Viticoltura e vinificazione nell’Italia medievale. Parte prima: la diffusione della vite e le tecniche di introduzione e moltiplicazione

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Vincenzo Roberto Cassaro, Bologna –

La storia della viticoltura nella Penisola italiana può vantare una origine antica ma fu soltanto durante il periodo romano che il vigneto si diffuse capillarmente, riuscendo a superare indenne anche le difficoltà dello stato romano. Nel III secolo d. C., ad esempio, nonostante il territorio italico attraversasse una forte crisi economica e sociale, la vigna continuava a vantare un’ampia propagazione.

La situazione mutò con lo scoppio della guerra greco- gotica che devastò le campagne di gran parte della Penisola, con risvolti a volte drammatici per le popolazioni dei territori coinvolti. Di riflesso, anche la presenza dei vigneti nelle campagne italiane registrò un brusco arretramento.

 

 

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La situazione non cambiò dopo l’invasione dei Longobardi che, a partire dal 568-569, conquistarono buona parte dello Stivale. Sebbene l’Editto di Rotari, risalente al 643, poneva molta attenzione nei confronti della viticoltura e delle colture arboree, con il tentativo di tutelare queste pratiche agricole, la realtà era ben diversa: molte terre erano state abbandonate dal lavoro dei contadini, con la conseguenza che si assistette ad un prepotente avanzamento dell’incolto a scapito delle terre messe a coltura.

I terreni, lasciati al loro destino, furono progressivamente conquistati dai boschi, dalle sterpaglie e dall’incolto. In tale contesto, anche la vite subì un drastico ridimensionamento, senza però mai sparire del tutto: pur essendo sempre meno presente nelle campagne italiane riuscì comunque a resistere, soprattutto grazie ai nuovi valori che il vino andava ricoprendo nell’ambito della religione cristiana.

Nel Cristianesimo, il vino è infatti veicolo di messaggi evangelici, possiede una forte connotazione sacrale e simbolica, ricopre anche una funzione liturgica fondamentale: durante la celebrazione dell’eucarestia, il vino era consumato anche dai fedeli e non soltanto dai prelati.

Da ciò scaturiva la necessità di garantire una certa produzione della bevanda alcolica. Il Cristianesimo ebbe, quindi, un ruolo determinante nella diffusione della vite, garantendone una proliferazione anche in territori dove le condizioni climatiche non favorivano la crescita dei vitigni: pensiamo ad esempio all’introduzione delle vigne nelle regioni del Nord Europa, perciò all’introduzione di una pianta mediterranea in un contesto ambientale ben differente, come quello atlantico.

 

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A partire dalla fine del VII secolo, anche se molto stentatamente, iniziò a registrarsi una nuova fase di espansione della viticoltura, che avverrà in modo molto più deciso e diffuso tra il VIII e il IX secolo. In un primo tempo, la diffusione  delle vigne avvenne su iniziativa dei più grandi e prestigiosi monasteri (per motivi legati al culto, all’alimentazione e agli scambi commerciali). Successivamente, alla luce anche di una indubbia reddittività garantita dalla pianta, anche i feudatari si fecero promotori della coltivazione della vite, rendendosi protagonisti, soprattutto a partire dal IX secolo, dell’espansione dei vigneti.

Nei secoli successivi all’anno Mille, invece, furono altri i protagonisti della diffusione della vite: i nuovi ceti urbani. La ripresa delle attività di scambio e dei commerci, via via su scala sempre più ampia, provocò un aumento della popolazione urbana, che permise la formazione di uno strato sociale cittadino  nuovo e dinamico, desideroso d’investire i propri capitali nella terra (naturalmente in questa nuova fase gli enti ecclesiastici e l’aristocrazia continuarono ad investire nelle campagne, contribuendo all’espansione della viticoltura, ma non ne furono gli unici protagonisti, come registrabile nei secoli altomedievali).

