Di liquidi ed atomi: alcune riflessioni a partire da Ho 16 anni e sono fascista di Christian Raimo

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Enrico Ruffino, Venezia –

In una società liquida – in cui ogni pilastro “solido” si dissolve in maniera così repentina da non poter essere nemmeno notato – vale ciò che Zygmunt Bauman ci diceva in un ormai preistorico 2000:

 

“abbandonate ogni speranza di totalità, futura come passata, voi che entrate nel mondo della modernità liquida

 

Proprio questo punto – l’impossibilità di una “totalità”, ossia di “solidità” in ogni aspetto della vita – è ciò che potrebbe differenziare in maniera netta il nostro ingombrante passato dal nostro fluido presente: il capitalismo pesante, dal capitalismo liquido; il fascismo solido, dal fascismo liquido (se di fascismo è giusto parlare); la sinistra solida, dalla sinistra liquida. Insomma, la società pesante dalla società liquida. Il passato dal presente.

È ciò che, ad avviso di chi scrive, non riesce pienamente a cogliere Christian Raimo nella sua – a tratti bella – indagine sui ragazzi e l’estrema destra (Ho 16 anni e sono fascista. Indagine sui ragazzi e l’estrema destra, Piemme, Milano 2017), un’indagine su vasta scala che lo scrittore romano ha voluto dedicare ad un mondo – quello giovanile – che conosce bene in quanto insegnante negli istituti superiori.

Il testo è in ogni sua parte un testo politico: di “antifascismo militante”, che l’autore auspica e suggerisce come farmaco ai pericoli generati dalla retorica del neofascismo seducente e modaiolo, tutto teso a mostrarsi come alternativa alle confusioni della globalizzazione e alle distrofie di una sinistra ormai persa nel liberismo blairista.

Ma proprio sul rimedio e sul “pericolo” chi scrive ha qualche obiezione da muovere allo scrittore capitolino. Nei passi seguenti vorrei spiegare perché questa indagine pecca di scarsa consapevolezza in merito alla liquidità del nostro presente.

Il testo, che si compone empiricamente di mesi di ricerca sul campo, ci illustra e a tratti illumina su alcuni aspetti della nuova morfologia dell’estrema destra italiana. Indottrinamento, proselitismo, confusione ideologica, coinvolgimento nelle grandi paure della globalizzazione, assenza di un’educazione antifascista nei più giovani: sono questi i temi che Raimo individua come fondamento del “successo” dell’estrema destra.

In quella che l’intellettuale romano individua come “drammaturgia quasi rituale che i camerati più grandi insegnano ai giovani fascisti”, Raimo colloca l’indottrinamento dei giovanissimi (addirittura di scuola media) studenti, sedotti da “slogan roboanti e retorici” e “marchi d’abbigliamento”, dal desiderio di “ordine” e dalla “disciplina”, da un tunnel senza via d’uscita in cui questi giovani – sedotti – s’imbarcano e da cui molto spesso non riescono ad uscire.

Lo scrittore romano, però, non si limita all’analisi nuda, cruda e fattuale dei risultati ottenuti dalle interviste via via fatte in giro per l’Italia (ma con una predilezione – non credo per ragioni di residenza – per l’universo giovanile di destra capitolino) ma la correda non solo con le carte dei “neri” – addentrandosi nei meandri delle mirabolanti contorsioni analitiche di alcuni intellettuali di estrema destra (come quella dell’ex militante “terzaposizionista” Gabriele Adinolfi) – ma anche con una piccola “bibliografia” di autori antifascisti, da cui espunge – non sempre proficuamente – alcuni temi a mio avviso importanti.

 

Post-fascismo? Fascismo liquido?

Mi soffermo su questo aspetto perché lo scrittore romano cita, tra le altre cose, la riflessione di uno storico italiano (naturalizzato francese) che ha a lungo studiato i fascismi e le seduzioni totalitarie: Enzo Traverso, che in un libro-intervista, edito nella versione italiana da Ombre Corte (I nuovi volti del fascismo, 2017), riflette da storico, rifacendosi al caso francese, sul fascismo di oggi. Vorrei concentrarmi su ciò che dice lo storico genovese perché nell’ambito di questa trattazione mi sembra che sia molto significativo. Traverso ci dice, infatti, che:

