Una finestra che si chiude: il Baltico e le sue Repubbliche tra russofobia e sfide del decennio

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Caterina Mongardini, Venezia –

 

Qui una città sarà fondata
Del superbo vicino in onta e danno.
Qui da natura fu per noi disposto
Di aprire una finestra sull’Europa,
Di porre un fermo piede sul mare.
E qui per onde a loro nuove
Verranno ospiti a noi tutti i vessilli,
e in piena libertà fermo festa.
(A. S. Puškin, Il Cavaliere di Bronzo, 1841)

 

Nel 1703, su uno dei mari più freddi del globo, in un golfo angusto e chiuso, su un piccolo lembo di terra strappata alla Svezia – in quel momento troppo occupata a combattere contro la Polonia e la Sassonia – fu posata la prima pietra di una città nuova, programmata per essere un avamposto culturale e politico euroasiatico. Pietro il Grande era convinto che una flotta nel Baltico sarebbe stata la “finestra” che avrebbe aperto la Russia – l’enorme, continentale, isolata Russia – alla grandiosità europea, del quale lo zar era uno dei più grandi ammiratori.
Il Baltico, con il passare del tempo e l’avvicendarsi dei rivolgimenti geopolitici, rimase – ed è tutt’oggi – per i Russi uno spiraglio fluido verso Occidente, un occidente che però guardò – e guarda ancora- con timore la mole “asiatica” del suo vicino.

Le Repubbliche che dal Baltico prendono il nome – Estonia, Lettonia e Lituaniaindipendenti da venticinque anni a questa parte, in passato hanno risentito pesantemente dell’ingerenza russa (e in seguito sovietica): il loro territorio, infatti, alla fine della Grande Guerra del Nord (1721) fu annesso all’Impero Russo. Nel 1918, dopo la Rivoluzione Russa e la fine del primo conflitto mondiale, ottennero l’indipendenza che mantennero fino al 1940, anno in cui furono occupate dall’Urss e trasformate in Repubbliche Socialiste Sovietiche. La caduta dell’Urss le liberò da quel giogo, ma una lingua di terra tra la Polonia e la Lituania, l’Oblast’ di Kaliningrad, è ancora lì a testimoniare la solida presenza della Russia sul Baltico. Le piccole repubbliche – nonostante facciano parte della NATO e dell’UE dal 2004 – memori delle condizioni a cui dovettero sottostare in passato, sussultano al minimo movimento dell’“orso russo” che dorme lì a fianco; temono che quel vento freddo che spira da Est, portato dagli sconfinamenti dell’aviazione o della marina russa, possa diventare una corrente espansionistica che potrebbe risolversi in un’annessione (come è successo per la Crimea) indesiderata.

Un dettaglio della Carta Marina del 1539 di Olaus Magnus, raffigurante tutta la Scandinavia e le terre del Nord.

Il timore diffuso di un’invasione russa – fondato o meno che sia – ha le sue radici non solo nel rancore covato per decenni nei confronti dell’(ex) dominatore, ma anche da problemi di ordine interno agli stati stessi: il più pressante ed evidente, è il problema della componente etnica delle popolazioni di Estonia e Lettonia.

Nel 1940 il governo sovietico, per ottenere un maggior controllo del territorio, decise di agire sulla demografia dei paesi occupati “diluendo” la componente etnica autoctona e incentivando l’emigrazione russa verso le altre Repubbliche Socialiste Sovietiche. In particolare in Lettonia ed Estonia, la maggioranza della popolazione è divisa tra due etnie: quella originaria e quella russa. Secondo il censimento del 2011 in Lettonia il 62,1% della popolazione è di etnia lettone, mentre il 29,9% è di etnia russa; allo stesso modo in Estonia, stando ai dati del 2012, gli estoni sono il 69,7% della popolazione mentre i russi il 24,8% (per non parlare delle percentuali di russofoni e non all’interno di entrambi gli stati). La presenza di questa nutrita “minoranza” russa ha fatto sì che i due paesi, all’indomani dell’indipendenza, si dotassero di carte costituzionali che interpretassero in modo estremamente restrittivo il diritto di cittadinanza.

