Cosa successe a Caporetto? Storia di una disfatta all’italiana

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Francesco Barbarulo, Firenze –

A distanza di cento anni dagli eventi (24 ottobre 1917) è ancora forte la memoria della disfatta di Caporetto. La terribile sconfitta inferta durante la prima guerra mondiale dagli imperi centrali ai danni del Regno d’Italia è ricordata non solo nei testi scolastici di storia, ma anche dall’uso della nostra stessa lingua, dove frasi come “è stata una Caporetto” vengono tuttora adoperate per indicare un evento risoltosi in una pesante sconfitta.

Questo evento, oltre alle conseguenze puramente numeriche (arretramento del fronte di 150 km, 300.000 prigionieri, 11.000 morti sul campo, 29.000 feriti), implicò anche il passaggio da una guerra di conquista a una guerra di strenua e disperata difesa. Se l’eroica resistenza sul Piave e il balzo finale di Vittorio Veneto (24 ottobre – 4 novembre 1918) hanno in parte mitigato la sconfitta subita a Caporetto, queste non bastarono a placare il dibattito che sin dall’inizio era andato creandosi per stabilire le cause e le colpe della disfatta; infatti l’appena eletto presidente del consiglio Vittorio Emanuele Orlando, sotto pressioni del parlamento, dovette indire una commissione d’inchiesta con il compito di indagare sulle responsabilità della sconfitta già dalla fine del 1917.

Il lavoro di questa commissione, uscito nell’estate 1919, non aveva fatto luce sulle colpe del governo, ma aveva invece raccolto un’enorme e preziosa mole di testimonianze di militari, usandole per attribuire la disfatta all’incapacità di alcuni dei vertici militari e al crollo morale della truppa. A queste accuse risposero prontamente i generali, i comandanti e i soldati con una cospicua mole di memoriali nei quali i militari, o si accusavano a vicenda, o evidenziavano l’inadeguatezza della classe dirigente politica e la sua incapacità di preparare la società civile a supportare e sostenere lo sforzo bellico.

Per qualche anno il dibattito fu continuato da politici, militari e appassionati, ma con l’avvento del fascismo la propaganda nazionale e la censura fecero quasi scomparire il dibattito sulla scomoda memoria di Caporetto – in pochi riuscirono a scriverne tramite qualche casa editrice minore o rivista di nicchia –; tuttavia nel 1930 Gioacchino Volpe, massimo storico del regime, pubblicò un bel volume divulgativo su Caporetto. Nonostante l’acceso patriottismo e qualche forzatura, fu anche molto attento alle motivazioni militari, sociali e politiche della sconfitta, la quale tuttavia venne indissolubilmente legata alla gloriosa Vittorio Veneto e presentata come una delle tante sconfitte subite dall’Intesa (per esempio nella sola battaglia del Verdun, nel febbraio-giugno 1916, morirono 270.000 francesi e 240.000 tedeschi). Questa interpretazione, seppur sfrondata da alcuni eccessi di retorica fascista, fu mantenuta a lungo nelle scuole anche dopo la fine del regime.

Se si escludono i lavori di alcuni storici come Piero Pieri, che già durante il ventennio fascista aveva pubblicato alcuni ottimi, poco conosciuti, articoli su Caporetto, si dovrà aspettare la metà degli anni Cinquanta perché il tema riceva nuova linfa vitale dagli storici. Grazie alla maggiore accessibilità degli archivi e alla desecretazione dei documenti nuove e più approfondite analisi permisero di indagare molteplici aspetti della guerra, della vita del soldato e dei generali, ma anche dell’influsso della società civile sulla guerra e viceversa.

Fu così che dalla fine degli anni Sessanta, la visione patriottica, con la quale si intendeva Caporetto come un preludio necessario a Vittorio Veneto, venne definitivamente smontata e sostituita da quella della disfatta totale. Visione, quest’ultima, tuttora perdurante nella cultura del paese nonostante i continui lavori compiuti dagli storici per mostrare le varie particolarità e sfaccettature degli eventi.

Nell’ultimo ventennio, lamenta lo storico Nicola Labanca, l’eccessiva frammentazione degli studi ha però creato un’enorme confusione dovuta alle “mille prospettive” che impediscono una visione d’insieme su un argomento così complesso. Alcuni lavori, infatti, riprendono posizioni vecchie di quasi un secolo – difendendo l’operato dei generali –, mentre altri ritengono di svelare scomode “verità” o complotti orditi al fine di irridere l’identità nazionale italiana e per corroborare uno stereotipo negativo del combattente italiano.

In definitiva, quindi, che cosa successe a Caporetto e perché può essere considerata una disfatta?

Provando a tracciare un breve e incompleto resoconto della battaglia inizierò considerando lo scenario internazionale della fine del 1917. In questo periodo la guerra tra gli imperi centrali e le altre potenze era giunta a una sorta di stallo dopo enormi sforzi e grandi perdite umane. Anche se la rivoluzione d’ottobre aveva definitivamente decretato l’uscita della Russia dalla guerra, liberando il fronte orientale e concedendo un po’ di respiro all’ormai stremata Austria-Ungheria, l’ingresso in guerra degli Stati Uniti d’America, freschi, ricchi e combattivi, rialzò le sorti della triplice intesa, la quale intraprese una guerra difensiva di logoramento.

