Il ritorno delle “piccole patrie”: due approcci storici all’analisi di un fenomeno del presente

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Enrico Ruffino, Venezia –

In principio erano gli Stati. Poi sono arrivate le “piccole patrie”. In questi anni, stravolgimenti e le grandi nazioni si sono amalgamate con i piccoli cosmi: dalla riscossa nazionalista delle grandi Nazioni – Francia, Inghilterra e Stati Uniti – abbiamo assistito ad un revival dei microcosmi all’interno di nazioni poco identitarie: Spagna, Italia e Belgio. È la riscossa dei microcosmi che rispondono – esattamente come le grandi nazioni – alle distrofie della globalizzazione.

 

Nazioni composte da “patrie”.

Qualche tempo fa lo storico Mario Isnenghi era pronto ad ammettere che la parola “Patria” era un qualcosa di troppo forte e troppo evocativo per poterla pronunciare. Per la generazione di Isnenghi, quella dei nati negli anni ’30 del ‘900, il termine era infatti un’associazione ad un passato funesto, troppo lontano e allo stesso tempo troppo vicino per essere ignorato.

Certo, era il termine dei suoi soggetti di studio (i giovani borghesi della prima guerra mondiale), l’imperativo categorico che li aveva mossi all’ubriacatura del conflitto, ma terminata la seconda guerra mondiale ed essendo approdati alla guerra fredda, il termine era diventato un tabù, e chi lo pronunciava stava dalla parte sbagliata.

Un po’ com’era avvenuto con un altro concetto più incisivo e più complesso, che associava chiunque lo pronunciasse al fascismo piuttosto che ad una corretta categoria storiografica: la “guerra civile”, che era infatti un termine inteso come fascista, prerogativa dei “repubblichini”, che lo avrebbero usato per distogliere l’attenzione dalla questione della “liberazione”.

In realtà, lo avrebbe detto con un magistrale ed imponente saggio Claudio Pavone, la Resistenza fu una guerra “civile” ma anche di “classe” e “patriottica”. Sebbene quest’ultimo tema echeggi nel saggio di Pavone, però, la “Patria” non esiste più: nessuno, in Italia, se non qualche nostalgico, parla di “Patria” o di spirito patriottico.

Nessuno è pronto a ribadire di vivere in “Patria”. Anzi, si tratta del contrario: si parla di patrie, di appartenenze, di identità. Al plurale, non al singolare. Visti i fallimenti della globalizzazione, del libero mercato e delle frontiere aperte, la pluralità delle patrie all’interno di Nazioni identitariamente deboli non sorprende affatto.

Anzi, risulta essere una spia di un qualcosa che si muove all’interno di territori con storie ed economie radicalmente forti. La Serenissima e il Miracolo economico del Veneto; la prosperità e la locomotiva catalana; la ricchezza delle Fiandre. Insomma, territori che sì sono ricchi, ma hanno anche un ricco bagaglio storico alle proprie spalle.

Eppure sono storie all’interno di una Storia, quella nazionale, che non può essere ad oggi totalmente elusa dall’economia. Il Veneto è anche Italia, le Fiandre sono anche Belgio e la Catalogna è anche Spagna. E tutte condividono esperienze comuni che sono in interconnessione le une con le altre. Siamo nell’ambito di nazioni al cui interno pulsano sentimenti patriottici microcosmici, regionali e locali: all’analista e allo storico questo elemento non può sfuggire.

 

 

Analisi micro e analisi macro

A ben vedere la “scala di osservazione” nell’analisi dei fenomeni è risultata in molti casi necessaria ed estremamente utile. Recentemente in un saggio che questa rivista ha recensito, Il Manifesto per la storia, alcuni storici americani hanno sostenuto ed invitato i colleghi ad uscire dalla cappa del proprio eruditismo per approdare a metodi di analisi realmente utili, che possano – coniugando lo sguardo micro con quello macro – dare un quadro esaustivo della realtà storica e rendere meno opaco il presente.

Si è a tal proposito parlato di un ritorno alla longue durèe di braudeliana memoria e si è stati invitati ad utilizzare questa inclinazione metodologica portandola alle estreme conseguenze: non solo “lunga” durata ma anche “infinita”, senza limiti di tempo, che si spinga fino alle origini della nostra Storia.