 “Il fascismo fa parte della nostra coscienza storica e del nostro immaginario politico. Ma questo riferimento è immediatamente offuscato da molti elementi del contesto attuale, innanzitutto dal terrorismo islamista spesso definito “islamo-fascismo” dai commentatori o dagli attori politici, e poi dal fatto che queste nuove destre radicali si rappresentano come un baluardo contro di esse. Tuttavia, la parola “fascismo”, a ben riflettere, si rivela più come un ostacolo che come un elemento chiarificatore della discussione. Personalmente ho suggerito la nozione di “post-fascismo”, pur preoccupandomi di limitarne i limiti. Questa nozione ci aiuta a descrivere un fenomeno transitorio, in trasformazione, non ancora cristallizzato. […] Il post-fascismo è diverso: nella maggior parte dei casi la sua matrice rimane il fascismo classico, ma se n’è emancipato. Molti di questi movimenti non rivendicano più questa provenienza distinguendosi chiaramente dai neofascismi. E comunque non presentano più una visibile continuità, sul piano ideologico, con il fascismo classico. Se cerchiamo di definirli, non possiamo ignorare questa matrice fascista, senza la quale non esisterebbero, ma dobbiamo considerare anche la loro evoluzione, perché oggi si sono trasformati e si muovono in una direzione di cui ancora non si conosce l’esito. Quando si saranno fissati in qualcosa di nuovo, con caratteristiche politiche e ideologiche precise e stabili, si dovrà coniare una nuova definizione”

Il problema della semantica è il nocciolo della discussione; fin dalla sua ontologia. Fascismo? Cosa intendiamo con questa parola? Traverso, come si può evincere da questo passo, non “prova a riconoscere i nuovi fascismi arrembanti” – come scrive Raimo – ma suggerisce cautela nel definire qualcosa di ancora fluttuante, non definito, anzi in via di definizione, per cui l’etichetta contenente un significato fuorviante rispetto al contenuto ancora sconosciuto rischia di essere – a ragione – un ostacolo per la comprensione (e d’altronde, senza comprendere il nemico come lo si vuole combattere?).

Lo storico, infatti, suggerisce la nozione di “post-fascismo” come qualcosa di politicamente riferibile al fascismo ma emancipato da esso, fluttuante, con “caratteristiche politiche e ideologiche” tutt’altro che “precise e stabili”. Insomma: qualcosa di ancora liquido. A questo punto la domanda è ovvia: esso diventerà mai solido?  

 

 

L’epoca dei “post”

Viviamo infatti nell’epoca dei post: un’epoca post-moderna caratterizzata dalla post-verità che si sviluppa in un luogo virtuale in cui si postano notizie. Si parla di post-democrazia; di post-politica. E il verbo inglese to post – “pubblicare”, “mettere in buca” – deriva dalla preposizione latina post: “dopo”, “dietro”, “poi”.

È tutto ciò che viene dopo il massimo comun denominatore del nostro agire umano: siamo dopo il fascismo ma non riusciamo a definirlo. E la non definizione è la caratteristica della liquidità. L’acqua scorre, scorre e continua a scorrere e potrebbe non solidificarsi mai. Più veloce scorre, meno aumenta la possibilità che possa solidificarsi. Perché l’accelerazione è nemica della solidità. Per questo mi sembra che la definizione di Traverso metta in guardia dagli usi spropositati e devianti del termine “fascismo”.

Bauman, nel suo capolavoro di definizione della società liquida, ha infatti sostenuto che viviamo “nell’epoca dell’incertezza” in cui “il potere può muoversi alla velocità di un segnale elettrico”. Io aggiungerei che il potere, in questo momento (dato che il sociologo scriveva nel 2000), può muoversi alla velocità di un post su Facebook o di un hashtag su Instagram. Implicitamente lo mostra anche Raimo nel suo testo, in cui descrive – inconsapevolmente – le caratteristiche di una parte, forse nuova, della società liquida.

 

Totalità incontemplabile: atomi senza meta?

Per questi ragazzi nati nei primi anni 2000 in piena società liquida, come per il sottoscritto nato negli anni ’90, la “totalità” – che equivale in qualche misura ad una qualsiasi certezza, anche quella di vivere in un regime oppressivo come era quello fascista, cioè il de clic della “presa di coscienza”- non è parola empaticamente conosciuta.

È esistita di contro la totale incertezza della modernità, del benessere precario, sfuggente, della società che scappa dai meccanismi della fissità – del posto fisso, del telefono fisso, di un’identità fissa, dell’incubo di un sentimento fisso, di un pensiero fisso – e dell’individualità, per cui “uno vale uno”, per cui esistono i “cittadini” e non il “popolo”.

