Un albero dell’Essere tra Moravia e Sartre: la simbologia vegetale nei capolavori di due grandi del Novecento

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Francesco Bastianon, Venezia –

Guardavo l’albero e provavo un sentimento di disperazione totale, ma calma, e per così dire, stabilizzata, quale appunto si può provare dopo essere passati attraverso una crisi, che, pur non essendo risolutiva, si suppone tuttavia che sia il massimo che si possa affrontare.

 

Risvegliatosi in ospedale, in seguito ad un tentato suicidio, Dino – il protagonista de La noia, il romanzo di Alberto Moravia pubblicato nel 1960 – passa le lunghe ore di degenza con lo sguardo fisso su un cedro del Libano, al centro del cortile su cui dà la finestra della stanza. La parabola disperata del personaggio moraviano, la sua ossessione morbosa per l’amante Cecilia, il suo rapporto ambiguo con il denaro, la sua impasse artistica terminano, così, in modo drammatico, la loro corsa affannosa su una pianta.
Ciò non si legga solo metaforicamente:

 

Subito dopo aver cambiato marcia, come se davvero avessi visto un’altra strada sulla mia sinistra, e avessi voluto imboccarla, diressi la macchina contro un platano.

 

È in questo modo che Dino pone fine alla profonda e straziante inquietudine suscitata in lui dall’insensatezza che Cecilia, con la sola evidenza del suo essere, gli aveva brutalmente posto di fronte. Egli rifiuta di percorrere quella strada necessariamente dritta: l’unica maniera di uscirne è l’annichilimento della sua esistenza.

Se il vecchio Dino finisce su un platano, quello nuovo rinasce dal cedro. L’eroe moraviano passa ore a osservare quel “grande albero […] dai lunghi rami spioventi di un verde quasi azzurro.” Quest’osservazione insistita lo porta ad accettare quel che non era stato in grado di ammettere nella sua relazione con Cecilia: l’incomprensibilità della realtà.

 

Non pensavo niente, mi domandavo soltanto quando e in che modo avevo riconosciuto la realtà dell’albero, ossia ne avevo riconosciuta l’esistenza come di un oggetto che era diverso da me, non aveva rapporti con me e tuttavia c’era e non poteva essere ignorato. […] Adesso contemplavo l’albero con un compiacimento inesauribile, come se il sentirlo diverso e autonomo, fosse stato ciò che mi faceva maggiore piacere.

 

Non può non suscitare la curiosità del lettore la scelta di demandare questo ruolo cruciale nello scioglimento delle vicende di Dino proprio ad un albero. Moravia possedeva, probabilmente, chiara coscienza di una certa simbologia vegetale che la letteratura aveva, da non troppo tempo, assimilato; come Dino, c’è un altro – e anteriore – personaggio esistenzialista che incrocia il suo destino con quello di una pianta: è Antoine Roquentin, protagonista del romanzo capostipite dell’esistenzialismo francese, La nausea di Jean-Paul Sartre.

L’eroe sartriano ha la sua più vivida e sconvolgente rivelazione dell’Essere in un giardino pubblico, quando sotto la sua panchina nota, senza riconoscerla, la radice di un castagno: essa

 

s’affondava nella terra, proprio sotto la mia panchina. Non mi ricordavo più che era una radice. Le parole erano scomparse, e con esse, il significato delle cose, i modi del loro uso, i tenui segni di riconoscimento che gli uomini han tracciato sulla loro superficie. Ero seduto, un po’ chino, a testa bassa, solo, di fronte a quella massa nera e nodosa, del tutto bruta, che mi faceva paura.

 

L’albero si rivela, allo sconvolto Roquentin, nella sconnessione delle sue parti: radice, tronco, rami e foglie che frusciano, tutto si manifesta in maniera insensata, irrelata, come un’incomprensibile successione di esistenze:

 

Il sorriso degli alberi, del gruppo di allori, ciò voleva dire qualche cosa; era questo il vero segreto dell’esistenza. Mi son ricordato che una domenica, non più di tre settimane fa, avevo già sorpreso sulle cose una specie d’aria di complicità. Era diretta a me? Ho sentito con disappunto che non avevo alcun mezzo di comprendere. Nessun mezzo. E tuttavia era là, in attesa, sembrava uno sguardo. Era là, sul tronco del castagno… era il castagno.

 

Il contatto tra La nausea e La noia ci fu. E pure relativamente presto. Lo conferma René de Ceccatty, in un corposo saggio dedicato all’autore romano:

 

“Moravia traduce in italiano il famoso capitolo di La nausea sulla ‘radice del castagno’ (atto di presunta nascita, nella storia della letteratura, dell’esistenzialismo), traduzione che compare con il titolo Le sei di sera nel secondo numero di “Quaderni internazionali – All’insegna della Medusa”, rivista diretta per Mondadori da Gianna Manzini (marzo 1946).”

 

Evidentemente Moravia rimase favorevolmente colpito dall’opera che si era trovato per le mani: “La traduzione moraviana del capitolo di La nausea è molto precisa e, per la verità, sembra prefigurare in maniera impressionante La noia.”

Catherine Spaak e Horst Buchholz, protagonisti del film ‘La noia’ (1963), tratto dal romanzo di Alberto Moravia, per la regia di Damiano Damiani

Se ne La noia viene accolto il ruolo cardinale dell’albero, non integralmente ne viene adottato il significato perturbante che aveva ne La nausea. Ciò dipende anche dalla diversità delle vicissitudini dei due protagonisti: quella di Roquentin è una progressiva perdita di solidità nella comprensione della realtà scatenata da una serie di eventi ontologicamente sconvolgenti; Dino deve invece le sue sofferenze principalmente all’impossibilità di accettare l’esistenza di Cecilia al di fuori di quegli schemi – di cui il sentimento della noia è l’asse – che gli avevano sempre garantito una certa comprensibilità della realtà e quindi un legame intrinseco tra questa e il protagonista.

Il ruolo che l’albero svolge ne La nausea – quello di elemento sconvolgente, che rompe l’equilibrio iniziale, per dirla con le parole di Propp – è ricoperto, ne La noia, da Cecilia, con la sua inspiegabilità di personaggio piatto.

L’edizione francese del 1958 de ‘La nausea’ di Sartre, curata dalla casa editrice ‘Le livre de poche’, che scelse come copertina proprio l’albero di castagno, tra gli elementi centrali del romanzo

Quel che Moravia propone nell’epilogo del romanzo e con l’apparizione dell’albero – che è  certo un qualcosa d’altro rispetto al protagonista, che non evidenzia legami o relazioni con lui, ma che però è, al contempo, anche in grado di rassicurarlo e di insegnargli l’accettazione delle cose per come sono – potrebbe essere letto come una sorta di alternativa, quasi più leopardiana, alla soluzione indicata da Sartre: Roquentin farà dell’arte lo strumento con cui combattere la verità mostratagli dalle sue rivelazioni.

Dino, però, – che dell’arte si è già servito e che ha già subito una dura sconfitta nella sua lotta per la comprensione della realtà – si rassegnerà a vivere senza accanirsi a penetrare le cose troppo a fondo sotto la loro apparenza.

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