L’uomo, la bestia, i cieli: critica all’antropocentrismo. Un dibattito attuale? Il nuovo saggio di Vilma Baricalla

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Giulia Barison, Venezia –

La messa in discussione dell’antropocentrismo, ovvero la concezione secondo cui l’uomo è al centro di qualsiasi considerazione, è oggi più che mai di fondamentale importanza. Il XXI secolo, un secolo che si prospetta ancora più “breve” del precedente, ha conosciuto sviluppi tecnologici eccezionali.

Se da un lato questo fenomeno può costituire un elemento positivo, dall’altro ha avuto risvolti deleteri, proprio a causa delle declinazioni più recenti dell’antropocentrismo, ovvero capitalismo e consumismo. Assistiamo a una produzione volta a un esponenziale aumento della quantità a fronte della diminuzione dei tempi e dei costi e ciò non genera solo un prodotto qualitativamente carente, ma anche il tracollo dell’etica.

Se il saggio di Vilma Baricalla, L’uomo, la bestia, i cieli: critiche all’antropocentrismo nel Sei-Settecento (Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 2018 – edizione riveduta e corretta del volume uscito nel 2000 per EDIZIONI ETS – Pisa) tratta dell’uomo e della “bestia”, l’allevamento intensivo, una realtà di recente acquisizione, costituisce un ottimo esempio di questo tracollo.

Secondo i dati FAO del 2016, le vittime dell’industria zootecnica ammontano a: tra i 970 e i 2700 miliardi di pesci, 70 miliardi di polli, 1.5 miliardi di maiali, 1 miliardo di pecore, 0.9 miliardi di conigli e 0.3 miliardi di mucche. È sconcertante pensare che, a fronte di una popolazione di 7 miliardi di individui, di cui 815 milioni muoiono di fame, ogni anno quasi 3000 miliardi di animali vengono macellati a scopo alimentare.

 

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Non trascurabili sono poi i dati sull’impatto ambientale degli stessi allevamenti. Sette mesi fa si tenne a Brescia una conferenza sull’impatto ambientale degli allevamenti intensivi: un gruppo di dibattito costituito da accademici e specialisti suggerì l’inserimento degli allevamenti intensivi nella lista delle nocività ambientali, alla stregua di discariche, inceneritori e cementificazione. Ciò non stupisce se consideriamo che la produzione di un chilogrammo di carne comporta l’utilizzo di 6000 litri di acqua e che ogni anno vengono prodotti 35 miliardi di tonnellate di CO2, dovute per il 30% proprio agli allevamenti intensivi.

Tuttavia, a fronte di questa triste deriva dell’antropocentrismo, si assiste a un fenomeno reazionario che recentemente ha conosciuto una crescita esponenziale: l’antispecismo – alla base del quale giace il principio di uguaglianza fra specie. L’animalismo e l’ecologismo costituiscono fenomeni che stimolano con sempre maggiore enfasi il dibattito mondiale e che mettono deliberatamente in discussione la visione specista.

In realtà, la critica in questione non costituisce un’istanza recente, ma è argomento di dibattito filosofico sin dall’antica Grecia: in L’uomo, la bestia, i cieli, Baricalla prende in considerazione solo il dibattito sei-settecentesco. Il titolo mette subito in luce una questione fondamentale: il terzo termine citato è “cieli” perché l’antropocentrismo è fatalmente collegato alla religione, o meglio, al Cristianesimo.

È quindi inevitabile porsi determinate domande: Dio ha creato tutto, animali compresi, solo e unicamente a nostro utilizzo e vantaggio? L’animale è poi così dissimile dall’uomo? L’animale ha un’anima? Ne I princìpi della filosofia Cartesio sostiene che:

 

«sebbene sia un pensiero pio e buono […], di credere che Dio ha fatto tutto per noi, […] non è, tuttavia, in alcun modo verosimile che tutte le cose siano state fatte per noi in modo tale che Dio non abbia avuto nessun altro scopo creandole […]. Non sapremmo dubitare che non vi sia un’infinità di cose che sono ora nel mondo, ovvero che ci sono state un tempo, e hanno già interamente cessato di essere, senza che nessun uomo le abbia mai vedute o conosciute, e senza che gli siano mai servite a nessun uso».

 

Possiamo quindi considerare l’antropocentrismo come un vero e proprio errore di pensiero o, come direbbe Fontenelle (cfr. Entretiens sur la pluralité des mondes), una «nostra follia [che ci induce a] credere che tutta la natura, senz’eccezione, è destinata al nostro servizio». D’altronde, come afferma romanticamente Guillaume Lamy in Discorsi anatomici:

 

«è vero: il sole lo [l’uomo] illumina, ma è anche vero che lo brucia […]. È vero: il mare è racchiuso in confini precisi; ma è anche vero che talvolta supera questi confini e inghiotte indifferentemente tutto quello che trova e non risparmia l’uomo più di quanto non risparmi gli altri esseri viventi […]. È vero: alcuni animali gli obbediscono e lo nutrono; ma è anche vero che altri lo divorano senza pietà […]. Pertanto, Signori, il dominio su tutte le cose che l’uomo si attribuisce, mi appare del tutto infondato».

