“Tripoli bel suol d’amore”: la stampa italiana e le false notizie nella propaganda interventista per la guerra di Libia

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Alessandro Rigo, Verona –

 

«[…] già nell’aprile del 1911 cominciarono ad essere distribuiti agli ufficiali dell’esercito i manualetti di conversazione italo-araba. E proprio nella primavera del 1911, Giuseppe Piazza pubblicava sulla Tribuna le corrispondenze su la “Terra promessa”; e subito dopo Giuseppe Bevione iniziava la serie delle sue mirabolanti esplorazioni su la Stampa. E, per tutta l’estate, la campagna giornalistica si estendeva e si intensificava. È mai possibile che la Tribuna e la Stampa si sieno mosse, senz’aver ricevuta l’imbeccata dal Governo?»

 

A distanza di due anni dalla conclusione della guerra italo-turca, Gaetano Salvemini, introducendo una sua raccolta di scritti sull’argomento, rifletteva a mente fredda attorno al ruolo giocato dalla stampa italiana nel «preparare» l’opinione pubblica all’intervento militare in Libia.

Salvemini, com’è noto, era stato in quei frangenti il grande protagonista dell’opposizione all’impresa bellica. Egli aveva avanzato – dalle pagine della «Voce» prima, e poi dell’«Unità» – una serrata campagna giornalistica di smascheramento di quelle false notizie con le quali i grandi giornali nazionali avevano preso a tessere il cosiddetto «trabocchetto tripolino»: ovvero la «colossale mistificazione» di una leggendaria «terra promessa» che, una volta conquistata, avrebbe dovuto risolvere definitivamente tutti i mali italiani.

 

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Niente a che vedere, dunque, con quella che Giovanni Giolitti, giustificando la dichiarazione di guerra nell’autunno 1911, aveva definito una «fatalità storica»: la guerra, secondo il grande storico pugliese, era stata prima di tutto un enorme sperpero di capitale umano ed economico e non avrebbe risolto nulla sul piano della politica internazionale, anzi: avrebbe aggravato la posizione dell’Italia in seno alla Triplice alleanza il cui trattato di lì a poco – nel 1913 – avrebbe dovuto essere rinnovato.

Salvemini tendeva a ricondurre le sue argomentazioni soprattutto in funzione della politica estera nazionale: l’interesse italiano doveva essere impedire il rafforzamento austro-ungarico nei Balcani, frenare la sua avanzata verso Salonicco con il qual porto – assieme a quello di Trieste – la potenza asburgica avrebbe potuto controllare l’Adriatico, collocando l’Italia in una penosa condizione di vassallaggio, politico economico e militare.

 

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Intervenire in Libia, dunque, avrebbe messo a repentaglio gli interessi più vitali per lo Stato, che erano nei Balcani, non nel Mediterraneo: in questo senso, la guerra alla Turchia era considerata da Salvemini – e, con lui, dalle opposizioni democratiche all’impresa libica – come una guerra sostanzialmente anti-nazionale, per di più maturata in seguito al ricatto operato da gruppi di pressione privati, riconducibili agli ambienti clericali del Banco di Roma, che da anni procedeva ad espandere le proprie attività economiche sul suolo tripolino.

Furono, del resto, i giornali controllati da questo istituto finanziario ben inserito anche negli ambienti giolittiani – soprattutto il Corriere d’Italia e l’Avvenire d’Italia – a dare il la, sullo scorcio del 1910, alla campagna per la «penetrazione pacifica» della Tripolitania: proprio in un momento nel quale più forti si facevano gli ostracismi e i boicottaggi delle autorità turche nei confronti dei gruppi affaristici italiani nella regione.

Era d’altronde palese a tutti – e ai turchi soprattutto – che la penetrazione economica italiana sarebbe stata solo preparatoria a quella politica: mentre gruppi finanziari ed economici, missioni geologiche, archeologiche o pastorali si riversavano in Libia con l’obiettivo di espandere l’influenza italiana sul territorio, la diplomazia italiana si era impegnata, fin dai primi anni del secolo, a preparare il terreno diplomatico, ottenendo gradualmente il nulla osta da parte di tutte le potenze europee.

 

 

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Ai giornali cattolici fecero subito eco i fogli di area giolittiana, La Tribuna e La Stampa: a partire dal dicembre 1910 la questione tripolina entrò sulle loro pagine con cadenza quasi giornaliera, informando sulle attività finanziarie italiane e sulla presenza di giacimenti minerari nel sottosuolo libico; creando allarmismi attorno ad una penetrazione tedesca nell’area; ma soprattutto andando ad ingigantire piccoli incidenti diplomatici, con lo scopo di creare nell’opinione pubblica italiana – come ha scritto Marina Tesoro – «un clima di profonda diffusa turcofobia». Il tutto mentre il governo ribadiva la linea esclusivamente economica dell’azione italiana, anzi, insisteva sull’interesse per l’integrità territoriale dell’Impero ottomano.

Tali posizioni furono riconfermate da Giolitti allorquando, caduto il governo Luttazzi nel marzo 1911, si apprestò a presentare alla Camera il suo quarto gabinetto, con i tre punti fondamentali del suo «lungo ministero»: suffragio universale, monopolio statale delle assicurazioni sulla vita e risoluzione della questione libica.

Solo che se i primi due punti trovarono immediato riscontro nell’iter parlamentare, il terzo rimase sostanzialmente censurato. Fu lo stesso Giolitti a darne spiegazione nelle sue Memorie: la segretezza dell’azione governativa per la Libia era elemento essenziale per la «migliore soluzione del problema».

