La paura in guerra e i suoi rimedi

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Giuseppe Catterin, Venezia –

Sì, ragazzi, reggete, fianco a fianco, ben saldi:
fuga e paura sono disonore,
non comincino mai! Forgiatevi il grande coraggio,
non amate la vita, combattendo!
Si regga dunque, a gambe disgiunte e con entrambi i piedi
ben piantati al terrendo, mordendosi le labbra.

 

Sparta ha sempre esercitato un fascino magnetico. Questa particolare e storica forma di ammirazione è riuscita a diffondersi ampiamente al di fuori dagli angusti confini della Laconia e ad espandersi nei secoli. Su Lacedemone, nel tempo, si è infatti riversato un voluminoso fiume d’inchiostro, sicuramente maggiore delle scarne acque trasportate dall’Eurota. Già Senofonte, figlio di Grillo e fieramente appartenente al demo ateniese di Erchia, ebbe modo di diffondere lungo l’Ellade il suo sincero apprezzamento per la Città peloponnesiaca, di cui ammirava la forma di governo e la singolare fibra morale delle sue classi dirigenti, gli spartiati.

Spartiati che, prestando fede a una tradizione abbastanza diffusa nell’ecumene culturale della Grecia antica, furono a lungo moralmente debitori di un altro ateniese: lo zoppo Tirteo che, in ossequio alle indicazioni provenienti dall’oracolo di Delfi, giunse in Laconia proveniente proprio dall’Attica

 

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Bronzetto raffigurante uno spartiata. Sparta, 550 a.C c.a

 

Al di là della sua presunta origine leggendaria, Tirteo può venir ascritto di diritto al rango di “voce di Sparta”. Della sua proficua produzione letteraria ci sono, purtroppo, giunti alcuni frammenti. Per lo più elegie militari. Briciole che, tuttavia, ci consentono di indagare su alcuni aspetti e, soprattutto, gettare luce sul protagonista di questo articolo: la paura, sentimento che accompagna il guerriero sul campo di battaglia fin dalla notte dei tempi.

Secondo il pantheon classico, la presenza di questa viscerale emozione si poteva spiegare con la presenza di due divinità. Si tratta di Fobos e di Deimos, figli di Ares e Afrodite, che rappresentavano rispettivamente l’incarnazione della paura e del terrore suscitato dalla guerra. Il loro compito era di accompagnare, secondo alcuni miti come aurighi, il bellicoso padre su ogni campo di battaglia: incontrarli era, pertanto, inevitabile.

Ed è appunto per esorcizzare questi ctoni timori, così primordialmente presenti nell’essere umano, che Tirteo infiamma d’ardore gli spiriti degli opliti spartani. L’unicità e la forza della sua poesia stanno nell’estrema verosimiglianza con cui il poeta laconico descrive la guerra: scevra da ogni velleità eroica, il reale valore del guerriero si misura nel saper mantenere la posizione e si soppesa con la sua capacità di reggere l’urto avversario senza scompaginare la formazione. O, peggio ancora, romperla.

 

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Come si può comprendere dalle falangi raffigurate lungo i bordi dell’ “Olpe chigi”, il mantenimento della linea era di fondamentale importanza presso questo genere di formazione militare

 

I versi con cui si apre questo articolo sono, dunque, l’istantanea di un nuovo modello di guerra, quello oplitico, sideralmente lontano dagli scontri di omerica memoria. Con la falange, l’individuo confluisce nella collettività e viene inglobato dai ranghi dello schieramento. Parallelamente, anche la paura si trasforma: da condanna singolare, diventa potenziale vulnus che può riverberarsi negativamente sull’intero esercito.

Ma la paura può fungere pure da preziosa alleata sul campo di battaglia. Gli stessi Spartani, e con loro buona parte degli abitanti dell’antica penisola ellenica, erano ben consapevoli quanto terrore generasse l’inesorabile, quanto ordinato, incedere delle falangi lacedemoni. Ancora a secoli di distanza, l’imperatore romano Maurizio, all’interno dello Strategikon, prescriveva particolari attenzioni alla cura, anche estetica, della panoplia: a detta del basileus, che la guerra l’aveva sperimentata in prima persona, un soldato traeva ulteriore sicurezza da un equipaggiamento ricercato e, al contempo, incuteva maggiore timore. Una filosofia analoga, d’altro canto, si può scorgere lungo i secoli della storia militare: dai vistosi colbacchi dei granatieri, passando ai cimieri che ornarono gli elmi ad ogni latitudine del globo terracqueo, furono numerosi i popoli che profusero impegno, ingegno e risorse materiali per realizzare forme di equipaggiamento volutamente vistose e, talvolta, particolarmente significative.

