Elogio dello pseudonimo: su Elena Ferrante

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Enrico Ruffino, Venezia –

Un nuovo sport si pratica nel mondo: la caccia all’identità di Elena Ferrante. Rotocalchi, reportages, illazioni, vere o presunte, inchieste giornalistiche, con tanto di serpeggiamento tra i conti correnti e i beni della presunta scrittrice, e persino indagini filologiche, impunemente additate come paradigmi indiziari, hanno animato e continuano ad animare l’interesse morboso, a tratti paranoico, per l’identità della donna senza corpo. Dinanzi alla caccia, però, resta nella mia mente – perché è qui, nello scrigno dell’immaginazione, l’unico universo in cui la scrittrice dovrebbe esistere corporalmente – l’immagine di una donna ferita dall’invasione del suo io e per questo ancora più ferma nella scelta dell’anonimato. Una fermezza che si fa strada tra grandi successi, grandi vendite, tra il peso e il fardello del best seller, del libro entrato nel grande commercio ma che cozza con un raffinato e categorico rifiuto dell’esibizione del corpo. Alla base di questa scelta, mai ampiamente analizzata nella sua interezza, c’è in realtà un’idea precisa:

 

“Desidero poter pensare che se il mio libro entra nel circuito delle merci niente sia in grado di obbligarmi a fare il suo stesso percorso”

 

Scrivendo a Goffredo Fofi, l’autrice partenopea si lascia andare ad una affermazione esplicativa che appare come un lapsus, un segno rivelatore di qualcosa. Senza sfociare in conclusioni come ha fatto Marco Santagata peraltro affrettatamente divulgate a mezzo stampa, potremmo benissimo dire che sia l’interesse morboso nei confronti dell’identità della Ferrante, sia la scelta dell’anonimato costituiscono due “spie” importanti che potrebbero rivelarci qualcosa della società italiana (e non solo) di ieri e di oggi. La prima infatti potrebbe dirci che l’assenza della corporeità rende nevrotica l’opinione pubblica; la seconda, invece, ci proietterebbe nel contesto storico in cui la scelta dell’anonimato è stata maturata. Ma andiamo per ordine.

 

Corpi, non testi. O meglio: la nevrotica dei testi senza corpi fisici.

Il 2 ottobre 2016 il quotidiano il Sole24ore pubblica un’inchiesta, giustificata “con prove documentali”, condotta dal giornalista Claudio Gatti, tesa a rivelare l’identità della scrittrice. È solo la punta di un iceberg che, nel corso di venticinque anni, ha suscitato un interesse mediatico spasmodico nei confronti della scrittrice. Dal ’92, anno di edizione de L’amore molesto, l’opinione pubblica si è dilettata nelle più curiose ipotesi: un trans, un uomo, una storica, un collettivo di autori stile Wu Ming e addirittura gli stessi fondatori della casa editrice con la quale la Ferrante edita. Il “caso” dell’identità dell’autrice è però diventato, a partire dalla consacrazione internazionale con la quadrilogia de L’amica geniale, interesse d’inchiesta, finanche pseudo-scientifica. Non si è più nell’ambito dell’immaginazione, della curiosità, del desiderio: è avvenuto il passaggio alle “prove documentali”, all’inchiesta indiziaria e alla ricerca di una tangibilità corporale. Curioso quanto emblematico il titolo che si è voluto dare all’articolo – che, ricordiamo, è stato venduto ai maggiori giornali europei per un’uscita in contemporanea: Ecco la vera identità di Elena Ferrante.

Più incisivo, ancora, l’editoriale dell’allora direttore Roberto Napoletano che ci informava che l’inchiesta era “altezza del mistero, tutto da svelare. Tutto da leggere”. Il problema, però, è proprio questo: perché sarebbe “tutto da svelare”? Gatti, intervistato, ha ricordato che l’indagine è nata dalle pressanti domande sull’identità della Ferrante da parte dei suoi conoscenti di New York, città nella quale il giornalista vive e dove la scrittrice ha avuto un successo inaspettato. Il giornalista, dunque, non ha fatto altro che interpretare un bisogno percepito nell’opinione pubblica facendone oggetto d’inchiesta. Poi, però, incalzato dalle domande, va dritto verso motivazioni più profonde e interessanti:

 

“In quanto autrice di libri divenuti bestseller in tutto il mondo, Elena Ferrante è ormai un importante personaggio pubblico. Anzi si può dire che sia attualmente la più nota italiana al mondo. Milioni di suoi lettori avevano dunque un legittimo desiderio di sapere qualcosa circa la persona dietro l’opera”.

