “nostalgia per l’italietta” fatta da Calvino a Pasolini, (insieme alle accuse di omologazione della società e della politica) e la risposta dello scrittore che si riteneva incompreso, in quanto come ha più volte dichiarato la sua non fu affatto nostalgia per l’Italia fascista ma per quei valori che hanno cessato di esistere dal momento in cui senza graduale progresso si stava giungendo  a uno sfrenato sviluppo. All’indomani della morte del poeta, Calvino anche si scusò, in un certo senso, con una lettera aperta. Pasolini denunciava la mancanza di urgenza di dire la verità in Calvino, e in altri tra giornalisti e scrittori, di rimanere sempre tra le righe, (lo fece anche con Furio Colombo durante l’ultima intervista che fu tra i fondatori del Gruppo ’63) appunto di non spiegare e dire il vero sulla violenza che stava arrivando a ondate in questo Paese. Un’affermazione dunque amaramente ironica visto che aggiunge “Calvino ha mantenuto tutto il suo credito, mentre io screditato due volte…continuo a godermi il discredito, ma anche la antipatia di chi non sa perdonare di aver detto a suo tempo ciò che era giusto dire”.

 

Pier Paolo Pasolini assieme ad Aldo Moro al Festival del Cinema di Venezia nel 1964

Paradossale che Pasolini, il quale creò il “personaggio” Moro, abbia avuto, in un certo senso, il suo stesso destino. In un certo senso, sono due narrazioni differenti ma complementari: entrambi incompresi e narrati, nel discorso pubblico, come personaggi letterari. Come spiegheresti questa “convergenza di destini”?

 

So che questa convinzione, che Pasolini abbia creato il personaggio Moro, è sempre più comune soprattutto tra gli storici, ma con la quale non concordo. Questo succede perché delle opinioni su Moro avute dallo scrittore si conosce soltanto la più nota comunque vera, la definizione del “meno implicato”. Come se questa definizione avesse in qualche modo sollevato Moro dalle colpe che invece la DC il suo partito aveva tutte. Da quel “meno implicato” alla morte di Moro passano 4 anni compreso il massacro a Pasolini. Nei saggi contenuti in Empirismo Eretico del 1972, e pubblicati però fra gli anni 64-71, vi è un saggio di linguistica (1965) in cui Pasolini stigmatizza il linguaggio di Moro come quello che inaugura la tecnocrazia nella lingua italiana, un artificio quello usato dai politici per parlare delle cose e non farsi comprendere dai cittadini e che Aldo Moro utilizza, nella fattispecie parlando della inaugurazione di un’autostrada e trasferendo così a un pubblico normale, non a dei tecnici, il concetto dell’importanza di superare le congiunture del momento e cooperare allo sviluppo (quello sviluppo che Pasolini chiamava senza progresso). A creare il “personaggio” Moro fu Moro stesso, invece, più avanti quando cominciò a capire che le forti fratture sociali che investivano soprattutto i giovani e le istanze dei più illuminati giovani a sinistra dovessero essere sempre più prese in considerazione da parte della politica e in particolare dalla DC. Istanza a cui ovviamente la DC non intese rispondere. Un cambiamento profondo di Moro che si innesta tra i motivi che lo portarono alla morte per mano non solo delle BR, ma che non alterava l’indole di mediazione tra i poteri che aveva e la sua forte appartenenza al Partito nonostante tutto. Mediazione e appartenenza che con molta probabilità lo hanno portato, per non aggravare secondo lui lo stato delle cose, a nascondere in un primo momento la pista nera che poteva emergere nelle indagini sulla strage di Piazza Fontana. Un uomo diverso, che da un certo punto in poi resta dunque “il meno implicato”. La convergenza di destini che giustamente tu vedi è tutta sintetizzata nei loro ruoli opposti e rivoluzionari ognuno a modo loro avuti e che potevano a maggior ragione avere entrambi su due percorsi diversi per lo sviluppo e il progresso del nostro Paese.