La santa Trinità: Libro. Film. Serie tv. Quando il crimine tiene incollato il pubblico alla narrazione

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Enrico Ruffino, Venezia –

Lo schema è, più o meno, sempre lo stesso. Si inizia con un romanzo, si continua con un film e si approda, infine, ad una serie tv. Le vendite sono enormi, i botteghini sbancano e le reti trasmettono: quante volte nel corso degli ultimi dieci anni abbiamo visto questa trasformazione? Quante volte ci siamo incollati alla carta, poi al grande schermo ed infine alla tv (o al computer)?

 

Tutta una questione di narrazione

In principio fu Romanzo Criminale: uscito dalla penna dell’allora giudice di cassazione Massimo De Cataldo, per Einaudi, è una storia che – secondo l’ex giudice – andava narrata. Quella della Banda della Magliana. Eppure anni prima – prima del grande successo Einaudi, del film di Michele Placido e della serie diretta da Stefano Sollima – la storia della holding criminale più famosa d’Italia era stata indagata in lungo ed in largo da alcuni giornalisti rampanti: Gianni Flamini, ad esempio, che aveva dedicato un’inchiesta intera – La Banda della Magliana. Storia di una holding criminale (Kaos Edizioni, 1994) – alle vicende del “Fornaretto”, di “Renatino” del “Crispino”.

Quelli veri, in carne ed ossa, con i loro nomi e i loro soprannomi, che tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 avevano messo in piedi un “surrogato” delle mafie: un’agenzia del crimine su scala Capitale, come referenti, unici e indiscutibili, delle mafie e il carrozzone di relazioni che si portavano dietro. Un libro prezioso, un’inchiesta – precisa e documentata – sui fatti: ma il Fornaretto e Crispino facevano meno gola del Libanese e del Freddo? Ebbene si. È tutta una questione di narrazione. Cambiano i nomi, qualche volta anche i luoghi, ma restano le storie. E sono quelle che ingolosiscono il pubblico.

Kim Rossi Stuart, Claudio Santamaria e Pierangelo Favino (che interpretano rispettivamente Freddo, Dandi e Libanese) nel film Romanzo Criminale (2005), diretto da Michele Placido.


Il fascino del crimine

Il successo di pubblico lo dimostra. Narrare le vicende criminali, specialmente quelle ruotanti attorno ai complicati anni ’70, riscuote un successo enorme: le storie del Dandi, del Libanese, del Freddo e di Scrocchia; ma nel corso degli anni abbiamo visto pullulare le librerie, il grande e il piccolo schermo di personaggi affascinanti, di criminali con la C maiuscola, che operano nei loro ambienti, nelle città: Roma, Milano e persino Venezia, che – essendo una laguna – ha uno sfondo, che è quello della provincia.

E allora abbiamo visto Faccia D’Angelo – alias Felice Maniero – vagare per le campagne, fare i conti coi venessian, ammazzarli e sotterrarli per affermare la propria inarrestabile ascesa sociale. Poi siamo passati a guardare verso ovest, nella fauna milanese, in cui, tra le scorribande dei terroristi, si trovava anche il tempo di essere criminale tout court come il “bel” Vallanzasca, giustamente interpretato da chi già aveva interpretato il Freddo: ovvero Kim Rossi Stuart. Senza contare che c’è il crimine, ci sono le holding e le bande, ma c’è anche la mafia, quella vera: quella di un’altra narrazione – ancora una volta prima bibliografica, poi televisiva – tesa ad affermare l’ascesa dei viddani – gente che non aveva nulla – e all’improvviso si è trovata, dopo un’assurda carneficina, a dominare il panorama mafioso siciliano, che è – come ben sappiamo – anche il panorama nazionale. E allora tutte queste storie s’incontrano in un’unica storia, quella d’Italia, un po’ troppo complessa per essere narrata con leggerezza.

Kim Rossi Stuart interpreta Renato Vallanzasca nel film Vallanzasca: Gli angeli del male (2010) diretto sempre da Michele Placido.

Eroi in negativo

Insomma, dalle fiction sul crimine italiano si può espungere un semplice dato, che è, allo stesso tempo, rivelatore di tendenze e narrazioni. Il loro leit motiv si basa sull’ascesa: personaggi che, in un modo o nell’altro, provengono dal basso e puntano verso l’alto. Ci riescono, a volte cadono, poi si rialzano. E alla fine…finiscono all’ergastolo. Sono parabole ascendenti e allo stesso tempo discendenti che affascinano non tanto per la discesa quanto piuttosto per l’ascesa. Nella Capitale il “se pijamo Roma” è diventato un topos; in Veneto qualcuno è pronto a ribadirti quanto fosse cool la scena in cui Felice Maniero ammazza i fratelli Rizzi e i sorrisi beffardi di Vallanzasca, si sa, attirano sempre.

