“La natura si vendica di ogni nostra vittoria”: ecologia e comunismo nel pensiero di Marx

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Jacopo Bernardini, Torino –

Nel mondo contemporaneo risultano evidenti i problemi legati all’impatto delle attività umane sull’ambiente.

L’ecologia fu definita da Ernst Haeckel nel 1866 come “economia della natura”, cioè lo studio dei flussi di materia e di energia negli ecosistemi, dei rapporti fra esseri viventi, fra produttori vegetali, consumatori animali e decompositori.

Essa, nella prima metà del Novecento, quando incominciarono ad essere evidenti i danni causati dai fattori antropici all’ambiente, cominciò a fare notevoli passi avanti, occupandosi, in misura crescente, delle perturbazioni degli equilibri dei sistemi naturali e dei problemi creati all’interno delle società umane.

 

Ernst Haeckel

 

Se la prima grande ondata di “contestazione ecologica” che ha coinvolto massicciamente l’opinione pubblica prese piede tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, l’ambientalista e politico italiano Giorgio Nebbia riuscì ad individuare nel marxismo alcuni importanti elementi capaci di riallacciarsi a diverse tematiche ecologiche contemporanee.

Secondo Nebbia il marxismo conterrebbe strumenti indispensabili per comprendere meglio le cause dell’odierna crisi ambientale.

L’interesse di Marx ed Engels per i rapporti uomo-natura, per Nebbia, non dovrebbe affatto stupire, dato che entrambi furono contemporanei di grandi naturalisti come Justus von Liebig, Charles Darwin, Ernst Haeckel, che essi ricordano e citano.

Di Liebig parla Marx nel tredicesimo capitolo della IV sezione del I libro del “Capitale”, precisando che la spiegazione del lato negativo dell’agricoltura moderna è uno dei meriti immortali del chimico tedesco.

 

Justus von Liebig

 

Nel più importante degli scritti giovanili di Marx, ovvero i “Manoscritti economico-filosofici” del 1844, l’autore tedesco cercò di dare sistematicità al suo pensiero analizzando l’intreccio fra “naturalismo” e “comunismo”.

L’assunto principale è che l’uomo risulta parte della natura: questo dato originario non viene soppresso dal lato “attivo” della specie umana, la quale mediante il lavoro modifica se stessa e la natura circostante. Tuttavia il metodo di produzione capitalistico impone una profonda alienazione agli esseri umani, che si trovano così completamente distaccati dall’ambiente naturale.

 

“Le piante, gli animali, le pietre, l’aria, la luce, eccetera costituiscono una parte della vita umana e dell’umana attività. La natura è il corpo inorganico dell’uomo […] Che l’uomo viva della natura vuol dire che la natura è il suo corpo, con cui deve stare in costante rapporto per non morire […] l’uomo e una parte della natura.”

 

La natura è imprescindibile oggetto del lavoro dell’uomo, elemento con cui esso instaura un rapporto di reciprocità profondo.

 

L’operaio non può produrre nulla senza la natura, senza il mondo esterno sensibile. Questa è la materia su cui si realizza il suo lavoro, su cui il lavoro agisce, dal quale e per mezzo del quale esso produce.”

 

Il tema venne ripreso da Engels nel 1876, con la sua “Dialettica della natura”.

 

L’animale si limita ad usufruire della natura esterna, ed apporta ad essa modificazioni solo con la sua presenza; l’uomo la rende utilizzabile per i suoi scopi modificandola: la domina. Questa è l’ultima, essenziale differenza fra l’uomo e gli altri animali, ed e ancora una volta il lavoro che opera questa differenza. Non aduliamoci troppo tuttavia per la nostra vittoria sulla natura; la natura si vendica di ogni nostra vittoria.”

 

Tornando ai Manoscritti, le suggestioni “ecologiche” continuano approfondendo le conseguenze dell’alienazione imposta dai rapporti di produzione capitalistici.

