Sovietistan: quasi una “terra di nessuno”. Erika Fatland racconta il suo viaggio nei territori ex-sovietici dell’Asia Centrale

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Turpal Kol Lake, Kyrgyzstan

Caterina Mongardini, Venezia –

Tempo fa Parentesi Storiche si è occupata delle periferie occidentali dell’ex-Unione Sovietica e registrava che il sentimento più diffuso nelle Repubbliche Baltiche era un motivato – storicamente giustificato – timore che la Russia potesse nuovamente nuocere loro.

Questa volta, il libro “odeporico” di Erika Fatland, Sovietistan. Un viaggio in Asia centrale (Marsilio, 2017) ci dà l’occasione di scoprire un territorio infinitamente più grande, quanto sconosciuto: l’area genericamente chiamata Turkestan.

 

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Gli “Stan” (suffisso, che vuol dire paese/nazione che caratterizza il nome degli stati presenti in quest’area) contrariamente ai paesi occidentali, più che “paura” sembrano nutrire una malcelata nostalgia dell’Urss; anche di fronte alle catastrofi naturali – e nucleari – causate dall’amministrazione sovietica, l’antropologa norvegese non sembra trovare rancore negli abitati di quelle regioni, che pure stanno pagando da decenni un prezzo altissimo in termini di salute.

Il viaggio intrapreso da Erika Fatland potrebbe a giusto titolo essere assimilato ai resoconti delle esplorazioni geografiche: questa immensa regione, che si estende per 4.006.561 km2, è pressoché sconosciuta, anche a causa delle immense distese di deserto che la compongono e delle impervie montagne che la caratterizzano.

Eppure essa, molti secoli prima della dominazione russa ottocentesca, era il cuore della Via della Seta, l’enorme arteria di collegamento fra l’Estremo Oriente e l’Occidente; era la culla dello zoroastrismo, il cui culto aveva per secoli incoraggiato lo studio delle scienze e della volta celeste; è stato territorio di contesa di Mongoli e Arabi; era la terra natale del medico e filosofo Avicenna e del matematico Al-Biruni; rappresentò la parte più difficile del viaggio di Marco Polo; il terreno privilegiato per le conquiste di Tamerlano.

 

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Bayterek Tower, Astana, Kazakhstan

 

Anche se chi scrive, in questo momento, sta generalizzando, non lo fa in cattiva fede – e probabilmente l’autrice del libro e chi avrà voglia di leggerlo capiranno la mia difficoltà – piuttosto ne è costretta dal fascino delle novità che questo libro apporta alla conoscenza del Turkestan.

Non a caso, nel lavoro della Fatland, la trattazione di ogni Paese è un capitolo a sé stante per dare il giusto spazio alla storia e alle tradizioni di ciascuno stato, evidenziando ciò che li accomuna e ciò che li diversifica.

Il viaggio si svolge in due parti per evitare il clima avverso del gelido inverno e della rovente estate centroasiatica: la prima comprende Turkmenistan e Kazakistan, i due paesi più grandi; la seconda Tagikistan, Kirghizistan, Uzbekistan.

 

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Ashgabat, Turkmenistan

 

A causa delle rigide, se non dittatoriali, forme di governo, in questi paesi i giornalisti non sono i benvenuti e l’antropologa norvegese ha dovuto dichiarare che lo scopo del suo viaggio fosse dettato da motivi di studio, con tutti i rischi che avrebbe comportato dichiarare il falso per valicare i confini di uno stato, senza contare la paura di essere scoperti ad ogni piè sospinto.

La storia recente degli Stan è stata caratterizzata dalla dominazione sovietica, fino al 1991, e poi dalla giovane indipendenza. Dei cinque stati sovrani, solamente uno – il Kirghizistan – ha avuto in questi venticinque anni delle libere elezioni e un avvicendamento ai vertici della presidenza: ciò, però, gli è costato disordini e periodi di vera e propria guerra civile, caratterizzata perlopiù da scontri interetnici.

L’élite politica dei rimanenti quattro, invece, appartiene (o è stata nominata) dalla vecchia amministrazione sovietica. La maggior parte degli attuali presidenti era, nel 1991, il segretario del Partito Comunista nazionale, che all’indomani del collasso ebbe la prontezza di svestire i panni del “compagno” e vestire quelli del leader che avrebbe traghettato il paese nell’era dell’indipendenza e del benessere.

