Ma che razza di populismo è mai, questo?

 

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Etichettare le nuove forme di rappresentanza politica come un “populismo straccione e plebeo” non ci aiuta né a pensare né a cogliere ciò che sta avvenendo nel nostro presente. Serve affilare i nostri strumenti interpretativi, fare uno sforzo in più e andare oltre i nostri schemi novecenteschi. Per affrontare con consapevolezza quello che ci si prospetta davanti.

Enrico Ruffino, Venezia –

 

Scriveva nell’ormai lontano 2013 lo storico Francesco Benigno che “oggi siamo in presenza di un fenomeno nuovo, proprio come inedite sono le letture del processo di mutamento in corso che oggi possono offrirsi, e che parlano infatti di una modernità radicale (Anthony Giddens), di una modernità in polvere (Arjun Appadurai), di una seconda modernità o di una modernità liquida (Zygmunt Bauman)”. Tutte espressioni che, secondo l’intellettuale siciliano, testimoniano la “consapevolezza diffusa di un’epoca di modernità diversa, seconda, estrema, estenuata; o addirittura in un mondo non più moderno ma differente, un mondo che non sappiamo definire e che, non avendo parole giuste per dirlo, chiamiamo postmoderno”.

Già altrove notavo questa sostanziale impotenza intellettuale, questa immobilità interpretativa che ci inchioda ad un eterno Novecento come unico perno concettuale cui aggrapparsi per non abbandonarsi ad una sorta di nichilismo ermeneutico, per cui tutto quello che è nuovo è indefinibile, indecifrabile e incomprensibile. Se ne deduce quindi che tutte le novità diventino automaticamente post qualcosa: un qualcosa che va ripescato in quel passè qui ne passe pas e che diventa automaticamente invadente (ma al contempo confortante) nel presente. Un’ansia i cui frutti tossici si vedono benissimo nelle mille interpretazioni che si fanno della nostra attualità, nella quale ogni fenomeno nuovo viene retroproiettato nelle categorie del passato con la paradossale conseguenza di far diventare il passato un eterno presente.

Non solo l’eterno fascismo diventa la summa di ogni possibile ricollocazione della destra in uno scenario totalmente mutato; non solo il comunismo riecheggia nei fremiti di questa stessa destra per porre in cattiva luce quel che resta della sinistra e con l’intento di normare in modo manicheo i buoni e i cattivi; ma anche eminenti intellettuali ci parlano dell’oggi con lo ieri, del nuovo con il vecchio: così esiste il populismo di qualità e il populismo straccione. Ossia, il populismo di ieri – quello dei grandi partiti italiani di massa, con una solida ed austera base di dirigenza intellettuale – e il populismo di oggi, quello dei 5S e della Lega (anche se questa non viene mai nominata), “straccione” e “plebeo”. Il confronto tra i due termini di paragone regge, infatti, solo in astratto. A ben vedere, c’è una retroproiezione del presente nel passato che più che comprendere e concettualizzare ciò che stiamo vivendo trasporta il discorso in uno sconfortante quanto “nostalgico” paragone con l’epoca appena trascorsa: “Ci sono molti tipi di dittature, molti tipi di monarchie, molti tipi di democrazie – scrive Ernesto Galli Della LoggiaE così ci sono anche molti tipi di populismi. All’Italia di questo inizio secolo ne è capitata una versione particolare: quella di un populismo plebeo e straccione dai toni quasi caricaturali.”

Al di là della leggerezza con cui l’intellettuale ci fa “capitare” (magari per caso?) nel populismo senza qualità, il problema sta, ancora una volta, nel significato che si attribuisce alla parola. Perché quello che definiamo tale è in realtà qualcosa di profondamente diverso dal passato; una diversità che è diventata addirittura un modello politico. Non sarà affatto difficile notare che ogni movimento che definiamo “populista” ha una caratteristica essenziale, direi quasi ontologica, nel proprio essere politico: quella di porsi come novità assoluta, di movimento (e non più partito) che inscena una drastica rottura con l’establishment. Ci sono i parvenus della politica – come Trump e i 5S – ma ci sono anche formazioni politiche con una tradizione politico-culturale lunghissima, dalla quale, però, hanno dovuto dissociarsi compiendo un vero e proprio rito purificatorio, un parricidio (almeno apparente, da esibire) se parliamo della Lega di Salvini e del Front National di Marine Le Pen: in entrambi i casi, prima di scalare le vette del consenso hanno dovuto eliminare il passato mostrando il massimo sacrificio possibile, scalciando da ruoli direzionali i propri padri e annichilendo tutta la vecchia e stantia dirigenza. Insomma, uomini e donne, leader e politici nuovi, che si propongono come elementi di rottura totale con il vecchio e che proprio in virtù di questa patina di purezza assurgono al rango di homines novi.