Il riscatto sociale, la sfrontatezza, il potere: ciò che attirano delle parabole criminale è il sempiterno fascino dei belli e dannati, delle vite avventurose e delle ambizioni senza limiti. Ma si tratta pur sempre di criminali, di eroi in negativo che, a partire dall’inizio del nuovo millennio, sono stati ripresi dalle penne di molti scrittori per poi approdare nei copioni redatti dagli sceneggiatori.

Elio Germano interpreta Felice Maniero nella mini-serie tv Faccia d’angelo (2012), diretta da Andrea Porporati e dedicata alle vicende della cosiddetta ‘mala del Brenta’

Non fiction novel

Questa nuova tendenza è stata poi affiancata dalle narrazioni di denuncia. Le hanno chiamate, con un termine un po’ approssimativo, non fiction novel: ovvero narrazioni che riguardano la realtà contemporanea e vedono l’io dello scrittore coinvolto nelle vicende che narra. Inutile citare il caso per eccellenza, ovvero Gomorra, che, nel solito schema trinitario libro-film-serietv, ha sfondato ogni incasso.

Ma anche quello di De Cataldo, affiancato da un giornalista di razza come Giancarlo Bonini: ne è nato un romanzo, Suburra, che è stato allo stesso tempo una fiction e un tentativo di narrare la realtà. Bonini, infatti, ha co-scritto il romanzo basandosi sulle sue fonti da giornalista, che – caso interessante – hanno predetto quello che poi effettivamente, un anno dopo, sarebbe emerso dall’inchiesta su Mafia Capitale. Una narrazione, dunque, che parla della realtà, vuole far emergere una verità, ma si infrange sulle logiche del mercato: dalla denuncia più generale della “Suburra” romana si è passati – con i film e la serie tv – ad una narrazione sfrontata e totalmente inventata del potere in cui si rischia di mitizzare certi personaggi.

Certo, personaggi come Vallanzasca, Totò Riina, Felice Maniero, Massimo Carminati e il Libanese – personaggi tutti, in un modo o nell’altro, collegati tra loro – ma anche il politico onesto che decide di passare alla corruzione del sistema non vedendo altre vie d’uscita. O la funzionaria del Vaticano, perfida e macchinatrice, che cavalca il sistema.

Personaggi che rischiano l’emulazione ma che nella realtà esistono veramente, che non vengono inventati solo da una penna ma da un’osservazione reale: è un modo di conoscere certe vicende, di approcciarsi al potere – come ci diceva Paolo Roversi qualche domenica fa –  ma è anche, in alcuni casi, pericoloso: è possibile che in questo paese non esista una speranza? Che vi siano solo narrazioni tese ad affermare che il sistema è impossibile da sfidare, che non esistano vie d’uscita? La narrazione – volendo fare un discorso foucaultiano – si impone come realtà. Siccome noi non siamo foucaultiani diciamo un’altra cosa: una buona narrazione restituisce il fatto alla realtà. E rischiara la memoria laddove appare contorto. Un monito per gli storici che narrando bene potrebbero narrare cose giuste senza il rischio di mitizzare.

Il libro di Carlo Bonini e Massimo De Cataldo, Suburra (Einaudi, 2013) è stato trasportato su pellicola in ben due versioni. Prima in un film, uscito nel 2015, diretto da Stefano Sollima; in seguito, negli ultimi mesi, è stata mandata in onda anche la serie televisiva, distribuita da Netflix, che vede ancora la partecipazione di Michele Placido alla regia.

Narrare per chi?

Non appare quindi sorprendente che uno degli scrittori crime più in voga del momento, Maurizio De Giovanni, abbia recentemente affermato, nelle pagine de La Lettura, che “l’intrattenimento è necessario, altrimenti scriveremmo saggi”. E infatti, a differenza di molti saggisti, i “loro” libri vendono. E vendono bene. Gli argomenti sono gli stessi che molti di noi, giovani storici, abbiamo affrontato nei nostri lavori: ma come dimostrano i casi Gomorra, Suburra e Romanzo Criminale il pubblico apprezza le narrazioni romanzate piuttosto che quelle “reali”, saggistiche e – diciamolo pure – noiose. Solo che la nozione di “pubblico” è una nozione complessa: narrare per chi e che cosa diventa fondamentale.

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