Viticoltura e vinificazione nell’Italia medievale. Parte seconda: i sistemi di coltivazione

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Vincenzo Roberto Cassaro, Bologna –

Nell’Italia medievale, i sistemi di coltivazione della vite furono di tre tipologie:

  • a sostegno morto;
  • a sostegno vivo;
  • senza sostegno.

Per quanto riguarda la messa a coltura a sostegno morto, venivano utilizzate – come ci può suggerire il nome –  canne e pali. Non è un caso, dunque, che la presenza di un canneto in vigna fosse considerata di grande importanza, tant’è vero che spesso nei contratti di locazione, qualora il terreno fosse sprovvisto di un canneto, il proprietario era obbligato a fornire al vignaiolo la quantità di canne necessarie per la coltivazione. Il canneto, inoltre, solitamente veniva collocato ai margini del vigneto, “coltivato” ad hoc.

Per la formazione dei pali era invece preferito soprattutto il legno di castagno, ma venivano apprezzati anche l’abete e il salice. Mentre le canne erano sottoposte soltanto all’aguzzamento, i pali, diversamente, subivano prima la scortecciatura e successivamente si aguzzavano. Il sostegno morto era una tecnica usata specialmente nelle campagne suburbane, dove i filari erano molto stretti, così come pure nelle appendici viticole presenti negli spazi urbani.

 

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Il sistema del sostegno vivo, o dell’alberata, consisteva invece nell’utilizzare anche gli alberi come supporti della vite, dando così luogo ad una coltivazione a viti alte. Parzialmente diffuso già a partire dal XIII secolo, questo sistema si diffonderà soprattutto nell’Italia centrale e nell’area padana durante il Tardo Medioevo, oltre al caso singolare della Campania, dove la coltivazione dell’alberata vantava radici millenarie. Era un sistema che permetteva la coltivazione promiscua: non era raro che fossero presenti nello stesso terreno colture erbacee, arbustive e arboree e, in certi casi, tra un filare e l’altro erano presenti degli spazi destinati al pascolo del bestiame.

Il successo dell’alberata era determinato non soltanto dalla possibilità della coltura promiscua, possibile grazie alla distanza tra i filari e al collocamento alto della vite (che garantivano quindi lo spazio necessario per la messa a coltura, per esempio, dei cereali e delle leguminose), ma anche da altri fattori. Innanzitutto, il fogliame degli alberi usati come supporti, garantiva consumi alimentari agli ovini e ai bovini; in secondo luogo, le piante proteggevano la vite da varie calamità naturali, soprattutto dalle grandinate che impensierivano molto i vignaioli. Infine, i rami ricavati dalle potature erano adoperati per il riscaldamento e in una vasta molteplicità di utilizzi.

 

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Oltretutto, il collocamento alto delle viti facilitava le operazioni di raccolta dell’uva e favoriva il riscaldamento di quest’ultima da parte del sole. Un alto vantaggio da considerare era il risparmio economico, non trascurabile, legato al minor uso di canne e pali.

L’albero più impiegato come sostegno era l’oppio, poiché presentava molto fogliame, utile per gli animali, ed era facilmente potabile. Inoltre, possedendo delle radici poco estese, costituiva una minaccia poco rilevante nei confronti della vite per l’assorbimento dell’acqua e di altre sostanze. Altri alberi utilizzati furono l’olmo, il pioppo, il salice, l’olivo, il gelso e, tra gli alberi da frutto, il ciliegio e il mandorlo.

L’altro sistema di coltivazione della vite è quello ad alberello o senza sostegno, tipico delle regioni meridionali (ad eccezione della Campania). Questa tipologia di coltivazione, dove le viti si presentavano come singoli alberelli bassi, si sviluppò prevalentemente nel Mezzogiorno della Penisola per una duplice ragione. Da un lato, fattori antropologici, come la tendenza alla specializzazione delle colture; dall’altro, invece, aspetti climatici: le alte temperature garantivano, anche se la vite era bassa, un adeguato riscaldamento dell’uva da parte dei raggi solari, per cui utilizzare sostegni, vivi o morti, risultava superfluo.

 

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Calcolare la densità dei vigneti a coltura specializzata non è semplice né tantomeno schematizzabile, in quanto si tratta di un calcolo che può variare molto a seconda delle regioni ma anche all’interno di uno stesso ambito territoriale: ad esempio, all’inizio del XIV secolo, nelle campagne attorno Palermo si sono registrati in molti vigneti all’incirca 2300 viti per ettaro, quindi una distanza media, tra una vite e l’altra, di circa 2 metri.

Le fonti a nostra disposizione, per ciò che riguarda l’intero ciclo della vite, sono numerose: innanzitutto, i trattati agronomici tardomedievali, come il Liber ruraliam commodorum di Piero de’ Crescenzi o la produzione di Paganino Bonafede e di Corniolo della Cornia. Accanto a questi documenti, grande importanza la riservano anche gli statuti delle comunità e gli atti notarili.

