“Chi siete allora? Un’infelice vittima d’una passione senza speranza”: Puškin a 180 anni dalla morte

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Caterina Mongardini, Venezia –

 

XXX. […] ha già sparato… L’ora fatale è rintoccata: il poeta, silenziosamente, lascia sfuggire la sua arma.
XXXI. Lento, appoggia la mano sul petto, e cade. Lo sguardo annebbiato rispecchia la morte, non la sofferenza. […] È inutile: non esiste più. Il giovane cantore ha trovato morte immatura! È soffiato l’uragano, il fiore meraviglioso è appassito all’alba del mattino, il fuoco sull’altare si è spento!…
XXXII. […] Sotto il petto, una ferita l’aveva trapassato, e ne fluiva fumido sangue. Solo un attimo prima in questo cuore battevano la poesia, l’odio, la speranza e l’amore.

Questo è ciò che sarebbe potuto accadere in una fredda giornata, in Russia: uno dei gesti più romantici, il duello, eppure illegale e severamente punito dalla legge sin dai tempi di Pietro il Grande. Era necessario trovare un posto appartato, addirittura isolato in mezzo alla campagna se si temeva che uno sparo potesse essere sentito e arrivassero i gendarmi; poche persone potevano partecipare, affinché il segreto rimanesse tale: i duellanti, i rispettivi padrini (solitamente non più di due a testa) e un medico.
Puškin lo descrive molto bene: l’orgoglio ferito, i mantelli che si slacciano, le armi cariche. L’epilogo.
Sarebbe potuto accadere e accadde.

Ilya Repin, Eugene Onegin and Vladimir Lensk’s duel, acquerello, Puškin Museum, Mosca, 1899

10 febbraio 1837, periferia di San Pietroburgo, il poeta Aleksandr Puškin fu ferito a morte dall’ufficiale Georges d’Anthès: a 38 anni già era diventato parte del “canone letterario” e venne riconosciuto come e il fondatore della moderna letteratura russa.
Dire che previde la sua morte sarebbe un’idea frivola e fantasiosa, nonostante le affinità tra se stesso e il suo Eugenio Onegin: potremmo dire però che, con l’acume con il quale seppe sviscerare e analizzare la società russa e con il suo passato da duellante, seppe stilizzare quello che diverrà un topos letterario.

A ben vedere la sua vita fu tutt’altro che ordinaria giacché sia gli eventi che egli stesso, con la sua personalità turbolenta, contribuirono a renderla interessante.
Aleksandr Sergeevič Puškin, figlio di Sergej L’vovič Puškin e Nadežda Osipovna, nacque a Mosca nel 1799 nell’agio dei salotti della nobiltà russa: il padre era un maggiore in congedo appartenente ad un famiglia che – come diceva il poeta – era vecchia di 600 anni; la madre, invece, era una principessa discendente del maggior generale Abram Petrovič Gannibal, schiavo di origini africane affrancato e adottato da Pietro il Grande che ne fece un nobile russo e al quale Puškin dedicò un romanzo – rimasto incompiuto – dal titolo Il Negro di Pietro il Grande. Probabilmente anche il suo aspetto, capigliatura riccia e ribelle e carnagione olivastra, fu un lascito del fortunato ed esotico avo.

Orest Kiprensky, Ritratto di A. S. Puškin, olio su tela, Tretyakov Gallery, Mosca, 1827

Puškin  fu allevato dalla nonna materna, dallo zio paterno e dalla sua amata balia Arina Radionovna – si potrebbe dire la sua prima musa ispiratrice – e si formò in modo alquanto autonomo frequentando la biblioteca paterna fino a quando entrò nel prestigioso Liceo Imperiale di Carskoe Selo.
Il Liceo Imperiale, fondato da Alessandro I per l’educazione e la formazione di alcuni rampolli dell’aristocrazia che avrebbero in futuro servito o nell’esercito o nell’amministrazione civile, rimase nei ricordi del poeta un luogo sereno e felice nel quale cominciò a scrivere versi e dove conobbe alcune delle amicizie più importanti della sua vita: il poeta Del’vig e i decabristi Puščin e Kjuchel’beker, con i quali si era avvicinato ai gruppi massonici che in seguito avrebbero dato vita ai moti decabristi del 1825. Il clima di cameratismo e complicità instauratosi tra gli alunni del Liceo Imperiale è stato interpretato in chiave poliziesca dall’estone Andres Puustusmaa nel film del 2007 “1814” nel quale i ragazzi si trovano a dover far luce su una serie di omicidi all’interno del Liceo stesso.

