Il Sacro Macello in Valtellina (1620)

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Lorenzo Bonomelli – Bologna

Il 19 luglio ricorre un importantissimo anniversario per la storia italiana ed europea: esattamente quattrocento anni fa, infatti, iniziava il più sanguinoso eccidio religioso che abbia mai avuto luogo nella penisola – quello che, un paio di secoli dopo, lo storico e scrittore lombardo Cesare Cantù avrebbe denominato “Sacro Macello”. Nel giro di cinque giorni, tra il 19 e il 23 luglio 1620, degli uomini armati al seguito di alcuni nobili cattolici batterono la Valtellina e la contigua Val Chiavenna (attuale provincia di Sondrio), che allora erano le uniche zone a sud delle Alpi dove si trovassero delle cospicue comunità di protestanti. Queste bande armate aizzarono le popolazioni contro i riformati e si macchiarono di terribili crimini: i primi bilanci contarono oltre quattrocentocinquanta morti, ma oggi gli storici sono concordi su stime ancor più elevate, oscillanti tra le sei e le settecento vittime.

Si tentò immediatamente di insabbiare l’episodio, sicché ancora ai giorni nostri queste vicende sono praticamente dimenticate e faticano a entrare nel patrimonio della memoria collettiva, come purtroppo tanti di quegli avvenimenti che testimoniano della pluralità e diversità religiosa che irradia la nostra storia. Questo anniversario è quindi l’occasione per recuperare il ricordo di un triste momento del passato, mostrando anche l’impatto devastante che trame politiche internazionali possono avere su delle comunità apparentemente isolate ed estranee ai grandi intrecci della storia. E si tratta oltretutto di qualcosa che, come vedremo, ha molto da dirci anche sul nostro mondo attuale.

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Una terra d’asilo per i protestanti italiani

Questa storia inizia non lontano dalla Valtellina, qualche decina di chilometri più a nord, nella parte orientale dell’attuale Svizzera. La regione che oggi corrisponde al Cantone dei Grigioni, infatti, durante l’età moderna era costellata di città, borghi e villaggi pressoché completamente autonomi, simili a delle città stato o a dei comuni medievali, che si associavano in leghe per assicurarsi un mutuo soccorso in caso di guerre e per coordinare le loro azioni in politica estera. Nel 1471 con il patto di Varzerol tre di queste leghe (la Lega Caddea, la Lega delle Dieci Giurisdizioni e la Lega Grigia, da cui prende il nome il cantone attuale) si riunirono nella Repubblica delle Tre Leghe, un’entità politica che nasceva con lo scopo di contrastare le mire territoriali dell’Impero d’Austria e che, nelle questioni interne, lasciava larghissima libertà ai tre componenti. Nel 1512 le Tre Leghe conquistarono la Valtellina e la Val Chiavenna, cacciandone i francesi che in quel momento occupavano il Ducato di Milano. Nel rispetto delle usanze svizzere, le valli furono associate alla Repubblica come territori sudditi, ai quali era garantita una vasta autonomia in molti ambiti.

Soltanto cinque anni più tardi, nel 1517, in Germania Martin Lutero affiggeva le sue Novantacinque tesi sulla porta della chiesa di Wittenberg, dando inizio alla Riforma che si diffuse rapidamente in vaste zone d’Europa. Nelle Tre Leghe una parte preponderante della popolazione aderì al protestantesimo, soprattutto nelle varianti predicate da Calvino e Zwingli, ma la Valtellina e la Val Chiavenna rimasero interamente fedeli alla Chiesa di Roma. Comunque, le autorità garantirono la totale libertà religiosa in tutti i territori, dai quali l’inquisizione venne bandita.

In questo modo la Valtellina divenne una terra di rifugio per moltissimi protestanti provenienti da tutto il resto d’Italia, che, fuggendo dalle persecuzioni, potevano insediarsi in queste contrade di lingua italiana per condurvi pacificamente la loro esistenza. Tra di loro si trovavano alcuni importanti teologi che in quelle valli si guadagnarono da vivere soprattutto come precettori dei rampolli dei funzionari svizzeri e che incominciarono a predicare e a fare apostolato, dando vita alle prime comunità di riformati. Così i protestanti crebbero numericamente nel corso del secolo, pur rimanendo decisamente minoritari (tra il 5 e il 10% degli abitanti), anche se in alcuni borghi, come a Chiavenna, rappresentavano un terzo della popolazione totale. Il governo delle Tre Leghe a quel punto cercò di sostenere la pacifica convivenza tra le due comunità con provvedimenti che miravano a garantire la libertà di culto per entrambe le confessioni: nei villaggi con due chiese, ad esempio, la più piccola veniva convertita in tempio protestante e ai pastori erano attribuite alcune rendite, prima appannaggio esclusivo dei cattolici. Tutto ciò, ovviamente, indispettì i “papisti”, rimasti fedeli a Roma, ma nel complesso dominava la tolleranza sia tra la popolazione (spesso all’interno delle stesse famiglie si trovavano dei rami aderenti a fedi diverse) sia tra i sacerdoti, che si confrontavano in frequenti dispute pubbliche intrattenendo rapporti cordiali.

