Un figlio per nemico. La storia del rapporto tra Gaetano Salvemini e Jean Luchaire in un nuovo saggio di Filomena Fantarella

filomena fantarella, gaetano salvemini, jean luchaire, un figlio per nemico. Gli affetti di Gaetano Salvemini alla prova dei fascismi, storia contemporanea, fascismo, nazismo, seconda guerra mondiale, donzelli, roma, 2018

Andrea Castelletto, Venezia –

In Un figlio per nemico. Gli affetti di Gaetano Salvemini alla prova dei fascismi (Roma, Donzelli, 2018), Filomena Fantarella – assegnista di ricerca in Studi italianistici presso la Brown University di Providence, Rhode Island – punta i riflettori su una specifica vicenda della biografia di Gaetano Salvemini, il noto storico e intellettuale antifascista.

Si tratta del suo rapporto con Jean Luchaire, figlio della seconda moglie di Salvemini, Fernande Dauriac, e del primo marito di lei, Julien (Salvemini perse la prima moglie, la sorella e tutti i suoi cinque figli nel terremoto di Messina del 28 dicembre 1908).

Legati da un forte legame affettivo (Jean considerava Salvemini come un padre), i due verranno divisi dalle scelte politiche fatte dal figlio durante la seconda guerra mondiale. Mediocre giornalista dalla carriera poco promettente, questi scoprì nel nazifascismo un mezzo per raggiungere il successo.

 

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Da sempre su posizioni filotedesche (più per spirito di fratellanza universale che per un particolare attaccamento agli abitanti d’oltrereno), Jean accolse con entusiasmo l’occupazione nazista di Parigi: entrato nelle grazie di Otto Abetz, ambasciatore del Terzo Reich a Vichy, divenne negli anni dell’occupazione uno dei massimi esponenti del collaborazionismo francese, meritandosi a pieno titolo il soprannome di “Führer della stampa collaborazionista” affibbiatogli dai suoi connazionali.

Jean Luchaire rimase fedele ai nazisti fino alla loro capitolazione, tanto da seguirli in Germania dopo il ritiro dalla Francia e da lì incitare attraverso la radio alla lotta antipartigiana. Arrestato dagli Alleati a Merano il 22 maggio 1945, estradato in Francia e sottoposto a processo, venne condannato a morte e fucilato per alto tradimento il 22 febbraio 1946.

Salvemini, nonostante il sincero affetto paterno nei suoi confronti, non avrebbe accettato – come gli aveva chiesto di fare la figlia Ghita – di intercedere con gli Alleati per richiedere che venisse graziato. Leggiamo alcuni passi di una lettera inviata a Fernande dopo la morte del figlio che mostrano bene il pensiero di Salvemini:

 

“Questo Jean non doveva farlo [collaborare con i tedeschi]. A costo di farsi mandare in un campo di concentramento, a costo di vedersi distrutta l’intera sua famiglia, non doveva farlo, non doveva farlo, non doveva farlo. Non doveva parlare alla radio. Doveva chiudersi in un silenzio ostinato, incrollabile. […] La condanna era da prevedere. Ma se tu cerchi di astrarre dal tuo amore materno, dovrai riconoscere che la condanna era da prevedere, così come è da prevedere la caduta della pietra non appena abbandonata la mano. Data la causa, è inevitabile l’effetto. […] Io ho continuato a pensare e ripensare in questi mesi a quel povero ragazzo. Ma non sono mai riuscito a trovare argomenti per non convincermi che la sua condotta in Germania fu assolutamente assurda e che sarebbe stato suo dovere allora ribellarsi con la massima violenza possibile contro una politica che non aveva più nessuna giustificazione”.

 

L’ultimo atto della vita di Jean segnò anche l’epilogo della famiglia di Salvemini. Dopo la fine della seconda guerra mondiale, infatti, essa si sfaldò completamente: il figlio Jean era morto, la figlia Ghita si trasferì in Costa Rica, la moglie Fernande rimase a vivere a Parigi e Salvemini in America. Tra lui e sua moglie la frattura fu insanabile: quest’ultima non accettò mai che il figlio meritasse la fucilazione e la distanza di opinioni con il marito su un tema tanto delicato impedì ai due di ritrovarsi.

Ma perché Jean Luchaire, da convinto pacifista e antifascista divenne uno spregiudicato collaborazionista? Che cosa lo spinse a passare dall’altro lato della barricata?

 

 

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Da quel che si può ricavare dagli scambi epistolari fra Salvemini e i suoi familiari ed amici rimasti in Europa, il comportamento di Jean – afferma Fantarella – non sarebbe stato dettato da una reale adesione ideologica al nazismo. Lo stesso Salvemini affermò chiaramente ai suoi amici, che gli chiedevano spiegazioni sulla condotta del figlio, che questi tutto era fuorché un fascista.

Si può ritenere che il suo filo-germanesimo si sia diviso in due momenti storicamente distinti: fino al 1940 egli credeva sinceramente che, a dispetto dell’aggressività del regime hitleriano, un riavvicinamento fra i due paesi fosse, in nome di una pace e di una fratellanza universale, ancora possibile; dopo l’occupazione, invece, a muoverlo verso il collaborazionismo sarebbe stata la possibilità di sbarcare il lunario con il giornalismo. Insomma, sarebbe stato guidato da mero opportunismo personale.

A corroborare la tesi di Filomena Fantarella figurano le motivazioni della giuria che lo condannò a morte, la quale a riguardo parlò molto chiaramente:

 

“le [sue] azioni non erano nemmeno ispirate dal fascismo, ma solo dalla corruzione e dal marciume e non aveva avuto altra motivazione che il denaro”.

