Una nuova storia di Israele. Michael Brenner e l’identità dello Stato ebraico

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Veronica Bortolussi, Venezia –

Auspicata dal movimento sionista dalla seconda metà dell’Ottocento, la nascita dello Stato di Israele all’indomani del secondo conflitto mondiale fu portatrice di cambiamenti non solo geopolitici, ma anche e soprattutto identitari, destinati ad acuirsi in tempi diversi.

Proprio la questione dell’identità di questo giovane Stato è il tema dell’interessante saggio Israele. Sogno e realtà dello Stato ebraico (Donzelli Editore, Roma, 2018) dello storico Michael Brenner, docente di Storia e cultura ebraica presso la Ludwig-Maximilians-Universität di Monaco e direttore del Center for Israel Studies presso l’American University. Nelle parole dell’autore

 

questo volume non cerca né di sostanziare né di demistificare la questione se Israele sia uno Stato unico o uno «Stato come tutti gli altri». Vuole piuttosto tracciare un discorso proprio attorno a questo interrogativo, che attraversa il testo come un filo conduttore. Vuole offrire una chiave per affrontare le questioni più rilevanti per comprendere la vera natura del primo Stato ebraico nella storia moderna. È uno Stato basato su un’etnia o una religione comune? Dovrebbe essere uno Stato in cui gli ebrei di tutto il mondo possano trovare un porto sicuro, continuando tuttavia a vivere la propria vita come facevano prima, nelle loro case o patrie precedenti, o dovrebbe piuttosto essere uno Stato ebraico in cui possano prender vita nuovi valori, diversi da quelli delle nazioni di origine? Quali sono i confini di questo Stato? E qual è il ruolo dei non-ebrei in uno Stato ebraico?

 

La difficoltà di definizione dello Stato ebraico è il fulcro attraverso il quale Brenner ripercorre l’intera storia di Israele, partendo dalle teorie sioniste per arrivare fino ai giorni nostri, lasciando in secondo piano i numerosi avvenimenti, soprattutto bellici, che ne hanno segnato la storia. Le guerre di Israele, infatti, vengono lette e interpretate attraverso la lente della costante ricerca di una propria identità, divenendo dunque conflitti combattuti per rivendicare il diritto della popolazione ebraica a esistere in una terra a loro ostile.

 

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Di particolare interesse, è la ricostruzione minuziosa di come, negli anni, sia cambiato il modo di vedersi degli stessi israeliani. La visione degli ultra-ortodossi, per esempio, li vedeva legittimi cittadini di uno «Stato miracolo», divenuto realtà per volontà divina, scontrandosi con quella parte della popolazione israeliana laica che definiva Israele uno «Stato di insediamento coloniale», «istituito rimuovendo con la forza gran parte della popolazione indigena dai suoi confini e poi assegnando a coloro che erano rimasti una serie di diritti e doveri che solo la comunità di coloni può determinare»: due visioni contrapposte, dunque, che contribuiscono a creare divisioni interne allo Stato e nelle diverse comunità ebraiche nel mondo che persistono tutt’oggi. A proposito della situazione della popolazione ebraica, è degno di nota il concetto di «allosemitismo», coniato dal sociologo Zygmunt Bauman per riferirsi alla

 

consuetudine di descrivere gli ebrei come un popolo radicalmente diverso dagli altri, per la cui descrizione e comprensione sono necessari concetti particolari e che richiede di assumere un atteggiamento speciale nella totalità o quasi dei rapporti sociali. […] Il termine non contraddistingue in maniera chiara l’odio o l’amore per gli ebrei ma contiene il germe di entrambi e indica che qualunque dei due sentimenti appaia esso sarà intenso ed estremo.

 

Tale definizione, dunque, ribadisce ancora una volta la difficoltà di trovare una definizione condivisa di chi possa – o meno – ritenersi israeliano, non solo per quel che riguarda i cittadini dello Stato ebraico ma anche per chi cerca di definirne l’identità dall’esterno, tra chi si sente «ebreo israeliano» e chi, invece, si sente membro di una «Israele globale» priva di reali confini, sentendosi sì ebreo ma «cittadino del mondo». Una sorta di ritorno al passato, dunque, quando gli ebrei, prima della nascita di Israele, vivevano in tutta Europa sentendosi, di volta in volta, cittadini dello Stato in cui vivevano.

 

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È proprio questa situazione, secondo Brenner, a non essere stata prevista dai fondatori e propugnatori di uno Stato israeliano: la possibilità che gli ebrei, nonostante l’esistenza di Israele, potessero preferire una vita all’estero, mentre l’immigrazione nei suoi confini venisse dominata – su tutto – da ebrei di recente conversione, provenienti specialmente da Asia e Africa, autoproclamatisi discendenti delle antiche «tribù perdute», in particolare di India, Sudafrica e Nigeria.

Secondo le stime più recenti, riportate dallo storico, risulta che Israele è un Paese in continuo divenire, caratterizzato oggi come ieri da un forte interscambio di immigrati ed emigrati, tanto da poter sostenere senza timore di smentita che «la storia dell’emigrazione ebraica dalla Palestina è vecchia quanto la storia dell’immigrazione ebraica». È in questa realtà in costante mutamento che si realizza, a parere di Brenner, il paradosso stesso della storia di Israele:

 

«il desiderio del popolo ebraico di essere al tempo stesso normale ed eccezionale», una «contraddizione che attraversa tutta la parabola della definizione di una nuova identità ebraica e israeliana e, contemporaneamente la ricerca di un posto sicuro di Israele nel consesso delle nazioni».

 

Michael Brenner
Israele. Sogno e realtà dello Stato ebraico
Donzelli Editore, Roma, 2018
pp. 255