Il massacro di Nanchino, storia di un genocidio giapponese

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Federico Brentaro, Bologna –

Il Massacro di Nanchino è uno degli episodi più bui della storia cinese contemporanea. La caduta della capitale nazionalista, avvenuta tra il 10 e il 13 dicembre 1937 a opera delle truppe nipponiche, segnò l’avvio della fase più cruenta della Seconda guerra sino-giapponese (1937-1945).

Quando i giapponesi entrarono a Nanchino, più della metà della popolazione era fuggita: del milione di persone che vi abitavano prima dello scoppio della guerra, alla data del 13 dicembre 1937, ne rimanevano circa cinquecentomila. Le peggiori azioni compiute dagli invasori si concentrarono nelle prime sei settimane dell’occupazione.

 

Le torture, le uccisioni e gli stupri

Le torture inflitte dai giapponesi alla popolazione di Nanchino superano qualsiasi livello di immaginazione. Alcuni testimoni oculari sopravvissuti a queste atroci supplizi raccontarono di persone sepolte vive fino alla cintola sventrate con sciabole, investite con i mezzi di trasporto militari oppure fatte sbranare dai cani da guerra. Le gare di uccisione erano uno dei passatempi preferiti dai militari nipponici. I giapponesi catturavano e facevano prigionieri uomini e donne, tenendoli a digiuno per giorni. Dopo questo trattamento, atto a privarli di ogni energia, legavano loro mani e piedi e li trasportavano in aree isolate, fuori dalla città. Qui procedevano alla loro esecuzione; i cadaveri dei prigionieri venivano quindi gettati all’interno di fosse comuni.

Quello di Nanchino rappresenta, senza alcun dubbio, uno dei più grandi stupri di massa della storia. Le stime relative alle donne violentate variano da un minino di ventimila a un massimo di ottantamila vittime. La perversione dei giapponesi sembrava essere priva di limiti: non solo organizzavano tornei di stupri a qualsiasi ora del giorno e in qualunque luogo della città, ma si intrattenevano anche impalando le loro vittime.

I prigionieri cinesi furono utilizzati anche come cavie da laboratorio. Nell’aprile del 1939 i giapponesi convertirono un ospedale, situato nella via Zhongsan, poco distante del fiume Yangzi, in un laboratorio di ricerca epistemologia, battezzato Unità Ei-1644. Gli scienziati nipponici testavano sui loro pazienti diverse tipologie di veleni, gas e batteri, come quelli del colera e dell’antrace, alcuni prigionieri furono vivisezionati e altri ancora era utilizzati come bersagli per testare l’efficienza delle armi da fuoco.

 

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Dicembre 1937
Gli edifici bruciati dai cinesi a Nanchino nel disperato tentativo di ostacolare l’ingresso in cittˆà dell’esercito giapponese
(AP Photo)

 

Il caso 219

Una delle stragi più violente, che sollevò dibattiti riguardanti la veridicità delle azioni disumane perpetuate dai soldati giapponesi e riportata nei Documenti della Zona di sicurezza di Nanchino, è il caso 219, verificatosi il 13 dicembre 1937, giorno della caduta della città. Quel giorno, trenta soldati giapponesi si presentarono dinnanzi a una casa in Xinglugao, una via situata nella parte sud-orientale della città. La porta dell’abitazione fu aperta dal proprietario, il signor Ma, il quale venne immediatamente ucciso. Il signor Xia, un inquilino che si era prostrato ai soldati chiedendo che nessun altro venisse ammazzato, venne a sua volta assassinato. La moglie del proprietario, la signora Ma, appena chiese in lacrime ai giapponesi il motivo per cui uccisero suo marito, venne ammazzata con un colpo di pistola alla testa.