Per questi nuovi ceti, inoltre, disporre di tanto vino costituiva il segno tangibile della propria ascesa sociale giacché, fino ad allora, la bevanda era esclusivo appannaggio degli ecclesiastici e della nobiltà. Così, tra l’XI e il XV secolo, gran parte delle campagne intorno alle città d’Italia divennero delle vere e proprie terre viticole registrando, a volte, delle appendici anche entro le mura cittadine. I vigneti, comunque, non si diffusero soltanto intorno alle città, ma proliferarono anche attorno ai castelli, ai villaggi e addirittura anche in aperta campagna, lontano da ogni insediamento.

 

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Il vino, molto richiesto nei mercati urbani, era un prodotto il cui commercio andava molto bene, soprattutto nei centri cittadini, non soltanto perché nelle città c’era una maggiore concentrazione di individui ma anche perché i consumi erano molto elevati. Ad esempio, il cronista fiorentino Giovanni Villani ci testimonia che nella Firenze della prima metà del XIV secolo il consumo di vino annuo pro capite si aggirava intorno ai 260- 270 litri.

Nel tardo medioevo (XIV-XV secolo), invece, a Siena, a Bologna e nell’area veneta i consumi superavano addirittura il litro al giorno pro capite. Le ragioni di questi consumi così alti erano molteplici. In primo luogo, il vino aveva un apporto calorico non trascurabile e quindi veniva consumato per motivi alimentari.

Non bisogna nemmeno dimenticare, inoltre, che costituì a lungo l’unica bevanda per la socializzazione e per lo svago. Inoltre, si riteneva che l’alcool possedesse proprietà curative tali da venir usato come rimedio per molti mali. Infine, oltre al consumo di vino legato alla religione, era costume consumare l’acqua con l’alcool, sfruttando, in questa maniera, le proprietà asettiche tipiche del vino.

 

La pedologia dei suoli in relazione con il vigneto

Piantare in un terreno un vigneto poteva risultare un’operazione molto complessa e faticosa, soprattutto quando si trattava di terreni che fino a quel momento erano stati improduttivi, dominati dalle sterpaglie o, ancor peggio, se si trattava di aree boschive. In questi casi bisognava eliminare tutti gli alberi, gli arbusti e le erbacce.

Successivamente, si rendeva necessario lavorare il terreno, soprattutto se molto sodo, attraverso la zappa; se si doveva effettuare un lavoro più profondo nella terra, invece, si passava su quest’ultima l’aratro o la vanga. Dovevano essere eliminati anche i massi (quelli di più ampia dimensione venivano prima sminuzzati e poi tolti) e le pietre, infine bisognava scavare i fossati di scolo per evitare il ristagno delle acque piovane, solitamente scavati intorno al perimetro della vigna.

 

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schema di funzionamento della propaggine

 

 

Per quanto riguarda i sistemi di moltiplicazione della vite, nell’Italia medievale sono stati registrati soltanto il sistema della talea e quello della propaggine. Il primo modello consisteva in un sistema che prevedeva il taglio di un frammento della vite (poteva trattarsi di una porzione di radice, di fusto, di ramo o di foglia) che, poi, veniva poi piantato nel terreno al fine di dar vita ad un nuovo esemplare.

Il sistema della propaggine, invece, consisteva nel piegare un ramo della pianta così da poterlo interrare parzialmente. Il ramo, inizialmente unito alla pianta madre, veniva reciso non appena avesse sviluppato un sufficiente apparato radicale. Era un sistema adoperato per sostituire le viti improduttive, vecchie o malate, così come per la moltiplicazione degli esemplari.

 

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Danni provocati dalla fillossera sulla foglia della vite

 

Attualmente, il sistema della propaggine può essere esposto al rischio della fillossera, un insetto di origine nordamericana che si diffuse in Europa nella seconda metà del XIX secolo causando una terribile epidemia tra i vitigni europei, attaccati, a livello delle radici, da questo nuovo infestante.

Rischio che, tuttavia, risultava del tutto inesistente durante il Medioevo, ma che sancì una netta cesura nella storia della viticoltura europea: visto che la filossera non attacca alcuni vitigni americani, l’epidemia dell’Ottocento fu superata collocando gli innesti europei su quelli provenienti dal Nuovo Mondo.

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