Il Palio: aspetti e curiosità sul primo “made in Italy”

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Giuseppe Catterin, Venezia –

Fenomeno tipicamente italiano, la cui fortuna è attestata dalla tenace – e, a tratti, fiera – persistenza nonostante il fluire dei secoli, la corsa del palio è tutt’ora una tradizione ampiamente consolidata in buona parte del territorio nazionale, capace tuttavia, ab origine, di trascendere dalla semplice etichetta di “folklore” o rievocazione storica che si è soliti usare alla presenza di queste circostanze: la consolidata fortuna del palio di Siena è senz’ombra di dubbio dovuta alla natura del palio stesso, e cioè momento topico del calendario, civile e religioso, in cui, per un breve lasso di tempo, tutta la cittadinanza, appositamente divisa in circoscrizioni a base quartierale, si ferma per poter partecipare a tale manifestazione. Presumibilmente, a riprova della capillarità della diffusione di tale fenomeno lungo la Penisola, molti lettori del seguente articolo avranno giustamente la voglia di segnalare la presenza di palii nelle loro terre d’origine, molto probabilmente sconosciuti ai più.

La sua natura tipicamente italiana già nel Cinquecento non sfuggiva all’autore de Il Cavalerizzo, Claudio Corte, vissuto prevalentemente in Francia al servizio di Carlo IX. Motivo della sua meraviglia era dovuta al fatto che “né ho visto mai correre né sentito mai dire che [in Francia, ndr ] vi corressero palii” nonostante la Francia fosse “così regale e copiosa di cavalli”. Il cavallerizzo Corte, quando si riferisce al palio, intende la corsa dei cavalli e, soprattutto, allude ad una fase storica in cui il palio, spogliato di alcuni significati peculiari riscontrabile nelle manifestazioni medievali, era diventato un fenomeno folkloristico (emblematica la scelta di preferire la versione “equester” a scapito di quella “pedester”), piuttosto che manifestazione dalle numerose sfaccettature antropologiche – e di cui si parlerà in seguito.

Un’immagine dall’alto di Piazza del Campo a Siena, durante un recente palio. AFP PHOTO / Fabio Muzzi

La capillarità del palio è comunque riscontrabile già sette secoli fa: durante il suo soggiorno a Verona nel 1304, Dante assistette al locale palio – che si correva durante la prima domenica di Quaresima – riportandone un’impressione così forte da ispirargli l’icastica similitudine della Commedia.
Nel canto XV dell’Inferno – terzo girone del settimo cerchio, secondo la geografia infernale –, Dante e Virgilio giungono ad una campagna pianeggiante, una landa deserta e sabbiosa; qui, in una schiera costretta a correre continuamente e senza sosta, il Poeta riconosce il maestro Brunetto Latini, che, come spesso accade all’interno della Commedia, abbandona il gruppo di peccatori a cui era assegnato per poter intrattenere uno scambio di battute  con il suo discepolo. Fin qui, tutto sommato, nulla di strano; anzi, legittimamente ci si potrebbe pure domandare cosa tale digressione abbia che fare con il tema che si prefigge questo articolo. Giungiamo, dunque, velocemente alla fine del dialogo: il Latini, nell’accomiatarsi dall’Alighieri, viene da quest’ultimo descritto in questa maniera:

 

Poi si rivolse, e parve di coloro
che corrono a Verona il drappo verde
per la campagna; e parve di costoro
quelli che vince, e non colui che perde

 

In poche parole, la corsa del Latini attraverso la terra brulla parve a Dante simile all’agone sportivo che i cittadini di Verona, fin dagli albori del XIII secolo, svolgevano correndo dalle campagne finitime alle mura cittadine. Al vincitore di tale corsa spettava il “drappo verde”, ricchissima pezza di stoffa che veniva attribuita, in questo caso, al vincitore del palio veronese e, generalmente, ai vincitori dei pali diffusi in alte parti d’Italia. Similitudine ancora più interessante se si tiene in considerazione l’origine fiorentina di Dante, patria d’indubbia importanza nel vasto mondo dell’Italia comunale (similitudine talmente cara che si può riscontrare anche nel De Monarchia al nono capitolo del secondo libro)

 

Particolare dell’affresco di Francesco Del Cossa, Aprile (Salone dei Mesi, Palazzo Schifanoia, Ferrara), dove sono ritratte le immagini del Palio di San Giorgio.