Mi pare significativo, a questo proposito, che la scelta lessicale del Movimento 5 stelle (un movimento di giovani) – rivolgersi ai “cittadini” piuttosto che al “popolo” – appartenga ad un campo semantico di ambito civile spinto verso il “singolo“, mentre la parola “popolo” all’esatto contrario: ad una collettività omogenea che porta in grembo un concetto più generale in cui il singolo veniva soffocato dal “collettivo”.

La parola “cittadini” rende, infatti, bene l’idea di “singoli” atomi che compongono una collettività e in questo, forse c’è la potenza dei 5s: in un’epoca in cui la politica e la società sono atomizzate, in cui la singola storia conta più della storia nella collettività, “l’uno vale uno” può diventare fulgido esempio interpretativo della società odierna e spiegare i successi di determinate formazioni politiche.

 

 

I successi dei “populisti”

Raimo ha scritto il suo libro nel bel mezzo del caos elettorale. Nella campagna elettorale più brutta della storia d’Italia, lo scrittore romano ha riportato uno degli avvenimenti clou del periodo elettorale: i fatti di Macerata, quando un candidato della Lega, di sentimenti fascisti, Luca Traini, ha deciso che sparare a degli extracomunitari fosse il modo giusto per fare giustizia nei confronti di Pamela Mastropietro, la ragazza presumibilmente assassinata da extracomunitari di colore.

In quel contesto, si sono visti tutti gli isterismi del nostro presente e della società in cui viviamo: da un lato quell’universo di sentimenti eversivi – capeggiato da personaggi passati dal terrorismo degli anni ‘70 alla latitanza degli ’80 fino al ritorno dei ’90 – che cavalcavano l’onda e gridavano, salvo poi cancellare i post, alla “sostituzione etnica!” (e si noti: questo nuovo universo di destra non usa un linguaggio “razziale” ma “etnico”, per cui si grida all’invasione culturale piuttosto che biologica), dall’altro tutto un universo di sinistra che avrebbe gridato al “pericolo elettorale” salvo rimanere attonito dinanzi alla debacle elettorale di Casa Pound e Fn (ci si era messi persino in guardia da una loro possibile entrata in parlamento!) in favore dell’exploit leghista e grillino. Ora, ci si dovrebbe chiedere a cosa è dovuta la debacle dell’estrema destra e a cosa, invece, l’exploit della destra populista. Ma anche qui si dovrebbe parlare di semantica.

 

 

Uno vale uno

Si parla sempre ed incessantemente di populismi ma non si definisce mai con precisione che cosa intendiamo con questo termine (lo ha fatto notare anche Marco Revelli nel suo Populismo 2.0, Einaudi, Torino 2018). E soprattutto non si riflette abbastanza sul fatto che quelle stesse formazioni politiche che noi generalmente inglobiamo in questa accezione hanno avuto un grande impulso mediatico dal web, piuttosto che dalla normale “informazione” ufficiale.

In altre parole, tanto per citare un esempio, mentre i principali mezzi di informazione statunitensi s’impegnavano in una impressionante campagna stampa contro Donald Trump, sul web avveniva l’esatto opposto: un’impressionante campagna web in favore del tycoon newyorkese.

Con la conseguenza che mentre si attaccava Trump per vie ufficiali, lo si lodava per vie traverse con l’unica, grande ed impressionante motivazione che “la stampa ufficiale è venduta”, “ci raccontano da anni bugie”, “non ci prenderanno più in giro”, “mi informo da me”. Ecco, riflettendo: uno vale uno, il singolo conta più della collettività, l’informazione è autonoma, personale.

Insomma, l’atomismo di milioni di persone che credono di avere ragione singolarmente e non collettivamente come avveniva in passato con le “grandi chiese ideologiche”, direbbe il filosofo Maurizio Ferraris (Post-verità e altri enigmi, Bologna, Il Mulino 2017)

Raimo sostiene che “quello che non viene mai ribadito a sufficienza è che il populismo e l’antipolitica non sono il fascismo. Il populismo e l’antipolitica possono creare le condizioni per cui un fascismo può diventare un elemento culturale trasversale a varie forze politiche, o le condizioni per cui formazioni fasciste acquistano sempre più spazio e legittimazione”.

Non essendo così propenso a pensare alla storia con una volgare idea vichiana di cicli e ricicli infiniti in chiave statica, mi sembra che una discussione sui termini e sulla loro semantica possa aprire nuovi scorci interpretativi per capire il nostro presente e i pericoli della modernità. Capire dunque ciò che Traverso ci dice in merito ad un fenomeno di cui ancora non abbiamo contezza, di ancora non stabile, tanto insidioso quanto pericoloso perché all’uomo memore del passato ciò che fa più paura è l’ignoto.