 

“Poiché il lavoro estraniato rende estranea all’uomo la natura e l’uomo stesso; la sua propria funzione attiva, la sua attività vitale, rende estraneo all’uomo la specie; fa della vita della specie un mezzo della vita individuale […].”

 

Solo il comunismo può sopprimere questa alienazione, realizzando una riconciliazione dell’uomo con l’uomo e della specie con la natura.

Se in regime di economia capitalistica, soprattutto nel settore agricolo, si verificano sprechi colossali, Marx scorse nella socializzazione dei beni della natura una soluzione all’eccessivo sfruttamento delle risorse naturali.

 

 

 

Nel terzo volume del “Capitale”, Marx affermò che gli individui non sono proprietari della terra: essa è stata loro affidata perché la conservino, migliorandola se opportuno, in modo tale che anche le generazioni future possano goderne appieno.

Elemento cardine di questa primordiale concezione di “sostenibilità” un drastico cambiamento delle relazioni fra l’uomo e la natura attraverso un mutamento dei rapporti di forza tra gli uomini.

 

“Il comunismo come soppressione positiva della proprietà privata intesa come autoestraneazione dell’uomo, e quindi come reale appropriazione dell’essenza dell’uomo mediante l’uomo e per l’uomo; perciò come ritorno dell’uomo per sé, dell’uomo come essere sociale, cioè umano, ritorno completo, fatto cosciente, maturato entro tutta la ricchezza dello svolgimento storico sino ad oggi. Questo comunismo (…) è la vera risoluzione dell’antagonismo tra la natura e l’uomo, tra l’uomo e l’uomo”.

 

Sia Marx che Engels diedero particolare rilievo alle condizioni di vita degli operai nelle città industriali, accusando il capitalismo di acuire la separazione fra città e campagna. In particolare Engels, nel saggio “La situazione della classe operaia in Inghilterra” del 1845, sottolineava come anche la popolazione, come il capitale, subisse un processo di accentramento, dato che l’operaio veniva considerato soltanto come una porzione del capitale messa a disposizione del fabbricante: gli operai erano destinati a diventare così semplicemente mano d’opera facilmente accessibile all’impresa capitalistica.

Per Marx tutto questo comportava una “rottura” dell’originale vincolo di parentela che legava agricoltura e manifatture.

 

Con la proporzione sempre crescente della popolazione urbana che la produzione capitalistica accumula nei grandi centri essa (…) turba il ricambio organico fra uomo e terra (…) turba dunque l’eterna condizione di una durevole fertilità del suolo. Così distrugge insieme la salute fisica degli operai urbani e la vita intellettuale dell’operaio rurale (…) Come nell’industria urbana, cosi nell’agricoltura moderna, l’aumento della forza produttiva e la maggiore quantità di lavoro resa (…) vengono pagate con la devastazione e l’ammorbamento della stessa forza-lavoro.”

 

Nel saggio “Anti-dühring” del 1878, Engels tracciò un possibile scenario in grado di permettere la coesistenza di un apparato industriale sviluppato e di un ambiente salubre per il lavoratore.

 

“Solo una società che faccia ingranare armoniosamente le une nelle altre le sue forze produttive secondo un solo grande piano può permettere all’industria di stabilirsi in tutto il paese con quella dislocazione che è più appropriata al suo sviluppo e conservazione. Solo con la fusione fra città e campagna può essere eliminato l’attuale avvelenamento di acqua, aria e suolo, solo con questa fusione le masse che oggi agonizzano nelle città saranno messe in una condizione in cui i loro rifiuti siano adoperati per produrre le piante e non le malattie. La civiltà ci ha senza dubbio lasciato nelle grandi città un’eredità la cui eliminazione costerà molto tempo e molta fatica.”

 

Nell’ottica marxista, dunque, la salvezza del pianeta non risulta compatibile con una economia capitalistica: per rendere l’ambientalismo davvero efficace è perciò necessario che i problemi ambientali fuoriescano dal campo prettamente etico per affermarsi soprattutto in campo politico e sociale. La battaglia per l’ambiente deve necessariamente inserirsi all’interno della critica della società capitalistica.

 

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