Ed è proprio dall’areale toscano, fertile fucina per le esperienze di governo comunale, che ci proviene un altro aspetto, alquanto interessante, riconducibile al concetto di palio. Nel giugno del 1292, l’oste comunale di Firenze mosse contro la vicina e rivale Pisa. Come da copione, se si vuole ragionare avendo in mente quella che può venir definita come “prassi” nella guerra nell’Italia bassomedievale, l’esercito fiorentino portò guasto nelle campagne circostanti: vennero arse le messi pronte al raccolto, tagliati e danneggiati gli alberi da frutto, demolite varie e numerose strutture. Nell’ottica fiorentina, la campagna militare poneva però un non indifferente problema: il 24 giugno cade infatti la festa di San Giovanni Battista, patrono della città di Firenze. La lontananza dalla città, e quindi la mancata partecipazione al complesso di riti gravitanti attorno la celebrazione del santo, privava dunque gli uomini militanti sotto gli stendardi fiorentini della funzione apotropaica derivante dalla celebrazione del santo. La necessità di organizzare un palio era dunque impellente; la possibilità di farlo svolgere sotto le mura della città assediata era, invece, irrepetibile.

In questa specifica occasione, la corsa del palio ottenne una duplice natura: all’anima certamente religiosa, senza tralasciare gli aspetti ludici, veniva aggiunta una carica di componenti riconducibili alle sfere semantiche della sfida e del dileggio. I Fiorentini, così facendo, volevano ulteriormente rimarcare la loro superiorità bellica e morale sul nemico. Egemonia ulteriormente rimarcata dalla mancata interruzione da parte dei Pisani – che, molto prudentemente, preferirono rimanere chiusi al riparo delle mura cittadine nonostante, come orgogliosamente sottolineato da Giovanni Villani, l’ausilio di ottocento cavalieri comandati dal conte di Montefeltro – anche da sfumature scatologiche facilmente immaginabili: la presenza di deiezioni equine, prodotte dai veri protagonisti del palio fiorentino, ebbe sicuramente un ruolo cruciale nel rimarcare ulteriormente – come se ce ne fosse il bisogno – la grandezza della sfida lanciata e dell’onta subita.

Ostentazione cittadina che però nasconde un aspetto di non indifferente interesse e che merita di venir rimarcato. Come accennato già nelle prime battute dell’articolo, il palio, ma è un discorso che può venir esteso anche agli altri fenomeni “ludici” tipicamente medievali e caratterizzati dall’amplia partecipazione cetuale (aspetto riscontrabile anche nelle battagliole), si fondava – e si fonda tutt’ora – su di una profonda ed intima spaccatura del tessuto cittadino in tanti piccoli microcosmi intramurari. Può certamente capitare, come si è anche precedentemente visto, che tali tensioni possano venir facilmente incanalate in una celebrazione collettiva della superiorità cittadina; anzi, a Padova la storia del palio inizia con la “Vittoria” per eccellenza, vale a dire la cacciata di Ezzelino III da Romano e la conseguente restaurazione dell’autorità comunale.

Vincenzo Rustici, Corteo delle Contrade del 15 agosto 1546, olio su tela, 1600

Tuttavia, il problema di fondo rimane: la tensione sociale, sebbene momentanea, che il palio è capace di suscitare può risultare fatale a mantenere la concordia disperatamente ricercata dalle autorità comunali del Duecento italiano. Anzi, basterebbe scorrere velocemente la normativa statutaria edita per potersi rendere facilmente conto della serie di norme, il più delle volte dettate dal serio timore di tumulti pubblici, emanate circa tali fenomeni: tipologie di armi lecite da usare ed età minima e massima dei partecipanti, nei casi di battagliole o zuffe; tipologia di cavalli, percorsi da seguire e ammende ai rei d’intralcio, nel caso dei pali. Paradossalmente, l’introduzione del palio a cavallo, espressione tipica dell’aristocrazia cittadina, a discapito delle forme di palio corse “pedester”, marcava ulteriormente la differenza cetuale all’interno della cittadinanza stessa.

L’aristocratizzazione del Palio, avvenuta a seguito dell’avvicendamento tra Signorie e Comuni, fu certamente una maniera per elevare ulteriormente la munificenza della città e, conseguentemente, il nome e la gloria del Signore che la reggeva; durante la piena maturità delle realtà comunali, invece, era un’attività che fungeva da chiaro demarcatore sociale per la classe del cavalierato, soprattutto in seguito all’emergere dei primi ceti popolari nel comando della città. Tuttavia, è la natura stessa del palio che forse può suggerirci la sua fortuna nonostante i “rischi” che poteva comportare: come accennato nel caso veronese, estendibile anche ad altri esempi italiani, la struttura originaria della corsa prevedeva un percorso lineare che, il più delle volte, partiva dalle campagne circostanti per poi concludersi all’interno delle mura (la struttura a circuito, invece, è più tarda e successiva). La corsa, dunque, si prefigurava comunque come un evento “cittadino”, rappresentazione allegorica del compimento del processo di comitatinanza ai danni delle campagne circostanti: a correre era un quartiere che, comunque andassero le cose, era partecipe del potere cittadino.  Il primato che, invece, spettava al vincitore si prefigurava soprattutto per la sua natura morale: la vittoria, infatti, avveniva grazie non tanto alla forza dei componenti della squadra – come nelle battagliole – bensì alla capacità fisica ed economica.

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