L’invenzione della memoria: revisionismo storico e narrazioni egemoni nelle democrazie illiberali d’Europa

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Benedetta Giuliani, Roma –

I paesi del “gruppo Visegrad”– Polonia, Ungheria, Slovacchia, Repubblica Ceca – rappresentano uno schieramento definito all’interno dell’Unione Europea. Come noto, i “quattro di Visegrad” sono interessati da dinamiche politiche simili, riassumibili in un processo di progressivo indebolimento delle pratiche democratiche e dello stato di diritto.

Gli attacchi condotti all’architettura democratica dei rispettivi governi da parte di partiti come l’ungherese Fidesz o il polacco Giustizia e Libertà sono coerenti con la volontà espressa da tali organizzazioni di rompere il legame, proprio della tradizione politica occidentale, tra democrazia e liberalismo e di realizzare una forma di governo illiberale svincolata dal sistema di pesi e contrappesi dei regimi democratici.

All’interno del processo di evoluzione istituzionale in senso autocratico e illiberale che unisce i quattro paesi è possibile individuare un’altra caratteristica in comune, ovvero la tendenza a legiferare sull’interpretazione e la rappresentazione del passato nazionale. Si tratta di un fenomeno osservabile soprattutto in Ungheria e Polonia.

 

I leader del Gruppo Visegrad

 

Il governo ungherese ha da tempo intrapreso un’azione di rielaborazione dell’identità storica dell’Ungheria. L’inizio di questo processo risale al 2000 quando una legge, l’Atto I del 2000, reintrodusse un giorno di commemorazione in onore di re Stefano I.

 

«The preamble briefly summarises the millennial history of Hungary, focusing on the moment of accession to Europe and Christendom. It emphasises the fact that the Hungarian state and nation have survived, but also the role they have played in protecting the Christian Occident».

 

La legge stabiliva inoltre che la Sacra Corona, insegna del potere attribuita a Stefano I, sarebbe divenuta “il simbolo della continuità e dell’indipendenza dello Stato”.

 

La Sacra Corona ungherese

 

Nel 2011 il governo di Viktor Orbán ha approvato un nuovo testo costituzionale il quale regola tanto l’assetto dello stato quanto il senso della sua storia. È con la costituzione del 2011, infatti, che il governo ungherese dà avvio al processo di rimozione del passato comunista del Paese, rendendo norma costituzionale il principio secondo cui il partito comunista precedente al 1989 rappresentava un’organizzazione criminale.

Nello stesso anno è stata approvata la legge che vieta di intitolare i nomi delle vie a figure legate al passato socialista. A cadere vittima di questa damnatio memoriae è stato, tra gli altri, il nome del filosofo marxista Georg Lukács.

Mentre il periodo compreso tra il 1949 e il 1989 è associato all’asservimento della nazione ungherese, gli anni di governo del Maresciallo Miklós Horthy emergono nella retorica promossa da Fidesz come l’ultimo periodo di indipendenza prima della guerra e dell’avvento del comunismo.

Orbán non ha mai fatto mistero di ammirare Horthy e di considerarlo «un grande uomo di stato», sebbene la figura del Maresciallo sia associata alla repressione violenta dei membri della Repubblica sovietica d’Ungheria, il cosiddetto “terrore bianco”, nonché all’alleanza con la Germania nazista durante la guerra.

La memoria di Horthy è stata a più riprese onorata dai rappresentanti dell’estrema destra ungherese non solo a parole ma anche attraverso le immagini. Nel 2013 un busto raffigurante Horthy è stato esposto nella Piazza della Libertà di Budapest.

Significativamente, sul piedistallo è scolpita una croce con su incisa la parola Trianon. È un chiaro riferimento al Trattato di Trianon del 1920 con cui l’Ungheria fu costretta a cedere un terzo del proprio territorio agli Stati confinanti in virtù della riconfigurazione territoriale post-Versailles.