 

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Così, mentre il governo taceva, perseguendo una politica attendista ed esponendosi alle accuse di immobilismo politico da parte dell’opinione pubblica, la stampa, sull’onda degli eventi internazionali e nel clima delle celebrazioni del «giubileo della Patria», spingeva sempre più verso una prova di forza militare che riscattasse il disastro di Adua del 1896 e diventasse la consacrazione definitiva della «Grande Italia» nell’agone delle potenze mondiali.

Una retorica nazionalista-imperialista che trovò lo slancio definitivo proprio con la nascita de L’Idea nazionale e l’ingresso del gruppo nazionalista nel dibattito politico italiano.

La persuasione interventista passava dunque dall’ingigantimento del valore economico e politico della Tripolitania, realizzato attraverso una sistematica manipolazione della parola e delle immagini, per la quale più che la veridicità delle informazioni contava lo slancio emozionale della retorica e degli stereotipi.

 

«Tripoli – scriveva il leader nazionalista Enrico Corradini – potrebbe diventare una delle più belle città del Mediterraneo […] questa città che oggi è ricettacolo d’un povero carnaio umano, ha, come accennai, la sua bellezza tra il mare e il deserto. Se c’è un’opinione radicata in Europa, è che il deserto sia sempre deserto. Se c’è una certezza in Tripolitania […] è che il deserto almeno della Tripolitania, buona parte almeno, non è deserto, si può cioè coltivare e far produrre».

 

La Libia diveniva così la terra della «missione civilizzatrice» italiana: un Eldorado malsfruttato dall’antiquato potere turco, che era compito dell’Italia, «Terza Roma», recuperare a novella civiltà, sulle orme dei fasti dell’aquila imperiale. Bevione, inviato a Tripoli da La Stampa, così decantava le magnificenze del territorio:

 

«Ho veduto gelsi grandi come faggi, ulivi più colossali che le quercie. L’erba medica può essere tagliata dodici volte all’anno. Gli alberi da frutta prendono uno sviluppo miracoloso. Il grano e la meliga danno, negli anni medi, tre o quattro volte il raccolto dei migliori terreni d’Europa coltivati razionalmente. […] La vigna dà grappoli di due o tre chili l’uno […]».

 

La prosperità del suolo libico (e solo in parte del sottosuolo, visto che ancora non se ne conosceva la ricchezza petrolifera) avrebbe potuto risolvere il problema della disoccupazione e dell’emigrazione italiane e dare un taglio netto e definitivo all’annosa questione meridionale. La missione era “facile”: il territorio era male amministrato dal governo turco, le popolazioni autoctone in rivolta ci avrebbero accolti a braccia aperte. Le vicende belliche, per la verità, avrebbero poi dimostrato in gran parte il contrario.

Ma articoli con questi toni entrarono con sistematicità nelle case degli italiani, veicolati non solo sui quotidiani, ma anche e soprattutto sui più popolari settimanali illustrati e attraverso instant books a prezzi stracciati che gli stessi giornalisti confezionavano raccogliendo i propri articoli in volume.

 

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E ottennero l’effetto voluto: all’inizio di settembre ad opporsi seriamente alla guerra rimasero solo alcuni gruppi di intellettuali di area democratico-liberale – preoccupati soprattutto degli aspetti tecnici e materiali della guerra – mentre l’Estrema sinistra si trovò estremamente divisa.

Se i radicali del Secolo si opposero, i repubblicani si divisero e Salvatore Barzilai, loro importante esponente, dichiaratosi interventista fu espulso dal partito. Anche i socialisti ebbero divisioni interne tra la destra di Ivanoe Bonomi e Leonida Bissolati e certe correnti del sindacalismo, favorevoli alla guerra, e il gruppo dirigente turatiano, anti-tripolino. Quest’ultimo, però, sottovalutando l’efficacia della propaganda nazionalista e le intenzioni del governo, solo alle avvisaglie della dichiarazione di guerra si impegnò in una opposizione serrata quanto confusionaria sul giornale di partito Avanti!.

In entrambe le formazioni politiche si avviò, comunque, un processo di disgregazione interna che portò alla resa dei conti negli anni successivi.

Ma non furono solo i socialisti a sottovalutare per lungo tempo le dinamiche sviluppantesi all’interno dell’opinione pubblica italiana: anche il Corriere della Sera, che all’epoca teneva una linea critica verso il governo giolittiano e, memore di Adua, di prudenza verso la politica coloniale, si era limitato, fino all’estate 1911, a seguire a rimorchio la campagna tripolina.

Solo tra la fine di agosto e gli inizi di settembre, fiutata la situazione, virò drasticamente la sua linea verso l’intervento. Sarà proprio il giornale milanese, nel periodo delle operazioni militari, ad assumere la leadership dell’informazione e della propaganda sulla guerra, con la pubblicazione delle dannunziane Canzoni d’oltremare e i reportages dal fronte di Luigi Barzini.

 

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Nelle sue Memorie, si giustificò poi il direttore Luigi Albertini, «Facemmo […] come tutti i maggiori giornali, della retorica»: di fatto, attraverso la diffusione e il peso politico del suo giornale, egli contribuì enormemente al diffondere nel grosso pubblico sentimenti nazionalistici che avranno lungo corso nell’opinione pubblica italiana del decennio successivo.

L’intervento del giornale milanese fu, dunque, decisivo per quella che Franco Gaeta ha definito la «prima grande campagna di informazione e di disinformazione di massa della storia italiana» che riuscì, in poco più di nove mesi, a condurre larga parte dell’opinione pubblica dall’idea della penetrazione pacifica della Tripolitania a quella della conquista militare, captando i suoi umori più profondi e trasformandoli in un impeto imperialistico e irrazionalistico che il “concretismo” delle opposizioni non riuscì in alcun modo a contenere.

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