Alcuni gravi episodi intervennero a turbare questa concordia, come quando, nel 1569, papa Pio V (ex-inquisitore proprio in Valtellina) ordinò ad alcuni domenicani di rapire il pastore di Morbegno, Francesco Cellario, e di condurlo a Roma, dove fu processato per eresia e bruciato sul rogo. La chiesa cattolica considerava la Valtellina come l’ultimo baluardo della vera fede, una trincea dinanzi al dilagare del protestantesimo in Italia: in tal senso assunse un importante ruolo simbolico il santuario di Tirano (vedi immagine sotto), sorto a inizio Cinquecento nel luogo di un’apparizione mariana, e le vallate alpine divennero oggetto di attenzioni particolari da parte di alcuni campioni della Controriforma – a partire dagli arcivescovi di Milano Carlo e Federico Borromeo. Nel complesso, quindi, furono soprattutto delle forze esterne a mettere in crisi la fragile convivenza interconfessionale nella Valtellina, come emerse con ancor più evidenza man mano che quelle terre assunsero rilevanza geopolitica per il controllo del continente da parte delle grandi potenze.

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Una piccola valle lombarda al centro di una guerra europea

La Valtellina è un collegamento naturale tra la Lombardia e l’Austria, due territori che, nel Seicento, erano controllati rispettivamente dagli Asburgo di Spagna e d’Austria. Il ramo spagnolo della famiglia, in particolare, aveva mire ben precise sulla vallata: essa, infatti, non solo avrebbe garantito un passaggio verso i possedimenti dei “cugini” d’Austria, ma soprattutto rientrava nella cosiddetta “strada spagnola”, un itinerario che, attraverso i passi alpini e la Germania centro-occidentale, connetteva la Lombardia ai Paesi Bassi, altra regione controllata dalla corona di Madrid. Con l’inizio della Guerra dei Trent’Anni nel 1618, che vedeva scontrarsi i principati protestanti dell’Europa centro-orientale con i cattolici Asburgo, quel collegamento divenne sempre più necessario per gli spostamenti degli eserciti. La diplomazia spagnola si mise al lavoro per cercare di scardinare la neutralità della Repubblica delle Tre Leghe, facendo leva in particolare sul contrasto religioso per convincere i cattolici a schierarsi in proprio favore, ma anche corrompendo funzionari protestanti per ottenere una maggioranza favorevole nell’assemblea del piccolo stato alpino.

La situazione si fece insostenibile: in un clima di sospetto generalizzato vennero istituiti dei tribunali popolari, previsti dalle leggi della Repubblica per momenti di crisi straordinarie. In un’ottica di democrazia diretta (che, sebbene più moderata, esiste ancor’oggi in alcune istituzioni svizzere), tutti i cittadini erano invitati a partecipare a questi processi per giudicare crimini particolarmente esecrandi quali la corruzione e il tradimento. A farne le spese fu l’arciprete di Sondrio Nicolò Rusca, il più importante prelato cattolico della Valtellina. Rusca era uno strenuo difensore dell’ortodossia e già nel 1594 era finito alla sbarra e poi prosciolto per aver tramato il rapimento del suo omologo protestante, il pastore di Sondrio; nei primi anni del Seicento, di nuovo, si era scontrato con le autorità politiche, opponendosi all’apertura di una scuola riformata. Nel 1618, quindi, il tribunale popolare di Thusis, nella Lega Grigia, emise contro di lui l’accusa di essere segretamente in contatto con gli spagnoli per favorire il loro ingresso nella valle e porre fine all’indipendenza delle Tre Leghe: l’arciprete fu condotto nella cittadina grigionese per essere processato. Per evitare disordini si dovettero sequestrare tutte le armi della Valtellina, dove i cattolici protestavano contro un arresto che, a loro dire (e non del tutto a torto), non si era svolto secondo la legge, ma poteva essere piuttosto considerato un rapimento. Intanto, a Thusis, Rusca veniva interrogato e, nonostante gli stessi giurati temessero per la sua incolumità (aveva ormai cinquantacinque anni, un’età avanzata per il tempo), fu sottoposto alla tortura della corda. Non sopportando il dolore, Rusca morì processando la sua innocenza: sarà anche in suo nome che, due anni dopo, si scatenerà il “Sacro Macello”.