Trianon rappresenta un altro “luogo della memoria” fondamentale nel discorso egemonico costruito dal governo ungherese volto ad alimentare, contemporaneamente, una narrazione vittimista della storia ungherese e uno spirito di rivalsa nazionale.

 

Il busto di Horthy, poco prima di essere svelato durante la sua inaugurazione

 

Nel 2014 il governo ha deciso di erigere un monumento alle vittime dell’invasione tedesca del 1944. L’erezione del simulacro, raffigurante l’arcangelo Gabriele (l’Ungheria) attaccato da un’aquila nera (la Germania), è stata accolta da violente proteste di piazza e dalla critiche della comunità ebraica ungherese la quale ha definito la narrazione vittimista promossa dal governo un’opera di revisionismo storico, volta a minimizzare il ruolo svolto dai collaborazionisti ungheresi nelle persecuzioni antiebraiche.

Secondo lo storico ungherese Laszlo Karsai:

 

what is happening today with regard to the German invasion of Hungary of 19 March 1944 is the realization of the national conservative and Christian historical narrative. Everything that is anti-Communist is praised, and everything that is anti-Fascist [] is as though it doesn’t exist”.

 

 

Monumento alle Vittime dell’Occupazione Tedesca, Budapest

 

Anche nella Polonia guidata dal reazionario Giustizia e Libertà si assiste al crescente uso della Storia come strumento della contesa politica domestica e, soprattutto, internazionale.

Già prima della svolta conservatrice dovuta alla vittoria di Giustizia e Libertà, la Polonia possedeva una legge sulla memoria storica la quale rendeva penalmente perseguibile la negazione dei crimini compiuti dal regime comunista. La ratio di un tale provvedimento va ricercata nell’esigenza di ricordare ciò che durante l’epoca di Stalin e di Chruščëv era stato forzatamente obliato, ovvero il ricordo delle violenze – come il massacro di Katyn – inflitte alla popolazione polacca.

D’altra parte, le ultime incursioni delle autorità polacche nell’ambito della storiografia sembrano dettate non già dalla volontà di conservare la memoria storica bensì dall’esigenza di sfruttarla a fini politici. La Polonia, al pari dell’Ungheria, è impegnata nella costruzione di un discorso storico egemone fondato sull’immagine della nazione come preda di diversi oppressori: i nazisti e i sovietici, prima, l’Unione Europea adesso.

 

Targa affissa alla stazione Gdanska di Varsavia in memoria degli ebrei costretti a lasciare la Polonia nel 1968. I versi, del poeta Henryk Grynberg, recitano: “per coloro che abbandonarono la Polonia dopo il 19 Marzo 1968 con un biglietto di sola andata. Si lasciarono alle spalle più di quanto possedessero”

 

 

È nell’ottica di una polemica sempre più accesa con Bruxelles – e con il suo Stato più potente, la Germania – che va collocata la richiesta rivolta a Berlino da parte di Varsavia di pagare i risarcimenti per i danni provocati dall’occupazione tedesca. È significativo il fatto che il governo polacco avesse formalmente rinunciato al pagamento delle riparazioni in due diverse occasioni, nel 1990 e nel 2004, quando i rapporti con l’Unione e la Germania erano decisamente più distesi.

Recentemente Varsavia ha approvato una legge che vieta di fare riferimento ai lager polacchi e di associare la Polonia alle persecuzioni contro gli ebrei. La legge cerca di rimuovere artificialmente gli episodi di collaborazionismo che videro coinvolti cittadini polacchi e, più in generale, tenta di nascondere dietro un ritratto della Polonia come nazione virtuosa, l’antisemitismo diffuso nella società polacca, ben attestato da episodi quali il pogrom di Kielce del 1946 e la campagna anti-sionista del 1968 che indusse numerosi cittadini di origine ebrea a lasciare la Polonia.

Il nuovo esodo ebraico venne accompagnato dalle parole dell’allora primo ministro Józef Cyrankiewicz secondo cui non si poteva essere contemporaneamente leali alla Polonia socialista e all’imperialista Israele.

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