La capitale della Lettonia, Riga

In Lettonia per poter avere la cittadinanza occorre fare un test di lingua e cultura lettone che molti non sono in grado di sostenere (o non vogliono fare per protesta); in Estonia i requisiti sono ancora più rigidi in quanto sono cittadini estoni a tutti gli effetti soltanto coloro che possono dimostrare di avere la cittadinanza da prima del 16 giugno 1940 – data d’inizio dell’occupazione sovietica – e i loro discendenti, preferendo l’adozione dello ius sanguinis. L’iter per poter diventare cittadino estone è comunque molto complicato perché si basa su requisiti temporali e linguistici (test di lingua e cultura estoni) che difficilmente sono raggiungibili: significativa è la qualifica di “kodakondsuseta isik” (in estone: “cittadinanza indefinita”) che riguarda tutte quelle persone – e i loro discendenti – che non possono essere naturalizzati estoni, né possono richiedere la doppia cittadinanza perché, secondo la costituzione, è illegale averne due. Una situazione simile si riscontra anche in Lettonia dove il termine usato per queste persone, non apolidi ma cittadini di una Federazione che non c’è più, è nepilson (non cittadino) categoria alla quale sono negati anche i diritti politici.

A riguardo la Commissione Europea contro il Razzismo e l’Intolleranza ha esortato l’Estonia a semplificare le procedure per la naturalizzazione dei richiedenti la cittadinanza e di riconoscere ai nati dal 1991 in poi il diritto dello ius soli. La Commissione Europea per i Diritti Umani nel 2007 si è mossa analogamente nei confronti della Lettonia dal momento che i nepilson sono l’11,75% della popolazione (dati del 2016). Alla luce di questi dati non stupisce l’elevato flusso migratorio verso la Federazione Russa che nel 2015 ha caratterizzato i paesi baltici (Estonia in testa, seguita da Lettonia e Lituania).

Vilnius, capitale della Lituania, vista dall’alto

Questo sistema a doppio binario estoni-lettoni/russi spesso sfocia non solo in discriminazioni per i secondi – soprattutto in ambito lavorativo – ma anche in contrasti accesi a livello politico, dove si riscontra la presenza sia di partiti fieramente nazionalisti, sia di partiti a tutela della minoranza russa che vantano percentuali abbastanza significative: il sindaco di Tallin, infatti, è Edgar Savisaar leader del partito della minoranza russa Easti Keskerakond (Partito di Centro Estone), mal visto dagli organi governativi a causa di rapporti personali con Putin e di quelli non ben definiti del suo partito con Russia Unita, partito russo di centro-destra guidato da Dmitrij Medvedev – attuale Primo Ministro – e sostenitore del Presidente in carica.

A gettare ulteriore benzina sul fuoco dell’instabilità politica internazionale c’è stata l’elezione di Trump a Presidente degli USA che – lungi dal rassicurare gli alleati dell’Europa Orientale – aveva inizialmente esordito descrivendo la NATO come un’istituzione obsoleta e poco utile agli Stati Uniti, i quali si sarebbero dovuti ripiegare in uno splendido e autoreferenziale isolamento: propaganda politica d’effetto ma che è stata (già!) rinnegata in seguito all’intervento statunitense in Siria dopo il controverso episodio ad Idlib. All’inizio le dichiarazioni “isolazioniste” del neo-presidente, erano risultate una doccia fredda anche per Stati così a Nord e abituati al gelo ostile dell’Est: ad inizio aprile, però, è parso che la primavera interventista statunitense sia tornata a scaldare quelle latitudini.

Panorama di Tallinn

Donald Trump, comunque, già dall’inizio del suo mandato aveva auspicato che Estonia, Lettonia e Lituania incrementassero le loro partecipazioni alle spese militari della NATO, sostenendo che avrebbero dovuto destinare almeno il 2% del PIL a questo scopo (nel dicembre 2016 solo l’Estonia rientrava in tale requisito con una percentuale del 2,2%, mentre le altre due non superavano l’1,5%). L’ormai obsoleta idea presidenziale del disimpegno in Europa, e particolarmente nel Baltico, era diffusa anche in alcuni ambienti del Partito Repubblicano che ritenevano fosse inutile rischiare uno scontro frontale con la Russia per – come ha detto Newt Gingrich – “un luogo alla periferia di San Pietroburgo”.

I conflitti sociali, inoltre, sin dall’indipendenza dei tre stati si vanno a sommare ai difficili rapporti economici che li legavano alla Russia e che tutt’oggi sono validi. La sovietizzazione degli Stati baltici aveva previsto una pesante industrializzazione sul modello russo che portò alla costruzione di grandi complessi d’industria pesante: dopo l’indipendenza i nuovi governi cercarono di liberarsi di questo retaggio ingombrante sia chiudendo interi poli industriali, sia adottando soluzioni di stampo ultra-liberista che li ha portati ad un’alta finanziarizzazione dell’economia nazionale (accogliendo anche capitali esteri). La svolta liberista, che ha visto schizzare il PIL delle “Tigri Baltiche” a livelli considerevoli, è stata purtroppo anche la causa del tracollo economico causato dallo scoppio della bolla speculativa del 2008: in questa congiuntura economica i Paesi Baltici non hanno saputo far fronte prontamente alla crisi.

