Dalle colonie ai migranti: il razzismo con cui abbiamo a che fare

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Il nostro Paese non ha mai fatto i conti con l’esperienza coloniale. Eppure, quello “spazio linguistico” continua a fare parte del nostro immaginario producendo paradossali identificazioni e ribaltamenti dei termini nel discorso pubblico.

Enrico Ruffino, Venezia –

Nel nostro Paese, forse più che in altri, c’è un serio problema con il proprio passato più o meno recente. C’è una questione che, però, in questi mesi si sta vedendo in maniera forse più dirompente che in precedenza e il cui silenzio la dice lunga sulla cognizione che il Bel Paese ha di sé nel proprio ieri.

Il problema, sottaciuto e spesso ignorato, è semplice: non tanto il fascismo in sé quanto piuttosto il fascismo in res, all’opera nella sua storia, all’opera nel suo presente. Il fascismo che fa dell’Italia un “impero”. Il fascismo figlio del suo tempo. Ma cosa interessa a noi dell’imperialismo fascista oggi? Cosa interessa di un sogno “imperiale” figlio della sua epoca e totalmente lontano dalla nostra? Di un colonialismo i cui tratti endemici sono anni luce lontani da noi? Perché sarebbe un problema non interessarsene?

 

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Lo è perché – appunto – non vogliamo interessarcene. Il silenzio che in tutti questi anni è stato riversato sul nostro passato coloniale (solo recentemente la storiografia ha capito l’importanza dell’esperienza coloniale come “fucina” dell’inasprimento razziale che ha portato ai paradigmi genocidiari), acuito dalla pervasività del mito del cattivo tedesco e del bravo italiano e dall’idea ingenua e confortante di un passato coloniale tutto sommato “modesto” rispetto a quello dei grandi e duraturi imperi britannico o francese, ha di contro permesso il reiterarsi di modelli linguistici mutuati, spesso senza rendersene conto, dalla semantica coloniale. E’ da questa esperienza che, di generazione in generazione, sono stati trasportati parole e “luoghi” che – senza essere normati – sono entrati nel discorso pubblico attuale anche con significati leggermente diversi.

C’è infatti un amba aradam nella trasmissione di questo spazio linguistico del colonialismo: se fino a poco tempo fa parole quali “neghèr”, “negro”, “ascaro”, “scimmia”, ma soprattutto slogan quali “Prima gli italiani!” – utilizzati in particolare nell’imperialismo adriatico -, potevano essere rigettati dal discorso pubblico, se il potere riusciva a sottacere questa retorica “coloniale”, se questi impulsi  potevano essere tutto sommato messi ai margini, se poteva esserci un freno a questi discorsi pur presenti nelle file della società, adesso non si può più dire lo stesso. Queste retoriche sono adesso uscite dalla loro marginalità, dalla loro fremente pulsione sotterranea, dal loro silenzio normativo per diventare inquietantemente familiari e, cosa ancora più grave, efficacemente performative nel discorso pubblico: non solo hanno aperto spazi di azione, come dimostra la vicenda di Luca Traini e anche più generalmente la questione della chiusura dei porti, ma hanno reso il maggiore fruitore di questa retorica, Matteo Salvini, un vero e proprio perfomer, un politico che non appena twitta la parola immigrazione e non appena grida all’invasione, produce lo stupore e l’ammirazione di migliaia di seguaci. Non è quindi sbagliato affermare che questo lessico porta in sé quella semantica propria dell’universo coloniale e imperiale dell’800 e ‘900, e ha dunque anche una propria specificità linguistica (com’è naturale che sia data la “lingua”) del contesto nel quale nacque, ma non si può ignorare che esso viene oggi rimodulato su un discorso leggermente diverso, su un’altra episteme direbbe Foucault: il discorso securitario. Tutto ciò che attiene alla nostra sicurezza collettiva.

 

A scorrere il vocabolario delle nuove destre non si troverà infatti quasi mai la parola “razza” ma sarà onnipresente il sostantivo “invasione“. La destra radicale italiana, seguita da quella istituzionale – da Salvini a Meloni – da ormai alcuni anni non si scaglia tanto contro il pericolo di una contaminazione “biologica”, quanto contro quello di una grande “sostituzione etnica”. Quando Salvini nutre i suoi elettori del misfatto del migrante quotidiano, lo fa avvisandoli del pericolo relativo alla sicurezza del Paese terminando ogni suo discorso con l’ormai proverbiale: “stop invasione”. Il decreto che più incide nello spazio politico e crea consenso è quello relativo alla sicurezza. Tutti i discorsi, tutto il complesso sistema del “nuovo” sentimento contro l’altro ruota attorno al discorso securitario. Uno dei grandi temi della nostra modernità liquida.

 

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Non stupirà quindi che la parola che ruota attorno al discorso delle nuove destre in merito alla questione immigratoria – invasione – venga mutuata dal lessico militare: invadere significa infatti occupare manu militari un territorio. Occuparlo con la forza delle armi. Tutto ciò che i coloni hanno fatto nel corso della loro esperienza. Significa dunque rovesciare la semantica coloniale portandola sul discorso securitario. Ma cosa ci indica questo rovesciamento?

Non ci indicherà forse una strada tortuosa, una “terrificante complessità” di proliferazione di discorsi o – se meglio si vuole dire – una sorta di “razzismo di ritorno”, in cui il primo termine, “razzismo”, ha assunto un significato assai diverso da quello passato? O meglio ancora: è giusto parlare di “razzismo” quando ciò contro cui si grida non è un pericolo “biologico” ma “culturale” o “etnico”? Quando l’episteme è il discorso securitario? Non è forse il caso di parlare di una “fobia”?

E il secondo termine – “di ritorno” – non indicherà la testimonianza di una rimozione talmente grande da permettere un imbarazzante distorsione? Se il colonialismo è in fondo percepito come un elemento marginale, come un’esperienza misera di cui non serve parlare (chi parla di colonialismo oggi oltre gli storici?), se in fondo gli italiani erano bravi rispetto ai veri cattivi tedeschi, significa che nell’immaginario pubblico la nostra esperienza di coloni è impercettibile, significa che non esiste una “consapevolezza” di ciò che è stato. Significa insomma che le parole che hanno rappresentato quella esperienza possono essere utilizzate da chiunque, da qualsiasi forza in barba ad ogni “ragione” storica, perché non normate da una memoria consapevole o filtrate da un’esperienza “conosciuta”. E in fondo la psicologia non ci insegna che la “rimozione” non significa cancellare un’esperienza dal proprio inconscio ma semplicemente archiviarla? Non significa che certe “rimozioni” prima o poi, sotto altre forme, emergono dal loro torpore per manifestarsi? E quello che stiamo vedendo nell’attualità non è forse questo “manifestarsi” di esperienze con cui non abbiamo fatto i conti? Mi sa di si.