La signora Xia, che si era nascosta sotto il tavolo per proteggere il figlio di un anno, venne trascinata fuori dal suo nascondiglio, stuprata dai soldati su quello stesso tavolo, i quali le infilarono una bottiglia di profumo nella vagina e l’uccisero con un colpo di baionetta al torace. Anche il bambino venne assassinato. Quindi i soldati si recarono nella stanza attigua, dove trovarono i genitori della signora Xia e le sue figlie adolescenti. I nonni, che cercarono di proteggere le nipoti, vennero uccisi con alcuni colpi di pistola. Due uomini violentarono la ragazza di sedici anni, per poi conficcarle un bastone di bambù nella vagina, mentre la sorella più giovane, di quattordici anni, venne ammazzata con un colpo di baionetta. La stessa sorte toccò anche a una terza sorella, di otto anni, che cercò di nascondersi sotto un letto, nel tentativo di salvare una quarta sorellina, di quattro anni. Quest’ultima riuscì a sopravvivere, ma riportò gravi danni celebrali dovuti alla mancanza di ossigeno, poiché rimase troppo tempo nascosta sotto un mucchio di coperte. Prima di abbandonare la casa, i soldati giapponesi uccisero anche i due figli dei coniugi Ma, rispettivamente di quattro e due anni. Vi fu però una seconda superstite: una figlia dei Xia, di otto anni, Xia Shuqin, che riuscì anch’ella a nascondersi sotto alcune coperte, nonostante tre ferite di baionetta ricevute.

Le due bambine, per quattordici giorni, si nutrirono di croste di riso che la madre cucinò in vista dell’assedio giapponese. Dopo due settimane, una vecchia donna tornò nella via, trovò le bambine e le portò con sé nella Zona di sicurezza, un’area neutrale nel cuore della città istituita da alcuni cittadini americani ed europei.

Higashinakano Shudo, professore di Storia intellettuale presso l’Asia University di Tokyo, nel suo saggio The Nanking Massacre: Fact Versus Fiction: A Historians Quest for the Truth, sollevò alcune questioni riguardanti il resoconto del pilota John Gillespie Magee sul caso 219:

  1. Solitamente gli assassini non lasciano in vita dei testimoni, perché hanno deciso di risparmiare Xia Shuqin e la sorella minore?
  2. Le due bambine hanno trascorso due settimane tra i corpi dei familiari e dei membri della famiglia Ma in decomposizione, perché non sono fuggite?
  3. Se, come ha riferito Xia Shuqin, ogni giorno soldati giapponesi entravano nell’abitazione, come hanno potuto le bambine non farsi scoprire per ben quattordici giorni?
  4. L’incidente si è verificato il 13 dicembre, tuttavia alcuni giorni prima, l’8 dicembre fu emanato un ordine di evacuazione delle aree della città nei pressi della porta Guanghua e della porta Zhonghua, poste rispettivamente a sud-est e a sud, perché queste due famiglie decisero di rimanere in una zona di Nanchino così pericolosa?

Vorrei ora cercare di rispondere a queste domande:

  1. Come riportato nel resoconto dell’omicidio, i soldati nipponici colpirono, con una baionetta, Xia Shuqin; a causa delle ferite perse conoscenza e, probabilmente, questo le permise di sopravvivere, poiché non fu vittima di ulteriori abusi. La sorella di quattro anni riuscì a sopravvivere perché si nascose sotto un mucchio di vecchie coperte, anche se questo le causò danni celebrali irreversibili.
  2. Trattandosi di bambine molto piccole risulta poco plausibile il fatto che da sole, senza l’aiuto di una figura adulta, potessero avventurarsi all’esterno della casa, in una città devastata dalla guerra, e raggiungere, premesso che ne conoscessero l’esistenza, la Zona di sicurezza. Inoltre, come loro stesse raccontarono, ogni giorno soldati giapponesi entravano nella casa rubando tutto ciò che poteva essere loro utile, quindi per loro era più sicuro restare nascoste all’interno della casa stessa, piuttosto che uscire alla ricerca di un altro luogo in cui trovare rifugio ed essere quindi catturate nelle vie di Nanchino.
  3. Quando Xia Shuqin riprese conoscenza corse a rintanarsi, assieme alla sorella, nel rifugio antiaereo situato nel giardino dell’abitazione, uscendo solo in rare occasioni, questo garantì loro di sopravvivere per due settimane, evitando di essere scoperte dai soldati nipponici.
  4. I cittadini che non abbandonarono Nanchino, altri non erano che i più poveri tra i poveri. Probabilmente le famiglie Xia e Ma appartenevano a questa categoria sociale, che mancava dei mezzi necessari per poter fuggire da una città blindata, quindi furono costrette a rimanere a Nanchino e sperare di riceve un trattamento umano da parte degli invasori. Tale speranza derivava, in parte, anche dall’opera di volantinaggio compiuta dall’aviazione giapponese. Volantini recanti messaggi di fiducia nei confronti dei giapponesi, che avrebbero trattato con gentilezza i non combattenti, spinsero parte della popolazione a rimanere nei propri quartieri, nelle proprie abitazioni, anziché rifugiarsi nella Zona di sicurezza.