 

L’erroneo principio sul quale si fonda l’antropocentrismo è, usando le parole di Baricalla, che «ogni essere adotta la propria immagine a modello. E la scala gerarchica, costruita dall’uomo, ha valore solo per lui». Tuttavia, è impossibile categorizzare la natura secondo nette demarcazioni, dal momento che essa stessa le rifiuta e, così come vi sono confini labili tra forme naturali e forme naturali, così ve ne sono tra uomo e animali.

 

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L’uomo al centro del mondo, Cattedrale di Anagni, XI-XIII sec.

 

Locke individua “zone” sfumate tra uomo e animali: ciò significa che, per fare un esempio, il fatto che gli uomini abbiano abilità linguistiche e gli animali no, non significa che non vi siano affinità tra le due specie. Anzi, in L’uomo macchina La Mettrie confida:

 

«non oso decidere se gli organi vocali della scimmia non possano, checché si faccia, articolare nulla: ma questa impossibilità assoluta mi stupirebbe, data la grande analogia fra la scimmia e l’uomo».

 

Negli scritti di Cyrano de Bergerac, al quale è dedicato il secondo capitolo, «l’antropocentrismo è condannato non solo in quanto errore, ma in quanto comodo strumento per far apparire legittimi comportamenti moralmente riprovevoli». E, così come condanniamo le bestie, in quanto diverse dall’uomo, finiamo per condannare tutto ciò che, pur avendo natura umana, è considerato diverso, in nome di un modello unilaterale e soggettivo che paradossalmente diventa giudizio universale.

Ne La dotta ignoranza Cusano afferma l’impossibilità umana di rinunciare al proprio punto di vista, indipendentemente dal luogo in cui si trova, perché «ognuno, in fondo, è al centro del suo universo». Ciò stimola un ulteriore ragionamento: se ognuno è al centro del proprio universo, o la formica quanto l’uomo ha ragione di credere di avere un ruolo centrale, oppure l’x-centrismo è frutto di un’illusione prospettica, di una visiona miope che causa, secondo la terminologia di Baricalla, «un errore epistemologico».

Ma, se fossimo in grado di fare riferimento a un modello meno soggettivo e più universale, come risponderemmo alla domanda: l’animale è davvero così dissimile dall’uomo? Soprattutto dinanzi a questa istanza entra in gioco il paradigma religioso. Nella Summa Theologiae Tommaso d’Aquino, rifacendosi ad Aristotele, esprime la sua convinzione per cui l’unico essere vivente dotato di ragione è l’uomo, mentre gli animali, alla stregua delle piante, sono guidati unicamente dall’istinto. Ciò costruì le basi che portarono al principio cartesiano che afferma la superiorità dell’uomo sul resto del creato.

Ma già Charron e Montaigne si interrogano su come l’uomo possa conoscere i meccanismi che soggiacciono alla condotta animale e perché, a priori, venga attribuita la facoltà razionale all’uomo, mentre all’animale viene attribuito il solo istinto. Prendiamo ora in considerazione gli angeli, esseri naturali perfetti, rispetto ai quali, come sostiene lo stesso Leibniz, la terra e i suoi abitanti appaiono completamente inconsistenti.

Da un lato, ne consegue – ed è questo l’obiettivo del discorso di Leibniz – uno screditamento dell’idea che tutto sia stato creato in funzione dell’uomo, dall’altro che «assai lontano dalla perfezione […] l’uomo si accorge di essere estremamente vicino alle altre creature terrestri. Un’irrisoria distanza lo separa dagli animali».

 

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Tuttavia, ciò che ha maggiormente messo a disagio la critica è la natura dell’anima animale. Pierre Bayle sostiene che il principio dell’anima animale coincide con quello dell’anima umana. D’altronde, le stesse anime di Aristotele e Cicerone infanti coincidono con quelle di un cane: la differenza si crea successivamente per un incidente, ovvero l’affinamento della natura dell’anima, senza il quale Aristotele e Cicerone adulti avrebbero conosciuto la stessa crescita conosciuta dal cane.

Tuttavia, credere che la nostra anima coincida con quella animale crea non poco imbarazzo – motivo per cui, forse, l’anno scorso la Gran Bretagna ha dichiarato gli animali esseri non senzienti: l’anima delle bestie è priva di peccato, a differenza di quella umana, eppure, alla stregua di quella umana, è soggetta al dolore e alla miseria che lo stesso uomo gli infligge. Come sostiene Bayle in Dizionario storico e critico:

 

«è una bella incongruenza che la creatura innocente debba essere soggetta a tutti i capricci della creatura colpevole!».

 

La lettura del saggio di Baricalla in un’ottica attuale lascia ampio spazio alla riflessione. Risulta un’ovvietà che l’antropocentrismo costituisca una caratteristica psicologica innata nell’uomo e ciò potrebbe deludere le speranze odierne degli animalisti e degli ecologisti. Ciò nonostante, la sua messa in discussione sembra costituire argomento di dibattito da tempi immemori e, se prima era relegata alle voci degli intellettuali, oggi comincia ad avere un’ampia diffusione, sia in senso verticale, sia in senso orizzontale.

Se la concezione antropocentrica sta alla base di alcuni fra i maggiori fardelli del nostro secolo, sarebbe auspicabile che ognuno prendesse coscienza della necessità di mettere in discussione questa visione: potrebbe essere il primo passo verso un mondo migliore.

 

V. Baricalla,
L’uomo, la bestia, i cieli: critiche all’antropocentrismo nel Sei-Settecento,
Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 2018
pp. 105