E se la storia fosse andata diversamente? Il complotto contro l’America di Philip Roth

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Francesco Bastianon, Venezia –

Il complotto contro l’America è una storia difficile da raccontare. Anche se non è mai accaduta. È una non-storia, un’ucronia, alcuni l’hanno definita fantapolitica, ma c’è di mezzo anche l’autobiografia. “Com’è possibile?” si potrebbe ribattere. Più sensato sarebbe chiedersi, invece, come non sia possibile. Come non è possibile che un uomo carismatico, amico dei nazisti e antisemita, diventi presidente di una nazione democratica come quella degli Stati Uniti d’America, offrendo al popolo la pace invece che la guerra?

Il complotto contro l’America è una brutta storia raccontata magistralmente. Con la stessa maestria del nonno, che ti chiama a sedergli accanto perché ti deve far rivivere quelle sue vecchie storie dei tempi andati, quando lui era bambino e c’era la guerra. Ed amo immaginare che Philip Roth continui a raccontarle così al suo lettore, quelle sue vecchie storie dei tempi andati, quando lui era bambino e c’era la guerra, così come le racconta il nonno.

 

 

È in questo modo che bisogna leggere Il complotto contro l’America: sedendosi a tavola, senza nulla sul piano, fuorché una bottiglia di whiskey e due bicchierini, uno per nonno Philip e uno per sé (ma non si dica ai genitori che il nonno fa bere ai nipoti gli alcolici e racconta queste brutte storie). Si versa e si resta ad ascoltare cos’ha da dire Philip Roth.

L’abilità del grande narratore trascinerà nell’infanzia dell’autore, nella comunità ebraica di Newark, i cui abitanti, perfettamente integrati nella società americana, conducono pacificamente ed onestamente le loro vite. Il padre, Herman, è un modesto assicuratore; la madre, Bess, una casalinga diligente e fiera promotrice dell’Associazione genitori-insegnanti della scuola del quartiere.

Il fratello, Sandy, è straordinariamente portato per il disegno, mentre Philip, sette anni, “ispirato, come milioni di altri
ragazzi, dal primo filatelico del paese, il presidente Franklin Delano Roosvelt”, ama collezionare francobolli.

 

“La nostra patria” dice Roth “era l’America. Poi i repubblicani nominarono Lindbergh e tutto cambiò.”

È il 27 giugno 1940. In Europa infuriavano i nazisti; due giorni prima la Francia si era definitamente arresa all’invasore tedesco. Le paure di un nuovo e sanguinoso conflitto attraversano in volo l’Oceano e atterrano alla convention repubblicana, dalla quale dovrà uscire il nome del candidato alle future elezioni presidenziali.

Lo stallo dura per sei votazioni, finché “l’eroe bello, alto e asciutto, un uomo agile dall’aria atletica che non aveva ancora quarant’anni”, Charles Lindbergh, il primo aviatore ad aver compiuto in solitario una traversata dell’Atlantico, “arrivò in tenuta di volo, essendo atterrato col proprio apparecchio all’aeroporto di Philadelphia solo qualche minuto prima”.

Personaggio storico controverso, Lindbergh, con la moglie Anne, aveva patito il rapimento e l’assassinio del neonato primogenito, un evento scandaloso a seguito del quale la coppia aveva lasciato gli Stati Uniti per stabilirsi in Inghilterra, da dove Charles più volte era partito in visita nella Germania nazista; fu persino ricevuto e decorato cerimoniosamente dal maresciallo dell’aria Hermann Göring.

 

“Lindbergh fu il primo celebre americano vivente che imparai a odiare – proprio come il presidente Roosvelt fu il primo celebre americano vivente che mi insegnarono ad amare – e così la sua nomination da parte dei repubblicani come avversario di Roosvelt nel 1940 rappresentò l’attacco più violento che fosse mai stato sferrato contro quella ricca dotazione di sicurezza personale che io avevo dato per scontata come figlio americano di genitori americani in una scuola americana di una città americana in un’America in pace col mondo.”

Il candidato repubblicano basa tutta la campagna elettorale su di una convinta opposizione all’intervento americano nello scenario bellico in Europa, fino a vincere le elezioni, sconfiggendo il candidato democratico Roosvelt. Inizia, così, per il piccolo Philip e la sua famiglia, un incubo silenzioso e strisciante, fatto di un’intolleranza istituzionalizzata, certo, ma anche spontanea e ben radicata nella società americana.

 

 

Lo spettro dell’antisemitismo minaccia e assedia la placida comunità di Newark e le tensioni, le paure, che, da presenze fantasmatiche, si fanno sempre più concrete, dilacerano la stabile famiglia Roth. Ma, nell’esasperante situazione in cui si trovano a dibattersi i personaggi poderosamente messi in scena da Philip Roth, emergono figure modestamente eroiche, persone comuni come Herman o Bess, che soffrono e manifestano cedimenti e, tuttavia, resistono e stringono tenacemente i denti per sopravvivere all’andamento inquietante che sta prendendo la storia.

Nel fitto delle trame de Il complotto contro l’America, ragazzi come Alvin, cugino di Philip, stremato dall’immobilità e ansioso di andare incontro agli eventi, con il solo risultato di essere travolto dal loro corso; uomini come Lionel Bengelsdorf, coltissimo rabbino che si propone come mediatore tra il potere e la componente ebraica, o come Walter Winchell, caustico giornalista ebreo che ricorre alle mosse più disperate per tentare di arginare la deriva antisemita, persone come loro, inermi di fronte agli accadimenti, combattono, ciascuna a modo proprio, per evitare la fine.

Nonno Philip sorride beffardo, il lettore, invece, ha stampato sul volto un mezzo ghigno isterico. Si è appena lasciato cullare dalla sintassi pacata e distesa del grande romanziere, la distensione sintattica di chi si prende il suo tempo per raccontare le vicende e se ne compiace; si è lasciato trasportare nelle digressioni sui francobolli; si è lasciato trascinare dall’incalzante susseguirsi degli eventi più avvincenti. Eppure gli rimane una profonda inquietudine.

 

 

È l’inquietudine eterna dell’uomo contro la Storia: la Storia che scorre tra le vette delle grandi date, ma anche quella dell’uomo comune, che ignora se con le sue scelte contribuisce a tessere le trame di un complotto oppure no.

 

“La storia è tutto ciò che accade dappertutto. […] Anche quello che succede in una casa a un uomo qualunque: anche questo domani sarà storia.”

 

È l’inquietudine di Herman Roth.

 

“Era impotente a fermare l’imprevisto. E come l’elezione di Lindbergh non avrebbe potuto chiarirmi meglio, lo svolgersi dell’imprevisto era tutto. Preso alla rovescia, l’implacabile imprevisto era quello che noi a scuola studiavamo col nome di «storia», la storia inoffensiva dove tutto ciò che nel suo tempo è inaspettato, sulla pagina risulta inevitabile. Il terrore dell’imprevisto: ecco quello che la scienza della storia nasconde, trasformando un disastro in un’epopea.”

 

Philip Roth ci lascia in eredità un prezioso insegnamento: che è andata com’è andata, ma poteva andare diversamente.