Il sentimento dei vinti. La malinconia di sinistra di Enzo Traverso

Enrico Ruffino, Venezia –

La malinconia – si legge nel dizionario Treccani – è uno “stato d’animo tetro, depresso e accidioso e insieme meditativo e contemplativo, occasionale o abituale, che era attribuito al prevalere di quell’umore rispetto agli altri nella struttura organica dell’individuo”. Nel caso di cui parleremo in queste righe non c’è nessuna “occasionalità” e dovremmo sostituire l’individualità con il concetto, qui inteso in senso ontologico, di “cultura politica”: la malinconia di sinistra è questa la cultura di cui si parla – è infatti una “tradizione”, uno stato d’animo – sia pur tetro, depresso e insieme meditativo e contemplativo – abituale, prevalente ma sottaciuto rispetto agli altri nella struttura organica della sinistra.

Lo stato d’animo di un’intera cultura politica di cui si è fatto interprete lo storico Enzo Traverso, che negli anni ci ha abituato a lavori di grande importanza e spessore scientifico. Dismessi solo metaforicamente i panni dello storico, Traverso ha infatti indossato il camice bianco, ha sdraiato la sinistra sul classico lettino e ha iniziato una lunga seduta psicoanalitica: dopo mesi e mesi di analisi introspettiva – perché la seduta ha inevitabilmente coinvolto lo stesso autore, intellettuale di sinistra e un tempo anche militante di Potere Operaio ne è uscito fuori uno dei suoi soliti raffinati studi, caratterizzati da una scrittura amabile e coinvolgente, che Feltrinelli ha opportunamente deciso di tradurre dall’inglese, con la sua stessa consulenza.

Malinconia di sinistra (Feltrinelli 2017; ediz. Originale: Left-wing Melancholia. Columbia University Press 2016): è chiaro nella sua diagnosi, sin dal suo sottotitolo – una tradizione nascosta che presuppone un evidente sentimento “inconscio”, fatto emergere dalla cura, dalla pazienza e dall’immensa cultura dello studioso genovese. Non bisogna infatti cadere nella trappola della diagnosi patologica. La malinconia non è una malattia, “non è un lutto patologico, come potrebbe suggerire l’applicazione superficiale di alcune categorie freudiane” ma è appunto, prendendo a prestito la celebre espressione di Hannah Arendt per definire la storia dell’ebraismo, “paria”, una tradizione nascosta che si è rivelata, senza che molti dei suoi portatori se ne rendessero conto, con la caduta del muro di Berlino.

 

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E’ un sentimento che si costruisce a partire dalla consapevolezza della sconfitta, dal sentimento che si genera a seguito di un grande “naufragio” a cui però gli spettatori\protagonisti assistono languidamente: che sia l’esilio di Trotsky o il carcere di Gramsci, che sia il Che in Bolivia o Walter Benjamin a Parigi, che siano – aggiungo io – gli esuli italiani della stagione della contestazione e della violenza politica (ma ovviamente con distinguo e precisazioni che qui non possono essere fatte), non può sfuggire la sfera malinconica che si costruisce dalla loro ineluttabile condizione di “vinti”. Un sentimento, insomma, che si sviluppa all’interno dei traumi della storia del socialismo.

 

 “La storia del socialismo – ci dice infatti Traverso – è una costellazione di sconfitte che si sono succedute ininterrottamente per quasi due secoli”. Ma proprio queste incessanti e traumatiche sconfitte hanno avuto l’effetto di legittimare le idee e le aspirazioni del socialismo stesso: “la malinconia di sinistra – ci dice ancora lo storico – è ciò che rimane dopo il naufragio”.

 

È quindi la risposta alla perdita di un oggetto amato, questa inesorabile perturbazione dell’anima che tutta una lunga tradizione ha chiamato melancolia. È senza mezzi termini la storia del Sarto di Ulm, il quale si era convinto che l’uomo potesse volare con una macchina ma non era riuscito a dimostrarlo. Alcuni secoli dopo però l’uomo volò e il suo fallimento oggi può essere considerato il tentativo di un precursore. È quindi questa dimensione utopica, la cui metafora fu presa a prestito da un melanconico comunista come Lucio Magri, a lasciare intatta l’idea di un mondo più giusto, di un progetto che mirasse all’uguaglianza nonostante il naufragio di una rivoluzione tentata o addirittura naufragata: chi ci dice che il comunismo non possa avere un destino simile a quello del sarto di Ulm? Che possa essere realizzabile nel futuro?

Ma un futuro senza un passato non potrebbe rientrare in alcun criterio di pensabilità. L’utopia si nutre anche della consapevolezza del passato, della consapevolezza della sconfitta. Si tratta di quel “potenziale epistemologico” dei vinti di cui parlava Koselleck; e infatti non è sbagliato precisare che il vero motore della melanconia – e quindi, di conseguenza, dell’utopia – è la memoria. Traverso ne parla come “vettore” sostenendo che la memoria fa da amministratrice alla malinconia: “Certo, i ricordi non sono soltanto malinconici, ma non c’è malinconia senza rammemorazione”, tiene a precisare lo storico. Rievocare è in effetti il requisito essenziale per pensare al futuro e d’altronde non c’è alcuna rivoluzione senza un precedente fallimento. È qui che, infatti, lo storico si trova a fare i conti con il marxismo che “interiorizza una sconfitta storica”: se in passato esso doveva organizzare il superamento del capitale, doveva ricordare il futuro – assurgere al ruolo di “coscienza anticipatrice” per citare Ernst Bloch – oggi “organizza il pessimismo: lo sguardo dei vinti è sempre critico, conclude l’intellettuale genovese.

 

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Enzo Traverso

 

Si capisce bene a questo punto che a Traverso non interessa celebrare quella che viene solitamente definita “l’estasi rivoluzionaria”, non gli interessa nemmeno osservare da vicino un oggetto realmente perduto  nella storia: “malinconia di sinistra non significa – scrive l’intellettuale – nostalgia del socialismo reale o di altre forme naufragate di stalinismo” ma significa che “l’oggetto perduto può essere la lotta come esperienza storica che suscita ricordi ed emozioni nonostante il suo carattere fragile”. Il mittente di questa intrigante analisi è insomma la sinistra stessa, alla quale Traverso si rivolge ricordandogli che esiste una “tradizione”, occultata da una memoria pubblica che offre spazio esclusivamente alle vittime, e “da un discorso normativo che postula la democrazia liberale e l’economia di mercato come ordine naturale del mondo e condanna le utopie del Novecento”.

È la storia di un sentimento, a dimostrazione che la storia non è solo “scienza” ma – prendendo a prestito la definizione di un gigante della storiografia, Delio Cantimoriscienza umana critica: si tratta di un’operazione, quella dell’intellettuale, di scavo critico all’interno di un sentimento nascosto sotto le macerie del muro di Berlino, di una storiografia quasi militante (nel senso più nobile che ci possa essere), che prende il meglio del dirottamento metodologico dagli elementi “strutturali” a quelli “sentimentali” per invitare, non troppo velatamente, la sinistra a non avere paura del proprio passato, a guardare in faccia le proprie sconfitte per ripensarsi. Il che non significa né imbattersi nel culto delle reliquie né farsi accerchiare dalla nostalgia, ma semplicemente avere consapevolezza delle potenzialità del passato: “una fedeltà alle promesse emancipatrici della rivoluzione, non alle sue conseguenze

 

E. Traverso,
Malinconia di sinistra. Una tradizione nascosta
Milano, Feltrinelli, 2017
pp. 246