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Il “Sacro Macello” e la cancellazione di una comunità

In un crescendo di tensioni, quindi, alcuni nobili cattolici organizzarono un’armata di servitori con l’intento di prendere il controllo della valle uccidendo tutti i protestanti, in una commistione di odio religioso e trame politiche. La violenza esplose nel borgo di Tirano, dove essi fecero irruzione nella notte tra il 18 e il 19 luglio 1620, strappando i protestanti dai letti e uccidendoli senza pietà. Il pastore del villaggio, Antonio Basso, fu decapitato e la sua testa, posta sull’altare della chiesa, venne schernita dalla soldataglia che lo insultava gridandogli: “Cala basso, Basso, che ci hai predicato assai!”. Terminata la strage, la banda scese verso Teglio, dove, alle prime luci dell’alba, i protestanti erano riuniti al tempio per il culto: sfondate le porte, venne appiccato il fuoco al campanile, dove morirono tra le fiamme alcune decine di persone che vi si erano rifugiate. La chiesa fu teatro di alcune scene particolarmente raccapriccianti, come quando la giovane Margherita Guicciardi, quattordicenne, gettatasi verso il cadavere del padre Gaudenzo, appena ucciso, venne a sua volta colpita da un’archibugiata proprio mentre baciava per l’ultima volta la fronte dell’anziano genitore.

Dopo Teglio, fu Sondrio a essere toccata dalla violenza cieca. Al grido di “Ecco la vendetta del santo arciprete!”, la soldataglia uccise, nel solo capoluogo, circa duecento persone, mentre un centinaio di protestanti riuscirono ad aprirsi una via di fuga e si misero in salvo nella vicina Svizzera.

Alcuni si nascosero nelle grotte, caverne e deserti, dai quali solo di notte tutti impauriti e mezzo morti uscivano; alcuni per il mancamento di vettovaglia, altri perché solo mangiavano radici, fogli e gramigna spiravano affatto. E molti furono gli uccisi in diversi luoghi, i quali non hanno avuto sepoltura, sicché molti sono i cadaveri per selve, boschi, monti e fiumi.

Sono agghiaccianti queste parole di Vincenzo Paravicino, un sopravvissuto che scrisse le sue memorie qualche mese più tardi, una volta rifugiatosi a Zurigo. Ed era sicuramente un suo parente quell’Andrea Paravicino che, qualche giorno dopo, mentre le stragi continuavano nei paesi di Berbenno, Caspano, Traona e Brusio, fu legato tra due cataste di legna e, rifiutatosi di rinnegare la sua fede protestante, venne arso vivo.

Le uccisioni proseguirono fino al 23 luglio sino a giungere allo spaventoso bilancio finale di almeno seicento morti, mentre altri, anche dai borghi non direttamente toccati dalle violenze (come Chiavenna), scelsero le vie dell’esilio, per lo più in Svizzera (circa duecentocinquanta valtellinesi si insediarono a Zurigo) ma anche in Olanda e Germania. Siamo di fronte a un’inaudita esplosione di barbarie che attraversa e spacca comunità e famiglie: abbiamo citato gli esempi di vittime appartenenti alle famiglie dei Guicciardi e dei Paravicini, ma si deve aggiungere che le fonti nominano delle persone con quello stesso cognome tra i capi delle squadre armate antiprotestanti.

Le conseguenze politiche sullo scacchiere europeo furono ingenti. In quello stesso anno gli spagnoli entrarono in Valtellina, cacciandone il governo della Repubblica delle Tre Leghe, ormai incapace di mantenerne il controllo. Questo suscitò i malumori di Venezia, che controllava le contigue valli Brembana e Camonica e vedeva in questa dominazione asburgica sulla Valtellina un ostacolo ai suoi commerci con l’Europa continentale. Ma fu soprattutto la Francia a trovarsi in una situazione complessa: con il completamento della “strada spagnola”, Parigi era circondata dagli Asburgo, a oriente e a occidente. Fu questa una delle ragioni che spinsero il Cardinale Richelieu, primo ministro francese, a schierarsi a fianco delle potenze protestanti, creando così le condizioni perché quel conflitto divenisse uno dei più lunghi e sanguinosi della storia umana (durerà fino al 1648, con ulteriori strascichi per tutto il decennio successivo).