Se le prime elezioni apparvero come l’espressione della voglia di cambiamento dei centro asiatici, la democratizzazione degli Stan fu soffocata sul nascere dai vertici della nuova – riciclata – classe dirigente che non avevano nessuna intenzione di perdere i privilegi acquisiti in tanti anni di governo sovietico.

Anzi, a tutt’oggi, più che a delle dittature, alcune forme di governo sono paragonabili a dei veri e propri sultanati, in cui ogni occasione è buona per stringere la morsa del potere attorno alle libertà civili e politiche: non a caso, nella classifica Democracy Index del The Economist, Kazakistan, Ubekistan, Tagikistan e Turkmenistan figurano rispettivamente al 139°, 158°, 161° e 162° posto su 167 nazioni prese in esame (il Kirghizistan si posiziona ad un invidiabile 98° posto).

 

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Douchanbe, Tagikistan

 

Anche la lotta al terrorismo “post undici settembre” è stata utilizzata dai governi come alibi per mortificare la religione musulmana e per ribadire la laicità degli Stan. Il terrorismo di matrice islamica è solamente uno dei problemi che i governi di questi paesi tendono a nascondere sotto il tappeto: gli scontri interetnici sono tenuti sotto controllo da una severa politica nazionale.

Infatti, i confini sovietici non sono stati toccati dopo il collasso del 1991: come quelli disegnati dai colonialisti europei nel Nord Africa, anche questi furono tracciati a tavolino, dividendo tribù e famiglie; nei primi anni della dominazione sovietica, inoltre, il nazionalismo dilagò anche in questa regione ed etnie che prima convivevano e condividevano pacificamente lo stesso territorio, cominciarono a guardarsi con sospetto.

I problemi politici, sociali ed economici che opprimono i paesi del Turkestan sono uno dei motivi per i quali non sono delle mete turistiche ambite. Nonostante il viaggio intrapreso da Erika Fatland mostri quante bellezze naturali si possano trovare sul proprio cammino; quanta ricchezza si possa rintracciare in città come Samarcanda o in siti archeologici testimoni di civiltà antichissime – anche coeve a quella Egizia e come questa sviluppate – ma pressoché abbandonati; quanta storia si annidi nei deserti di questa regione; un immenso territorio che, nonostante tutto, rimane sconosciuto.

 

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Samarcanda, Uzbekistan

 

Gli stati che lo compongono si riducono a nomi mitici che richiamano immagini di favolose grandezze. Mentre, quando si cerca di individuarne le capitali, si apre un vuoto nella memoria e appare uno sguardo spaesato negli occhi.

Eppure, questa “terra di nessuno”, è stata una delle prede più ambite da parte dei conquistatori occidentali: russi e inglesi si fronteggiarono a lungo nell’Ottocento in questo angolo di mondo, inaugurando la politica del “The Great Game”.

Mongoli, Arabi e Russi, ancor prima, si contendevano i khanati che costellavano la regione; risalendo ancor più indietro, Alessandro Magno passò di lì per raggiungere l’India. Si noti bene: nella costruzione dell’identità nazionale degli Stan, Alessandro Magno è fondamentale, tanto che ogni Stan ne rivendica la paternità.

 

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Erika Fatland

 

Il merito dell’antropologa scandinava è stato quello di restituire un’identità ben definita ad ognuno dei Paesi dell’Asia Centrale, ex-Repubbliche socialiste sovietiche, affrontando il proprio viaggio con professionalità ma anche con la curiosità necessaria per prendere coraggio, partire da sola ed affidarsi al mondo e alle sue strade.

La vera scoperta, anche per il lettore, sarà rendersi conto che mentre le immense e lunghe autostrade sovietiche si sfaldano sotto le ruote delle jeep e dei camion che percorrono chilometri di lande desolate, quelle della memoria e della tradizione sono più salde che mai e si inerpicano fin sulle montagne del Pamir, ai confini con la Cina e l’Afghanistan.

Erika Fatland
Sovietistan.  Un viaggio in Asia centrale
Venezia, Marsilio, 2017
pp. 417