Di per sé questa prospettiva è radicale. E appare per certi versi inapplicabile: a meno che un ricercatore non voglia dedicare tutta la propria vita ad una singola ricerca, può solo – utilizzando questa prospettiva – spingersi ad ipotesi di lavoro. Ma l’obiezione più sincera che possa venire dinanzi a questi intenti è però un’altra: serve davvero spingersi così indietro? Ad analizzare le esigenze del presente, a non svincolarsi dalla quotidianità, si direbbe proprio di no.

I recenti avvenimenti hanno dimostrato, di contro, che il presente ha bisogno tanto di una scala di osservazione “micro” quanto di una “macro”: e con quest’ultima non si vuole intendere di “lunga durata” quanto piuttosto di lunga ampiezza geopolitica, muovendosi tra le connessioni e le interconnessioni tra gli Stati, i governi e le economie in un modo globalizzato.

Viviamo infatti in un modo estremamente connesso, e non solo virtualmente, in cui i transfer culturali e sociali assumono proporzioni bibliche ma nche strette temporalmente. Se vogliamo capire la questione catalana, non serve spingerci fino all’unione dinastica tra Ferdinando di Aragona o Isabella di Castiglia, né tantomeno guardare solamente al franchismo: serve piuttosto analizzare che tipo di interessi e di vincoli sono esistiti e continuano ad esistere tra la Catalogna e l’estero.

Potremmo ad esempio riflettere sul sentimento catalano, sul perché i catalani non si sentano spagnoli; ma una volta che si vogliano analizzare a fondo le questioni e le implicazioni del referendum, ci si dovrebbe spingere oltre e riflettere sulle connessioni, sulle diramazioni e sulle prospettive strategiche che compongono la questione catalana.

Ci siamo – ad esempio – dimenticati che la Catalogna è la regione in cui il Qatar ha più investito negli ultimi anni e che quest’ultimo è entrato in rotta di collisione con i vicini sauditi? Come si può vedere, ragionare su questi aspetti induce ad utilizzare un duplice sguardo interpretativo: da un lato serve orientarsi tra le questioni interne, micro, che producono effetti locali e servono a capire come effettivamente i catalani hanno e sentono ancora la propria identità; dall’altro invece cosa si muove all’esterno, in uno scenario globale, ineludibile per capire la contemporaneità.

 

 

Storicizzare il presente

Una questione di metodo, dunque. Eppure guardare – e a questo punto, guardarci – con lo sguardo storico risulta estremamente complicato. Le violenze di questi ultimi anni hanno distorto il quadro, innestando un processo di paura e terrore di fronte alla minaccia terroristica.

Essa, unita all’escandescenza dello Stato Islamico nel medio-oriente (oggi, per fortuna, sedata), ci ha coinvolti in una percezione strana, immobilizzante: di fronte alla violenza bieca, agli attenti senza un perché, abbiamo percepito di essere inermi di fronte al terrore. E di cedervi.

In realtà, lo sguardo storico potrebbe aiutarci a capire solamente che la violenza ci scandalizza per il semplice fatto che non ci siamo più abituati: passate le violenze del ‘900, passate anche le violenze del terrorismo di stampo politico e mafioso, abbiamo vissuto un periodo di relativo benessere in cui la violenza, per noi europei, è stata minima.

Tralasciando il grande impatto delle Torri Gemelle, nulla può paragonarsi alle violenze del terrorismo degli anni ’70 né alle atrocità dei primi cinquant’anni del ‘900. Nulla, rispetto al passato, può dirci che oggi persiste più violenza rispetto al passato. Si tratta di una percezione, di un senso di straniamento dettato dal benessere che, tuttavia, non soddisfa molti ma pochi: altrimenti né le spinte autonomiste e secessioniste, né il terrorismo potrebbero spiegarsi. Una questione di vedute: analizzare il micro e macro appare oggi una prospettiva necessaria. Riflettiamoci.

 

 

Giuseppe Catterin, Venezia –

Il 22 ottobre scorso, l’orologio della storia ha scandito la mezzanotte di un nuovo inizio nel corso degli eventi dell’Italia repubblicana: per la prima volta dalla loro istituzione formale, avvenuta solamente nel 1970 nonostante la loro presenza – seppur teorica – fosse stabilita già dalla Costituente, due regioni a statuto ordinario, la Lombardia e il Veneto, chiedevano maggiori forme di autonomia, mediante una interrogazione referendaria e in ottemperanza a quanto indicato dagli articoli 116 e 117 della Costituzione, sulla scia della riforma del capitolo V della Carta costituzionale.