 

Filomena Fantarella sceglie con questo libro – che, si badi, non è una nuova biografia di Salvemini – di approfondire una vicenda dalla sua vita spesso ignorata o dimenticata. Per ricostruire questi fatti, la studiosa mette in secondo piano i lavori storici di Salvemini o gli studi critici sulla sua storiografia per concentrarsi invece su fonti molto più personali, come le lettere scambiate con la moglie, i figli e gli amici.

 

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Si tratta in molti casi di materiale inedito, conservato in diversi fondi archivistici europei e americani, come Harvard, Parigi, Firenze, Lugano, Roma. Unendo i documenti usati da Fantarella con i più classici studi accademici (si vedano almeno:  C. Killinger, Gaetano Salvemini. A biography, Praeger, Westport, 2002; M. Salvadori, Gaetano Salvemini, Einaudi, Torino, 1963; G. Quagliariello, Gaetano Salvemini, Il Mulino, Bologna, 2007), otteniamo un ritratto più completo del grande intellettuale: non solo quello di un freddo accademico e intransigente antifascista, ma anche di una persona che vive le difficoltà quotidiane comuni a molte famiglie messe alla prova da catastrofi naturali o da sciagure politiche.

Nonostante la forza del loro legame, dalla metà degli anni Trenta Salvemini e Jean seguirono due strade diametralmente opposte: mentre il primo si prodigava a mettere in guardia il mondo dall’espansione dei fascismi sotto cui giaceva l’Europa, contemporaneamente il figlio impegnava tutte le sue energie per spronare, dalle colonne del suo giornale («Notre Temps», che diverrà dal 1940 «Les Nouveaux Temps») i francesi ad allearsi con la Germania hitleriana.

Il 1933 costituì infatti una frattura insanabile nel rapporto fra Salvemini e il figlio: se infatti, fino ad allora, Jean era stato “un convinto pacifista e un antifascista”, a partire dall’ascesa al potere di Hitler si avvicinò sempre più alle posizioni nazifasciste. Nel 1934 il giovane giornalista tenne una conferenza all’Università di Berlino sul tema delle “relazioni franco-tedesche e le sue ripercussioni sull’opinione pubblica francese”. Informato da Carlo Rosselli “che Jean prendeva soldi dai fascisti”, Salvemini (che si trovava in America) troncò immediatamente ogni rapporto con lui:

 

“Non posso fare che una sola cosa, evitare di incontrarmi personalmente con lui, da ora in poi, tanto da poter dire che ho rotto ogni rapporto personale, il giorno in cui Mussolini pubblicherà che il figliastro di Salvemini ha preso denaro da lui”.

 

Con il trascorrere degli anni e le manifestazioni sempre più inequivocabili del carattere totalitario di fascismo e nazismo, le simpatie di Jean per questi ultimi aumentarono, come emerge da queste righe pubblicate su «Nostre Temps» il 31 maggio 1936:

 

“C’è qualcosa in Italia e in Germania che mi ha colpito e che mi impedisce di esprimere una completa condanna di questi regimi: ed è che questi regimi totalitari sono riusciti a salvare i giovani dalla palude morale in cui si trovavano. […] [Mussolini e Hitler] gli hanno dato qualcosa di cui essere entusiasti, una causa a cui essere devoti, un ideale per cui sono pronti a soffrire. […] Quello che importa è che essi credono e che le loro vite mediocri sembrano avere un fine più alto”.

 

Ecco che Jean fece suo e diffuse a gran voce il mito della giovinezza, uno dei più potenti argomenti propagandistici utilizzati dai fascismi. Quale segno maggiore del distacco radicale avvenuto con il padre, grazie al quale aveva condiviso gli anni giovanili (che evidentemente a quel punto rigettava) circondato dalla più solida intellighenzia antifascista?

 

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Fantarella ci consegna un Salvemini sempre più amareggiato e lontano dal figlio, che dal canto suo coronava la sua triste carriera con lo smodato successo ottenuto sotto l’occupazione. Nel 1941, in una lettera all’amica Isabella Massey, lo storico descrisse le tappe che segnarono la degenerazione del rapporto con il figlio:

 

“Jean Luchaire è un uomo perduto, il pacifismo lo ha distrutto. […] Ha iniziato a degenerare nel 1933 quando Hitler è salito al potere. Il pacifismo è diventato in lui codardia politica. E da allora, nulla lo ha fermato sulla strada del disonore. Quando fui a Parigi l’ultima volta, nel 1938, non l’ho incontrato nemmeno una volta. […] Non c’era più alcun terreno comune tra lui e me”.

 

Un figlio per nemico ricostruisce il ritratto di un uomo che pretendeva sempre molto da se stesso e dagli altri, incapace di accettare alcun cedimento politico. Un uomo le cui sofferenze personali non riuscirono mai ad offuscare il suo senso del dovere, tanto nel suo mestiere di storico – che anzi descrisse come un porto sicuro in cui rifugiarsi per sfuggire alle sofferenze private – quanto nelle sue battaglie politiche.

L’intransigenza di Salvemini non mutava in base alla persona cui si stava rivolgendo: si trattasse dell’amico Giuseppe Prezzolini – a cui tolse il saluto nel 1925 per il suo atteggiamento accomodante verso i fascisti – o del figlio Jean.

 

F. Fantarella,
Un figlio per nemico. Gli affetti di Gaetano Salvemini alla prova dei fascismi
Roma, Donzelli, 2018
pp. 175