La situazione della Valtellina fu definita nel Capitolato di Milano, un trattato del 1639. Gli spagnoli riconsegnarono la valle alle Tre Leghe, ma in essa era ammesso soltanto il culto cattolico romano (condizione esplicitamente imposta da papa Urbano VIII, che non voleva alcun protestante a sud delle Alpi). I riformati che ancora erano presenti dovettero quindi seguire quelli che, due decenni prima, erano partiti per l’esilio; pochissimi rimasero e continuarono a praticare la loro fede in clandestinità. La libertà di religione tornò solo nel 1797 con la conquista napoleonica, ma a quel punto anche le ultime famiglie protestanti si trovarono in molti casi a dover abbandonare la Valtellina, colpite dagli espropri effettuati dal governo francese come risarcimento per le spese di guerra. Nel 1860, quando il Risorgimento portò alla definitiva libertà di religione, in quelle valli non rimaneva nessun riformato. Una comunità era stata cancellata.

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Quale memoria per una strage?

Si trattò di fatto anche di una cancellazione della memoria. Il papato voleva evitare dissidi tra gli stati cattolici, quindi, per non riaprire dispute tra gli Asburgo, la Francia e Venezia, si cercò di insabbiare il ricordo di quello che i protestanti chiamavano “massacro di Valtellina”: anche per questo venne frenato il processo di canonizzazione dell’arciprete Rusca, che è stato elevato agli altari soltanto nel 2013. A tal proposito, lo storico Miguel Gotor ha ricostruito le vicende della sua causa di beatificazione, mettendo in luce la trasformazione che questa ha subito: presentato dopo la sua morte come un campione della vera fede in lotta contro l’eresia della Riforma, di recente ne sono stati invece messi in risalto soprattutto i tratti più ecumenici, la sua apertura al dialogo con l’altro. Si tratta evidentemente di una trasformazione della memoria, in linea con una sensibilità che nel tempo si è modificata e dei nuovi insegnamenti che la Chiesa vuole impartire ai fedeli. Significativamente al momento della beatificazione dell’arciprete, in segno di riconciliazione, era presente in chiesa anche una delegazione in rappresentanza della comunità protestante che negli ultimi decenni si è ricostituita nella zona, così come in tante città italiane.

Queste trasformazioni della memoria hanno riguardato direttamente anche il “Sacro Macello”, che dalle fonti cattoliche spesso veniva presentato con il nome di “rivolta di Valtellina” – termine usato, tra l’altro, anche in alcuni libri del periodo del Risorgimento e del Fascismo, quando si cercava di presentare quell’avvenimento come un’azione di resistenza e di ribellione da parte degli italiani contro una dominazione straniera. Questa lettura, in realtà, venne completamente screditata già nell’Ottocento, quando Cantù sottolineò che tra le centinaia di morti poche decine erano svizzeri, mentre tutti gli altri erano italiani, principalmente rifugiati arrivati dalle altre regioni della penisola (ma fra i protestanti vi erano anche dei valtellinesi da più generazioni).

Nell’Italia di oggi recuperare la memoria di queste vicende è più importante che mai. Da alcuni decenni ormai stiamo assistendo al ritorno di una notevole pluralità religiosa, sia per l’immigrazione di persone da varie regioni del mondo, portatrici di fedi diverse, sia per la presenza e la crescita di alcuni gruppi minoritari che hanno resistito alle avversità della storia, come gli ebrei e gli stessi protestanti. A questo, purtroppo, si associa anche una sempre maggiore intolleranza che emerge ogni volta che si prospetti la costruzione di un luogo di culto non cattolico; oppure, per citare solo l’ultimo caso, quando si è manifestata con tutta la sua violenza nelle vicende di una giovane volontaria italiana, che, dopo anni di sequestro in Africa da parte di gruppi terroristici, è stata coperta di insulti da molti connazionali per la sua scelta di convertirsi all’Islam. La storia ci insegna che la diversità e la molteplicità delle religioni sono una parte integrante del nostro passato e della nostra identità: a partire da questa consapevolezza sta a noi impegnarci per costruire un futuro di tolleranza e guardare a questa pluralità come a una ricchezza.

 

Letture consigliate:

V. Paravicino, Vera narrazione del massacro di Valtellina, cronaca scritta nel 1621 da un sopravvissuto all’eccidio, disponibile sul sito del Centro culturale Evangelico di Sondrio

C. Cantù, Il Sacro Macello di Valtellina, opera del 1853 disponibile online

Videoconferenza su Facebook organizzata dal Centro Culturale Protestante di Bergamo con lo storico e pastore valdese E. Fiume

Uno studio dello storico M. Gotor sull’arciprete di Sondrio Nicolò Rusca