 

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Si dirà: niente di nuovo, le novità, soprattutto in momenti che seguono crisi economiche laceranti, sono sempre accattivanti. Ma ciò che mi sembra esemplare e allo stesso tempo dirompente di questo nuovo riassestamento politico – che è anche un asse che di mese in mese, di anno in anno diventa sempre più globale – non è tanto la loro morfologia ma la loro comunicazione, la capacità di usare i nuovi media in maniera incisiva, avendo ben chiaro a chi rivolgersi, quali nemici mettere al centro della loro battaglia e soprattutto avendo capito come rivolgersi ai propri destinatari, come farsi interpreti e allo stesso tempo manipolatori del post-vero: i modi “straccioni” e “plebei”, il linguaggio schietto e diretto, gli slogan coniati e fatti diventare dei veri e propri mantra politici, le foto di cibi scadenti, sono – ad esempio – un voluto inganno di Salvini: si tratta di mezzi di seduzione mirati, attraverso i quali il politico rende empatica la sua figura con l’elettorato medio-basso (con il nazional-popolare, sarebbe giusto dire). Ma si potrebbe dire che anche le gaffe di Toninelli, gli scempi storici e grammaticali di Di Maio, le imbeccate alla Merkel di Conte fanno parte del “gioco”: e che queste storture – paradigmatiche anche di una classe dirigente improvvisata – più che metterli in ridicolo, li proiettino nella dimensione popolare (altra cosa è invece la competizione interna al governo, per la quale Salvini sembra essere maestro assoluto e si giova delle gaffe dei 5S): tra quei ceti sociali che, composti da gente comune, sono anche soggetti alle sgrammaticature, alle storture, ai riduzionismi, alle gaffe e che in fondo serbano un odio viscerale verso il ceto intellettuale.

Insomma, il politico si annulla per diventare un tutt’uno con la massa. Perché? Perché quella che noi chiamiamo “opinione pubblica” non è un’ entità metafisica che fluttua tra colonne dei giornali, tra le aule accademiche, tra le opinioni dei personaggi “pubblici”, tra gli scritti degli intellettuali; non è quell’entità melliflua e filosofeggiante che si pensava orientasse e condizionasse lo spazio politico, ma è anzi – oggi più di ieri – una vera e propria retorica sullo spazio pubblico: una retorica che grazie ai mezzi di diffusione social ha ampliato le sua influenza performativa dando diritto di parola, di espressione, e quindi di influenza direttamente al  popolo. Una retorica da cui il potere non può sfuggire, da cui deve dipendere, che deve anzi incensare, incentivare e possedere. Se ne deduce che il più grande cambiamento avvenuto oggi è quello della rappresentanza, che le forze “popolari” emergono perché sanno emergere, che sono rappresentative di un oggetto multiforme e complesso. Che, insomma, definirli con il passato e con un certo snobbismo non ci aiuta a capirli, e nemmeno a combatterli. Resta, quindi, chiara una cosa: arenandoci negli schemi dicotomici novecenteschi, non affinando il nostro outillage interpretativo, non concettualizzando gli oggetti che ci si pongono davanti resteremo sempre intrappolati nella non-definizione. Diceva infatti Walter Lippman che è cruciale conoscere i concetti. Per non usarli senza sapere. Per non obbedirgli senza volere.

2 thoughts on “Ma che razza di populismo è mai, questo?

    • Caro E.G., la ringrazio sommessamente (e sarei curiosissimo di sciogliere la sigla con cui lei si è presentato)

      a presto,

      Enrico

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