Il contorto coerente. Rivoluzione nazionale, rivoluzione culturale e rivoluzione personale nella vita e nel pensiero di Delio Cantimori

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Enrico Ruffino, Venezia –

È stato lo storico più discusso, più criticato e allo stesso tempo più amato degli ultimi anni. Ha diviso gli storici tra chi ne ha rivendicato il ruolo di “buon maestro” del metodo e della correttezza filologica e chi, invece, ne ha denunciato gli insegnamenti da “cattivo maestro”, soffermandosi sulla politica e sostenendo le sue inclinazioni “nazibolsceviche”.

Ci sono stati gli illustri ex alunni – tra cui Carlo Ginzburg, Adriano Prosperi e Giovanni Miccoli – che non hanno esitato a studiarlo, ricordarlo ed elogiarlo. Poi ci sono stati i tentativi di interpretazione dura e pura, vecchia scuola, come quelli del compianto Innocenzo Cervelli che lo hanno indagato nei meandri più oscuri, ma pur sempre coerenti, del suo pensiero restando sempre e comunque nella sfera della possibilità.

Stiamo parlando di Delio Cantimori: genio dal lato oscuro o semplice uomo con le sue debolezze?

 

 

La rivoluzione nazionale

Chi si è approcciato almeno una volta allo studio dello storico romagnolo si sarà accorto che una vera, grande ossessione lo ha accompagnato per tutta la vita: la rivoluzione nazionale.

Un concetto che porta in grembo un’educazione familiare di stampo mazziniano, che racchiude gli insegnamenti di un padre severo, di un preside di scuola ateo e repubblicano, secondo cui la “rivoluzione nazionale” – appunto – era alla base della vita o, per meglio dire, dell’esistenza stessa.

Infine la Normale di Pisa, cui approdò negli anni ’20 nel momento in cui l’idealismo gentiliano dominava la cultura italiana. Quindi, filosofia e storia volte alla “ricerca delle origini della Nazione”, durante il fascismo, in cui il metodo veniva occultato dal senso più comune della ricerca delle “origini”, della giustificazione di un percorso che dagli antichi romani doveva concludersi inevitabilmente col fascismo.

E poi la politica, quel dannato e incomprensibile perno esistenziale che avrebbe logorato il giovane studente animato da una passione snervante per la Germania e i suoi storici – Droysen e Buckhardt – due storici apparentemente antitetici, ma uniti nel concepire la storia come ricerca del passato per avere consapevolezza del presente.

La politica, dunque, si commistiona con la storia e con la filosofia: certo perché anche la Germania nazista, su cui si è basata tutta la recente polemica su Cantimori, era da lui intesa come nient’altro che un processo prettamente dialettico – tesi, antitesi e sintesi – per cui l’unico sbocco di un sistema capitalistico non poteva essere che un totalitarismo, come un mero rigetto – un rifiuto – del sistema incentrato sul capitale.

Da qui, poi, la voce onore sul “dizionario del fascismo” che si animava sì dallo spirito dell’epoca di un giovane intellettuale fascista, animato però dal desiderio di comprendere: infatti su questa dialettica, arrivati poi alla fine degli anni ’30, quando la tragedia aveva compiuto il suo corso e la guerra diventava uno spettro sempre più reale, Cantimori si avvicina al comunismo.

Ciò avviene certamente attraverso la sua compagna, Emma Mezzomonti, traduttrice di Marx, ma anche perché vivere in prima persona la tragedia delle guerre razziali, non capirla stando immobili, ritrovandosi di colpo senza gli amici e i nemici di un tempo, porta a capire che quel sistema non è nemmeno la sintesi dialettica di cui si era parlato negli anni precedenti. È un abominio.

Allora si vira, si analizza, si guarda con curiosità scientifica ad altro, perché evidentemente né il fascismo né il nazismo potevano rappresentare l’aspirazione: e il comunismo?

 

 

Gli eretici

In quegli anni Cantimori si getta a capofitto nella ricerca. È ossessionato dagli “eretici”, dai “ribelli” e dai dissidenti religiosi: vuole capire se e come questa dissidenza si è formata, cosa li ha spinti a rifiutare i dogmi di un’istituzione – quella ecclesiastica – dominante e includente.

La sua tesi di laurea alla Normale si era incentrata sulla figura di Bernardino Ochino, il cappuccino eretico perugino, vissuto nella prima metà del ‘500, e da lì aveva cominciato, comprendendo di dover cambiare il metodo d’indagine, a viaggiare in lungo e in largo per l’Europa alla ricerca delle tracce della dissidenza italiana.

Ne aveva concluso, nel ‘32, che attraverso una rivoluzione metodologica dettata dall’umanesimo, e in particolare dagli insegnamenti di Lorenzo Valla, questi personaggi avevano appresso che attraverso il metodo scientifico, di ricerca, avrebbero potuto contestare – argomenti alla mano – i dogmi della chiesa e liberarsi da un precetto imposto. Così, in una lettera all’amico e collega Roland Bainton, spiegava il suo lavoro:

 

“Il mio lavoro verterà sul gruppo eretico basileese-zurighese…tenderà soprattutto a mostrare l’unità di pensiero fondamentale fra questi uomini, l’importanza delle esegesi del Valla per le loro concezioni, ed il fondamentale mutamento che essi portano alla vita religiosa…metterò in rilievo non solo l’importanza del metodo del Valla per la loro critica, ma anche come essi elaborino alla luce del concetto di libertà religiosa, il concetto di “Coscientia”, che da Gewissen diventa poco a poco bewusstsein; e come il problema del metodo degli studi ( affrontato da quasi tutti nel loro campo scientifico speciale) sia lo di guida anche nella ricerca religiosa”
Delio Cantimori to Roland Bainton (Basel, 21 may 1932)

 

Da Gewissen a Bewusstein. Dalla Coscienza alla Consapevolezza: Cantimori era rimasto completamente ammaliato da questa prospettiva. Ovvero dalla possibilità che una ricerca, empiricamente fondata, e un metodo di lavoro potessero generare una “rivoluzione”, un movimento unitario che, a partire da uno studio scientifico, riuscisse a mettere in crisi il potere dominante.