La sottile, a tratti impercettibile, linea che divideva il coraggio dalla paura si può apprezzare ulteriormente nel grido di guerra, arma psicologica scientemente adoperata dalla maggior parte degli eserciti che calcarono i campi di guerra della storia. Vegezio, nel suo celeberrimo trattato militare, non solo ne consigliava l’utilizzo, ma giungeva addirittura a stabilire rigorosamente il momento più opportuno per levarlo: il barritus, elemento che le armi tardoromane attinsero dal mondo germanico, precedeva di poco il definitivo clangore delle armi.

L’urlo di guerra assume, quindi, una molteplicità di significati. Una sua prima funzione può sicuramente venir definitiva “liberatoria”: il soldato di qualsiasi epoca storica vi trova, infatti, l’occasione per sfogare sul nemico la tensione accumulata durante le interminabili fasi precedenti lo scontro vero e proprio, vi coglie il momento per attingere ulteriormente alle personali forze psico-fisiche.

Ma è probabilmente nella natura stessa dell’urlo che si può scorgere la sua più autentica espressione psicologica. Il ritmico scandire delle frasi che lo compongono, magari cadenzato dal frastuono delle armi battute sugli scudi, muta velocemente in terribile eco, composta da migliaia di urla che tuttavia si fondono in un’unica voce. Il soldato che lo proferisce, in altre parole, si sente parte integrante di una comunità che s’identifica nelle medesime tradizioni (militari e non) e che, soprattutto, riconosce l’appartenenza e l’esistenza di quel particolare legame che unisce gli uomini militanti nello stesso reparto.

La celebre battaglia di Hastings, in tal senso, può risultare un esempio interessante da analizzare. Dalle fila di entrambi gli eserciti che si fronteggiarono ad Hastings si levarono, infatti, urla che servirono a galvanizzare i combattenti. Stando alle cronache, i cavalieri normanni, su suggerimento del giullare Taillefer, intonarono la Chanson de Roland, poema che riusciva ad infondere, già allora, quella giusta dose di coraggio necessaria a caricare il nemico. Il muro di scudi sassone, d’altro canto, superato l’iniziale scompaginamento, ricacciò indietro la cavalleria normanna all’urlo di “Out!” (letteralmente, “fuori”), in un augurio di vittoria che serviva pure a mantenere il passo: similmente al peana intonato dai beoti durante la battaglia di Tanagra (426 a.C), anche la compatta formazione del fyrd anglosassone trovò nell’urlo un prezioso aiuto per mantenere la coesione dello schieramento.

Ma il vero “alleato” per scacciare la paura fu sempre, e perdurò a farlo nei secoli, l’alcool. Bere in gruppo, d’altro canto, rafforza i legami e sviluppa la fiducia tra commilitoni, in un’azione che travalica le classi sociali. Omero ritrae spesso gli eroi da lui cantati nell’azione di bere del vino in compagnia. Vino che, nelle sue innumerevoli varianti, denotava anche l’appartenenza sociale di un individuo: la posca, che venne offerta anche a Cristo in croce, non era altro che la bevanda “nazionale” dei legionari romani, che si resero ben presto conto dell’efficace azione battericida dell’alcool contenuto nel vino. Ma bere, anche solo moderatamente, aiuta ad alleviare la tensione prima di un combattimento, soprattutto a quei reparti cui erano destinate azioni potenzialmente pericolose.

Le divisioni di fanteria francesi al comando dei generali Louis Vincent SaintHilaire e Dominique Vandamme, incaricate di occupare l’altura del Pratzen durante le fasi più salienti della battaglia di Austerlitz, vennero robustamente rincuorate con razioni più che generose di brandy, quasi mezza pinta a uomo. Razioni che, poco più di cent’anni dopo, divennero tristemente famose presso tutti quei reparti che consumarono la loro esistenza lungo il fango della trincea: indipendentemente dalla logora divisa indossata, ogni fante sapeva che la distribuzione extra di cordiale indicava l’imminenza di un attacco.

Se l’alcool sta alla Prima Guerra Mondiale (tolta, ad eccezione, la ritualità del brindisi nell’esercito nipponico), il Secondo conflitto che infiammò il Continente europeo vide l’ingresso di nuovi attori. Si trattava di una vasta gamma di sostanze psicotrope, tra le quali la più celebre è sicuramente il pervitin, sostanza chimica riconducibile alla categoria delle anfetamine. L’alto comando germanico, entusiasta degli effetti che tali componenti inducevano nei propri soldati (tra i quali basti citare il drastico calo della percezione della stanchezza), iniziò ben presto la produzione in scala industriale di queste sostanze, talvolta mischiate a normalissimi generi di conforto – come, ad esempio, la Panzerschokolade che univa il pervitin al normalissimo cioccolato.

 

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Come si può comprendere, lungo i secoli i soldati hanno consumato un perenne conflitto a bassa intensità, utilizzando una sorprendente varietà di l, ma combattendo sempre il medesimo nemico: la paura.

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