La svolta epocale, se così si può definire, non si prefigura, tuttavia circa le richieste avanzate dalle due regioni, giacché in passato sia la Lombardia e sia il Veneto avevano presentato istanze analoghe (rispettivamente, nel 2007 e nel 2008), bensì per la modalità messa in campo: il Referendum, seppur di natura consultiva, voluto e organizzato da Milano e Venezia rappresenta, infatti, un unicum nelle vicende della Repubblica Italiana.

Ridurre quella storica – nell’accezione originaria del termine, scevra da qualsivoglia connotazione politica – giornata di ottobre a conseguenza naturale dell’atavico mal di pancia provato dalle comunità delle “locomotive d’Italia”, comporta, tuttavia, alcuni rischi.

 

 

 

In primis, pur presentando il pregio di fornire una prima risposta, implica un errore grossolano di fondo: l’immediatezza di siffatto responso non tiene in considerazione una vasta, a tratti molteplice – se non, addirittura, imperscrutabile – varietà di fattori.

Al di là dell’esito del quesito referendario, scontato e ampiamente preventivabile, l’alta partecipazione popolare registrata, in particolar modo nel caso Veneto, rappresenta un dato di fatto, connotato certamente da aspetti inoppugnabili – soprattutto se paragonati ad altri Referendum di interesse nazionale – ma che non può spiegare solamente mediante l’utilizzo di teorie che traggono il nutrimento esistenziale da radici che si sviluppano profondamente nell’humus del più classico gergo della politica.

Volendo riflettere in ottica di “longue durée” di braudeliana memoria, il ragionamento deve, a mio avviso, partire attravero un percorso a ritroso nel tempo, che ha un punto di partenza ben preciso: il biennio 1404-1405, lasso di tempo in cui la città di Venezia, considerati troppo stretti gli angusti spazi della gronda lagunare, decise di lanciarsi nel processo di assoggettamento delle città venete che, iniziato nel Trecento con il Trevigiano, comportò la formazione dello “Stato da Tera”.

Al di là dell’intricata mitopoiesi tipica della Serenissima, se c’è un aspetto che caratterizzò i domini di Terraferma, questo fu l’assetto giurisdizionale che si diede Venezia: alle città soggette era, infatti, permesso di mantenere le proprie normative statutarie, in cambio di un giuramento di fedeltà. Anzi, in taluni casi, il governo veneziano si fece garante delle consuetudini presenti in loco o, come nel caso della Riviera del Garda, mantenne la libertà delle comunità locali, schermandole da eventuali riscosse di comitatinanza cittadina.

Questa particolare forma dell’apparato statuale garantì a Venezia una indubbia fedeltà delle proprie città suddite che, a vicende alterne, nonostante gli sconvolgimenti patiti durante la crisi cambraica, contraccambiarono le libertà con, in talune circostanze, esempi di profonda dedizione, effetto anche di un certo pragmatismo veneziano: ai rettori delle città di Terraferma, che fossero venete o lombarde, era prescritto di non interferire nelle questioni locali, pena l’immediata rimozione dall’incarico.

 

 

Il trattato di Campoformio pose certamente fine alla plurimillenaria storia marciana, ma non riuscì a sradicare dalle coscienze delle popolazioni lombardo – venete che, proprio inneggiando a San Marco, tentarono di sbarrare l’avanzata dell’esercito napoleonico, il ricordo di questa esperienza storica, indelebilmente impressa nel corredo genetico delle popolazioni di questi territori.

N’è riprova, in tal senso, la celeberrima intervista che Antonio Bisaglia concesse, nel dicembre del 1982, ad un giovane Ilvo Diamanti: il rappresentante di spicco della Dc veneta, fu il primo a postulare una riforma federale della Democrazia Cristiana, rea, a suo avviso, d’essere diventata troppo centralista e burocratica.

Insomma, come ebbe modo di definirla Luca Zaia, la “questione veneta” non è nata il 23 ottobre: essa, molto probabilmente, è figlia della concezione storica che il Veneto nutre nei confronti dello Stato.