Prima della fine del conflitto, nel marzo del 1944, le Nazioni unite istituirono il Comitato d’indagine sui crimini di guerra; una specifica sottocommissione per l’Estremo Oriente e l’Oceano Pacifico venne allestita a Chongqing.

Il Tribunale militare internazionale per l’Estremo Oriente iniziò a operare a Tokyo il 3 marzo 1946. Nonostante gli imputati fossero solamente ventotto, il processo durò due anni e mezzo e furono più di quattrocento le persone che vi testimoniarono.

Le maggiori accuse e la responsabilità di tali crimini di guerra ricaddero sul generale Matsui Iwane. Durante la sua testimonianza cercò di giustificare le azioni compiute dai soldati giapponesi, arrivando, in alcuni casi, a negarle completamente. Pur di salvaguardare la reputazione della casa imperiale e dello stesso imperatore Hirohito, Matsui Iwane affermò di essere disposto a morire per loro. Così avvenne: il generale venne condannato a morte e, assieme ad altri sette criminali di guerra, fu impiccato nel carcere di Sugamo a Tokyo.

 

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Matsui Iwane

 

Il governo degli Stati Uniti d’America, in cambio della resa del Giappone, assicurò alla casa imperiale l’immunità dai processi, per cui né l’imperatore Hirohito né il principe Asaka comparvero nel corso delle udienze. Il ruolo che svolse l’imperatore del Sol Levante rimane, ancora oggi, avvolto da una coltre di mistero. Al momento della resa, il governo giapponese distrusse o falsificò la maggior parte dei documenti relativi all’assedio di Nanchino. Questo rese particolarmente difficile provare se Hirohito avesse approvato, pianificato o fosse stato almeno a conoscenza di quanto accadde nella città cinese.

In Giappone, oggigiorno, continuano ad apparire versioni contrastanti e spesso falsificate riguardanti le azioni compiuti dallo Stato nipponico durante la Seconda guerra mondiale. Secondo una versione revisionista, la nazione non ebbe alcuna responsabilità negli stermini di massa avvenuti nel corso del conflitto. Questa visione continua a essere riportata nei testi e nei libri di storia nipponici, i quali ignorano il Massacro di Nanchino e ne danno una visione distorta, ad esempio attribuendo la colpa degli stupri ai soldati cinesi che si infiltrano, in cerca di riparo, nella Zona di sicurezza.

LE LETTURE CONSIGLIATE:

  • D. Askew, The Nanking Incident: An Examination of the Civil Population, in “Sino-Japanese Studies” (vol. 13, marzo 2001).
  • I. Chang, Lo stupro di Nanchino. Lolocausto dimenticato della II guerra mondiale, Milano, Corbaccio, 2000.
  • S. Higashinakano, The Nanking Massacre: Fact Versus Fiction. A Historians Quest for the Truth, Tokyo, Sekai Shuppan Inc., 2005.
  • J.A.G. Roberts, Storia della Cina. La politica, la realtà sociale, la cultura, leconomia dallantichità ai giorni nostri, Roma, Newton Compton editori, 2009.