D’altronde con il fraterno amico d’oltreoceano, Bainton, condivideva la passione per l’eretico per eccellenza, il monaco agostiniano Lutero, che da Wittemberg aveva creato un movimento riformatore attraverso uno studio che si era trasformato in obbedienza alla propria coscienza, un desiderio di approdare alla propria “libertà religiosa” che sarebbe stata sintetizzata in una semplice e perentoria affermazione: “io sto saldo”.

Senza spargimenti di sangue, senza la “spada” ma solo con la “filologia”, con lo studio; e non a caso, proprio su questa prospettiva, Cantimori avrebbe sottolineato, nel saggio su Lutero in calce ai Discorsi a tavola:

 

“È il principio della libertà (non più diritto, ma svincolamento da ogni limite legale e tradizionale) della ricerca scientifica, garantita dalla serietà, dallo zelo, dalla diligenza, dalla laboriosità proba dello studioso; cioè, da quella indeterminata e indeterminabile simbiosi di intelletto e di coscienza che fu a fondamento del grande “non posso” di Martin Lutero: è una simbiosi, un intreccio fra “scienza”, conoscenza, dottrina e “coscienza” o onestà di fronte a se stessi, condizionata o meno da secoli di rapporti sociali, di costume, politici, ispirati ad un sentimento comune di lealtà, quasi infantile, eppure esplosivo se fornito di solida dottrina”
(D. Cantimori, Martin Lutero, in M.Lutero, Discorsi a tavola, Torino, Einaudi 1969, p. LXXIX)

 

Era un principio fondamentale che lo avrebbe portato, conclusa la guerra e approdati gli scorni, ad una nuova e radicale decisione: abbandonare ogni tipo di forma politica.

 

Roland Bainton

 

La rivoluzione nazionale…con altri mezzi

Alla fine della seconda guerra mondiale lo storico romagnolo sarebbe approdato al Partito Comunista. Il suo interlocutore, il solito Bainton, non avrebbe invece capito la scelta del suo amico oltreoceano:

 

“I asked him why, but he declined to answer on paper. Years later we met in London. “Now why” I asked him. “Because” he said “I wanted for Italy what the Puritan Revolution did for England, the American for America, and the French for France”. “But you sound like a Western liberal. Why a communist? “Because the Communist Party in Italy is the only party which will not make a deal with the church”
(R. Bainton, Roly: Chronicle of a stubborn non-conformist, Yale, Yale Univ.divinity school, 1988, p.95)

 

Il partito comunista è l’unico partito che non farà patti con farà patti con la chiesa”. Ci sarebbe da scrivere un intero saggio solo su questa frase ma noi ci limitiamo a sottolinearla per il semplice fatto che un americano non avrebbe mai potuto capire come e perché un ex fascista, studioso di eretici cristiani, fosse approdato al Partito Comunista.

Eppure la linearità di pensiero cantimoriana si diramava su una linea retta: quella della rivoluzione nazionale. E infatti: “io voglio per l’Italia quello che la rivoluzione puritana fece l’Inghilterra”. Nel ’56 però, quando i fatti d’Ungheria avrebbero creato una frattura insanabile tra gli intellettuali comunisti e il partito, Cantimori, questa volta, avrebbe totalmente capitolato, arrendendosi alla politica.

Se nemmeno il comunismo era la strada giusta per la “rivoluzione” della nazione, se dopo il tortuoso percorso, questo rappresentava l’ennesimo fallimento, il problema sarebbe diventato ontologico: la politica in sé. E infatti:

 

“Lei mi domandò perché professavo certe idee. Devo dirLe che, mentre mantengo tutte le mie convinzioni riguardo alla necessità di cambiamenti profondi nella vita del mio Paese, gli avvenimenti ultimi mi hanno così toccato, che ho creduto in coscienza di non poter più dare il nome a nessuna organizzazione politica: la lezione degli Anabattisti e dei mennoniti, e quella del grande storico G. Arnold sono diventate evidenti e intuitive, dopo gli avvenimenti in Ungheria, anche per me. Le dico questo perché lei mostrò interessarsi a me, quest’estate, a Londra; ho molte volte pensato alle sue domande di allora, in questi ultimi mesi. Le chiede scusa se Le parlo tanto di me. Ma sento e credo che Lei deve sapere che sono uscito dal partito al quale appartenevo, per le ragioni che le ho detto”
Delio Cantimori to Roland Bainton (Florence, 10 january 1957)

 

Il dramma si era compiuto. Ma questa lettera a Bainton apriva nuovi spiragli e nuove prospettive: gli eretici diventavano totem attraverso cui lo studioso vedeva se stesso e quello che l’Italia sarebbe potuta essere. Con la consapevolezza della ricerca, del metodo e della precisione filologica si sarebbero potuti compiere i tanto sperati “cambiamenti profondi nella vita del proprio paese”.

Infine Cantimori, abbandonando ogni velleità politica, si dedicò con grande entusiasmo, e qualche lamentela, al suo ruolo d’insegnante e consulente Einaudi: la rivoluzione si poteva ottenere… ma con la cultura.

 

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