Se queste potenze di prim’ordine erano riuscite a sostenere l’enorme sforzo bellico, questo lo si dovette alla particolare unione politica e sociale che si era creata intorno alla guerra, una guerra che veniva reputata giusta e necessaria.

Al contrario delle altre potenze, l’Italia fu trascinata in guerra da una minoranza interventista, osteggiata sia da socialisti e giolittiani, sia dal papa Benedetto XV, il quale nell’agosto 1917, aveva lanciato un appello ai capi di governo per fermare “l’inutile strage”.

Luigi Cadorna

La spaccatura interna al paese e la mancanza di un’adeguata propaganda ebbero un effetto oltremodo negativo sulle truppe, già allo stremo delle forze a causa dei combattimenti e dell’autoritarismo dei generali e del Comandante supremo Luigi Cadorna. Quest’ultimo in particolare si era creato un circolo di fedeli all’interno dello Stato Maggiore e solo con loro elaborava la strategia militare, centralizzando su di sé le azioni di comando e incoraggiando negli altri ufficiali la subordinazione e il conformismo. Abituati all’obbedienza e privati di una visione d’insieme della strategia militare questi ufficiali erano totalmente dipendenti dallo Stato Maggiore.

Nonostante il ritardo economico e industriale italiano rispetto alle altre potenze, Cadorna, incurante dei bisogni psicologici e fisici dei soldati, aveva elaborato una strategia incentrata sull’attacco, volta a sfondare il fronte giulio in direzione di Trieste e Lubiana con continui attacchi. Con l’undicesima “spallata” sull’Isonzo, lanciata alla fine dell’estate 1917, era stata presa a caro prezzo la Bainsizza. Cadorna, fedele alla sua strategia incentrata sull’offensiva e non ritenendo possibile una reazione austro-ungarica prima della primavera, aveva mantenuto sulla prima linea truppe, fortificazioni e depositi militari, senza pensare a far costruire linee arretrate per far riorganizzare e resistere le proprie truppe in caso di sfondamento nemico, né a preparare riserve fresche per sostituire i soldati ormai stanchi. Così quando i generali italiani (il 20 ottobre) si resero conto che le truppe austro-tedesche stavano organizzandosi per un attacco in quei trenta chilometri di fronte che andavano da Plezzo a Tolmino, era troppo tardi per approntare difese adeguate o fortificare linee arretrate; anzi, il generale della II armata, Luigi Capello, aveva addirittura disatteso alcuni ordini precedenti di Cadorna per la creazione di nuove opere difensive.

L’esercito austro-ungarico, coadiuvato da sette divisioni di élite tedesche e comandato dal tedesco Otto von Below, dopo aver condotto un’attenta e segretissima pianificazione e preparazione delle truppe, sferrò il suo attacco il 24 ottobre alle ore 2:00. Mentre i cannoni austriaci devastavano il territorio tagliando le varie linee di comunicazione, la gran parte dei generali italiani, presi di sorpresa e impossibilitati a ricevere ordini dal Comando supremo, non seppero prendere l’iniziativa e, invece di andare a coordinare i propri soldati sul campo, fuggirono – famoso il caso di Pietro Badoglio, comandante del XXVII corpo di armata, dal quale non fu sparato nemmeno un colpo di cannone – lasciando le truppe a resistere da sole assieme agli ufficiali inferiori.

Il massiccio impiego di gas, usati soprattutto nella conca di Plezzo, dove poterono esercitare al massimo la loro venefica azione, fu unito alla già collaudata tattica dell’infiltrazione, che prevedeva, tramite piccoli reparti di soldati, lo sfondamento dei punti sguarniti, una profonda penetrazione nel territorio avversario e il rientro per prendere alle spalle il nemico.

Quando gli austro-tedeschi arrivarono alle prime linee alcuni reparti italiani resistettero eroicamente anche per ore, mantenendo la posizione o coprendo la fuga dei compagni, ma la gran parte degli altri, lasciati senza alcuna indicazione o ordine e nel timore di venire accerchiati, si ritirarono in maniera più o meno confusa.

La fiumana di soldati che dilagava nel territorio italiano, spesso abbandonando le armi e talvolta anche proclamando a gran voce l’imminenza della fine della guerra e auspicando, finalmente, la pace, fu interpretata dagli alti quadri dell’esercito come una grave mancanza di disciplina e, addirittura, di tradimento. Proprio questo, infatti, fu l’incipit del comunicato rilasciato il 28 ottobre dal Comandante supremo Luigi Cadorna:

 

La mancata resistenza di riparti della II° Armata vilmente ritiratisi senza combattere, o ignominiosamente arresisi al nemico, ha permesso alle forze austro germaniche di rompere la nostra ala sinistra sulla fronte Giulia.

 

Leonida Bissolati parla ad un comizio

Il socialista Leonida Bissolati, invece, parlò già dal 31 ottobre di uno “sciopero militare” simile a quello avvenuto poco tempo prima in Russia. Così, quando ancora si combatteva e le truppe austro-tedesche non erano state fermate definitivamente sul Piave (9 novembre), già si erano formate due posizioni fondamentali nella creazione di un dibattito che sarebbe continuato sino ai giorni nostri.

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