 

È proprio questo il punto: “la persona dietro l’opera”. Conoscere fisicamente l’autore di un testo letterario è diventato improvvisamente un “diritto” da parte di un lettore e mostrarsi un dovere da parte di un autore. Sarebbe opportuno ricordare che il testo letterario è un corpo a sé stante che parla dell’autore, che entra nel mercato, che vende e si vende: è corpo intellettuale di chi lo scrive, quello più intimo, più nascosto, più impercettibile di un corpo fisico, che potrebbe rivelarsi solo a chi sa leggerlo. L’autrice, in un certo senso, parla di sé attraverso la fiction, mostra il suo corpo attraverso i suoi personaggi, filtra se stessa e si mostra a chi legge, attraverso la scrittura. In altre parole, l’autrice è nel testo: chi vuole la trova. Eppure il lettore ha il “diritto” o potremmo forse domandarci se ha il “bisogno” di affiancare un’opera ad un corpo fisico? Ma soprattutto: se si tratta di un diritto quando è stato acquisito? Se il pubblico desidera, chiede, s’interroga e pressa affinché la scrittrice si palesi, se ha l’esigenza di darle una forma fisica, significa che non riesce a svincolare l’opera dal suo autore. E quando quest’ultimo decide di non piegarsi a questa logica, viene colpito nell’intimo: è una nevrosi!

 

Capire la scelta della Ferrante, significa capire anche un pezzo di storia contemporanea.

La nevrotica dei testi senza corpi si palesa nel momento in cui s’incorre in errori banali ma non per questo meno importanti. Gatti, nella sua inchiesta, incorre in due affermazioni sbagliate, che suonano come accuse. Elena Ferrante, secondo il giornalista, mente ed è orgogliosa di mentire: “In La Frantumaglia, Ferrante aveva avvertito i lettori. Non una, bensì due volte. «Io non odio affatto le bugie, nella vita le trovo salutari e vi ricorro quando capita per schermare la mia persona», aveva scritto. E, poco più avanti, aveva aggiunto:

 

Italo Calvino nel 1964 scriveva a una studiosa che chiedeva informazioni personali: “Mi chieda pure quel che vuol sapere e glielo dirò. Ma non le dirò mai la verità. Di questo può star sicura”. Questo passo mi è sempre piaciuto e almeno parzialmente l’ho fatto mio.

 

Basta leggere la riga successiva del testo della Ferrante per comprendere quanto l’errore del giornalista sia banale:

 

Questo passo (quello di Calvino ndr) mi è sempre piaciuto e almeno parzialmente l’ho fatto mio. dirle che sono bella e atletica come una star, o che sono inchiodata in una sedia a rotelle, o che sono una donna intimidita anche dalla propria ombra, o che adoro le begonie, o che scrivo solo tra le due e le cinque del mattino, e altre frottole. Il problema è che, a differenza di Calvino, detesto rispondere ad una domanda con un rosario di bugie.

 

Calvino rispondeva appunto, come la Ferrante (che non si rivolge perciò, come Gatti sostiene, direttamente al lettore), ad una domanda nell’ambito della sua funzione intellettuale di scrittore: la questione era circoscritta, anche questa volta come l’autrice partenopea, a sé e all’opera. Peccato che l’autrice “ad una domanda” – tanto più se riguarda una descrizione del proprio aspetto fisico – non riesce a rispondere “con un rosario di bugie”: nella vita, dunque, come afferma ne La Frantumaglia, le menzogne sono necessarie ma quando si tratta delle opere si crea un problema perché “nella fiction bisogna essere sinceri fino in fondo”. “Elena Ferrante” è di per sé una finzione e proprio in quanto tale non riesce a mettere in fila una serie di bugie su di sé: quindi tace. L’altro errore è l’affermazione secondo la quale gli editori avrebbero spinto la scrittrice a rivelarsi. Quando Sandra Ozzola, in una lettera aperta, afferma che la curiosità dei lettori avrebbe meritato “una risposta più generale, al di là delle interviste ai giornali, non solo per placare chi avrebbe potuto nelle ipotesi più inverosimili sulla tua vera identità, ma anche da un sano desiderio da parte dei tuoi lettori di conoscerti meglio”, non tenta minimamente di spingere l’autrice a rivelarsi fisicamente quanto piuttosto ad uscire per una volta dalla fiction e spiegare, con gli strumenti della scrittura, la propria esperienza di scrittrice. È questo l’unico, vero e sensato diritto dei lettori: conoscere la sua visione del mondo, capire cosa muove le sue scelte e collegarlo alla sua “poetica” letteraria. Senza la Frantumaglia, ad esempio, non avrei avuto sufficienti “dati” per argomentare questo articolo e non avrei potuto riflettere sul contesto in cui matura la scelta dello pseudonimo, che è tutto fuorché banale. L’amore molesto viene infatti pubblicato in un momento storico particolare, che si porta dietro gli anni ’80 e si affaccia sul personalismo dei ’90. Il riflusso del privato sul pubblico, l’accentuazione e l’ostentazione, tutta berlusconiana, del corpo femminile e la sua economia tramite la televisione di massa, che in quegli anni è preponderante, il personalismo, l’esigenza di mostrare una certa fisicità, una certa propensione all’apparenza fisica mi sembrano elementi sufficienti per stabilire a cosa sia dovuta la prima frase della Ferrante qui citata. In un momento storico in cui la fisicità non riesce a separarsi dal giudizio sull’opera, in cui il mondo poetico è sommerso dal mondo fisico, la scelta della scrittrice appare rivoluzionaria. La caccia all’identità è pertanto pericolosa: se si annulla lo pseudonimo, si annulla anche la sua letteratura. E significherebbe perdere una delle più grandi scrittrici della nostra contemporaneità.

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