Analizzando le attività del calendario agricolo, si deve fare attenzione a non fare generalizzazioni, in quanto le operazioni potevano variare in base alle esigenze che si presentavano e in base ai luoghi geografici. Comunque, solitamente, si effettuavano dalle due alle quattro zappature l’anno (si poteva passare anche l’aratro o la vanga). Tra la fine dell’Inverno e l’inizio della Primavera, inoltre, si svolgeva la scalzatura, azione che consisteva nell’allontanare la terra dalla base della vite al fine di ammorbidire la terra e permettere un maggiore assorbimento delle acque piovane. La scalzatura poteva essere accompagnata dalla sbarbettatura, operazione che prevedeva l’eliminazione delle radici superficiali. Tra Primavera ed Estate avveniva la rincalzatura, che consisteva nell’accumulare la terra alla base della vite per mantenere l’umidità sotto il terreno. All’inizio dell’Estate si svolgeva l’occatura, nella quale le zolle di terra venivano sminuzzate ed erano eliminate le erbacce infestanti, un’operazione che poteva aver luogo anche diverse volte nell’arco della stagione calda.

 

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Per ciò che concerne i lavori sulla pianta, si deve innanzitutto parlare della potatura. Quest’ultima, era un’attività di enorme importanza, che si svolgeva tra gennaio e febbraio, in quanto dal suo giusto svolgimento dipendeva la produttività e la vita operativa della pianta. La potatura avveniva soprattutto attraverso pennati da pergola, roncole e coltelli speciali. I proprietari, inoltre, avevano tutto l’interesse di controllare i lavori e prendere possesso dei rami potati poiché essi potevano avere diverse applicazioni, come ad esempio alimentare il forno bannale. Era un’operazione effettuata con modalità differenti: Paganino Bonafede suggerisce di lasciare almeno tre gemme per una buona potatura, mentre in Sicilia se ne lasciavano due.

In Primavera avveniva la potatura in verde mediante la quale erano tolti i polloni che si formavano sul fusto della vite e sempre in questo periodo venivano sostituiti i pali e le canne deteriorati, permettendo così che i filari riuscissero a sostenere il peso delle viti (canne e pali erano uniti ai filari attraverso rami di ginestra e salice oppure steli di giunco). È bene ricordare che a volte, prima della vendemmia, quindi in Estate, poteva essere effettuata la spampinatura o sfogliatura per favorire la maturazione dell’uva e facilitare le operazioni di raccolta.

 

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Nel Medioevo italiano, la concimazione, effettuata durante le zappature o arature primaverili, raramente veniva praticata usando il letame vista la scarsa disponibilità di quest’ultimo. Erano, dunque, altri i materiali adoperati: dalla paglia alle vinacce, passando ai rami. Per sopperire alla mancanza di concimi di origine animale si ricorreva alla pratica del sovescio, consistente nell’interrare particolari colture, come ad esempio le leguminose, particolarmente ricche di principi nutrienti. L’unica pratica di prevenzione contro i parassiti era quella dell’inviscatura, effettuata tra Marzo e Aprile, mediante la quale la vite veniva cosparsa di vischio per evitare che fosse attaccata dai bruchi che, solitamente, colpivano i rami più giovani – e, quindi, più fragili.

Se non si faceva prevenzione, bisognava intervenire tempestivamente per evitare che la vite potesse subire ulteriori danni. È quello che successe alle vigne pontificie che nel 1286 furono attaccate dai bruchi. Per l’occasione, vennero assoldati dei giovani per 81 giornate lavorative con il compito di eliminare manualmente i parassiti dalle viti.  Le vigne erano esposte anche ad altre minacce, come ad esempio i rischi legati ai conflitti bellici e le intemperie atmosferiche (soprattutto le grandinate).

I coltivatori, infine, dovevano vedersela quotidianamente con pericoli difficilmente contrastabili: furti di canne e di pali, tagli e altri danni alla vite, dovuti anche al passaggio di animali. I proprietari cercavano di tutelarsi costruendo muretti a secco, recinzioni, scavando fossati o innalzando siepi. In loro soccorso accorreva anche la legislazione, che cercò sempre di tutelare la viticoltura: in molti statuti era prevista la vigilanza pubblica dei vigneti, la quale a volte poteva essere affiancata dalla vigilanza privata, tant’è che in alcune comunità i proprietari e i vignaioli potevano dotarsi di propri custodi.

LE LETTURE CONSIGLIATE:

  • A. Cortonesi-G. Pasquali-G. Piccinni, Uomini e campagne nell’Italia medievale, Roma- Bari, Laterza, 2002