Attualmente uno degli ambiti economici che lega la Lettonia, l’Estonia e – soprattutto – la Lituania al temuto gigante russo è quello delle risorse energetiche. Aderendo all’UE, infatti, tutti e tre gli stati hanno dovuto adottare il “Third Energy Package” che prevede – tra le altre cose – la separazione (unbuilding) tra i gestori della produzione (e quindi anche dei gasdotti) e le società delle compagnie di distribuzione nazionali. La Lituania è stata tra i primi a cercare di adottare questi provvedimenti ma – giacché la Gazprom russa è sia gestore del gasdotto sia azionista di una delle compagnie di distribuzione lituane – ne è scaturito un attrito tra Russia e paesi dell’Unione Europea che ancora si stenta a ricomporre, come evidenziano le ultime tensioni tra Polonia, Lettonia e Lituania da una parte e Russia dall’altra riguardo il gasdotto Opal.

Nella regione del Baltico è quindi facilmente rintracciabile un metus hostis fortemente accentuato sia sul piano esterno – dati i precedenti storici e la recente evoluzione internazionale – che sul piano interno – visti i conflitti politici, sociali ed economici in corso. In tutti e tre gli stati da pochi anni a questa parte si assiste all’adozione di svariate ed eterogenee misure di sicurezza che, spesso, sfociano in vero e proprio allarmismo: come nel caso della Lituania che – come riporta Vijai Maheshwari per Politico – avrebbe distribuito pamphlet su come prepararsi alla guerra e a un’invasione lampo, che i servizi lituani stimano realizzabile in 24-48 ore. Sempre in Lituania, secondo l’agenzia di notizie Sputnik, il capo del dipartimento della sicurezza nazionale, Darius Yaunishikis, si sarebbe addirittura scagliato contro il famoso cartone animato Masha e Orso, accusandolo di essere un agente del soft power russo.

Certamente tutti gli stati stanno prendendo misure preventive anche in risposta alle “provocazioni” russe – consistenti in sconfinamenti o in esercitazioni militari non dichiarate – reinserendo, ad esempio, la leva obbligatoria (Lituania) o autorizzando la creazione di veri e propri corpi di volontari per la difesa nazionale (Estonia).

Queste misure collimano perfettamente con la decisione di alzare ai propri confini dei muri: la notizia del 2015 secondo la quale la Lettonia ha cominciato la costruzione di un muro alto 2,7m e sormontato da filo spinato e telecamere di sorveglianza non desta sorpresa. Questo muro – ufficialmente proposto per arginare il flusso di migranti dall’Est – già lungo 23Km dovrebbe raggiungere i 200Km entro il 2019, assorbendo un totale di 17milioni di euro. Già in questi giorni, però, la Lituania sta provvedendo alla “messa in sicurezza” del fiume Nemunas – in famoso fiume guadato da Napoleone il 6 giugno 1812, dando inizio alla Campagna di Russia – per una sorveglianza adeguata del confine e, entro il 2020, si prevede la costruzione di una recinsione ai confini con la Bielorussia, proposta per arginare l’immigrazione clandestina.

Anche la Norvegia si è attrezzata innalzando un muro al confine con la Russia, in questo caso in prospettiva anti-migranti

Anche l’Estonia e la Lituania stanno cercando di dotarsi di muri confinari adatti, se non a impedire, almeno a rallentare un’eventuale invasione del territorio. Da parte loro, i russi dell’Oblast’ di Kaliningrad – l’exclave russa circondata da Lituania e Polonia – hanno ironicamente fatto sapere alla stampa di essere disposti a fornire mattoni per la realizzazione di questa infrastruttura. In linea con questa rinnovata paura russa, in un clima che a molti politologi – con qualche riserva – ricorda la Guerra Fredda, anche la Polonia ha deciso di ricorrere a misure simili a quelle dei suoi vicini baltici, mentre la Svezia ha appena reintrodotto la leva obbligatoria per entrambi i sessi (come già in Norvegia e – solo per gli uomini – in Danimarca e Finlandia).

Attualmente il mondo sta sperimentando su vasta scala una corrente migratoria composta da profughi e rifugiati politici e l’Unione Europa fatica ad accogliere queste anime in fuga, soprattutto in un’Europa che sta alzando barriere che impediscano ogni contatto umano con l’“altro”: in questo mondo egoista ed in movimento, le Repubbliche Baltiche stanno cercando una soluzione alle loro fobie a riparo dell’ombrello della Nato e dei finanziamenti dell’UE. L’idea? Chiudere quella famosa “finestra” sul Baltico, ossia rinforzare i confini con la Russia. Gli ennesimi muri in un mondo che dovrebbe essere fatto di finestre.

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