Già in questi anni si distinse per il suo temperamento irruente e libertino: questo e le amicizie maturate al Liceo lo portarono ad entrare nelle trame dei circoli massonici, a volte celati sotto le spoglie dei più comuni circoli letterari, nei quali cominciò a scrivere alcune liriche caratterizzate sia dall’uso originale dei versi e della lingua che da una vena di contestazione politica. La lirica dal titolo Vol’nost’  (Alla Libertà) fu ripresa e lodata da molti dei circoli massonici di Pietroburgo e Mosca e questo gli costò la fama di decabrista. Inoltre, nel 1820, a causa di un poemetto dal carattere anti-zarista fu esiliato e partì per un lungo viaggio nei territori a sud dell’Impero, avendo così l’occasione di visitare le sponde del Mar Nero – soggiornando ad Odessa – ed il Caucaso. Fu qui, che prese ispirazione per uno dei suoi componimenti più belli e struggenti: Il Prigioniero del Caucaso (1822), nel quale la natura selvaggia dell’animo umano, incarnata da un’innamorata e passionale principessa circassa, è sensibilmente più nobile di quella “civilizzata” dell’ufficiale russo caduto prigioniero di una delle tribù montanare del Caucaso. Nel 1825, mentre era confinato nella tenuta di famiglia a Michajlovskoe – a seguito di una professione di ateismo spiata dalla censura nelle sue lettere – fallirono i moti decabristi e amici a lui cari furono processati, giustiziati o mandati in esilio in Siberia. Egli si salvò, probabilmente perché gli amici – che forse non credevano che Puškin sarebbe stato capace di mantenere il dovuto riserbo su questioni di massima importanza come la progettazione e l’organizzazione dei moti a causa del suo carattere sempre scherzoso e “disimpegnato” – lo tennero all’oscuro di una cospicua parte dei loro piani insurrezionali e lo difesero durante i processi che seguirono tanto che, alcuni, intercessero per lui presso lo stesso zar. Fu così che il poeta fu perdonato, ma fu legato indissolubilmente a Nicola I che lo prese sotto la sua “protezione”, costringendolo di fatto a esercitare la propria arte al suo servizio e sotto la sua supervisione. Una schiavitù dalla quale non si libererà più, soprattuto dopo il matrimonio con Natal′ja N. Gončarova, la quale lo costrinse a ridimensionare il suo spirito libertino e a partecipare alla vita di corte.
Durante la sua permanenza nella tenuta di famiglia, cominciò due delle opere più importanti della sua carriera: il romanzo in versi Eugenio Onegin (del quale, nel 1999, Martha Fiennes ha diretto la riduzione cinematografica dal titolo Onegin) e la tragedia Boris Godunov.

Prima edizione dell’Eugenio Onegin (1833), a destra quella del 1908.

Nell’Eugenio Onegin Puškin descrisse tutte le ipocrisie dell’alta società russa cittadina e provinciale; inoltre introdusse in Russia la forma del romanzo – per il quale gli saranno debitori i più grandi romanzieri russi della seconda metà dell’Ottocento – del quale non troviamo traccia se non in pubblicazioni straniere (soprattuto francesi), adattandolo alle esigenze e alla tradizione russe. Nel romanzo troviamo spiccati tratti autobiografici che spesso hanno fatto pensare all’identificazione di Puškin con l’Onegin ma, a ben vedere, il poeta – introducendo all’interno delle strutture letterarie il fattore alterante dell’ironia e, in modo ancor più significativo, quello dell’autoironia –  crea una sorta di smarrimento nel quale il lettore non può più scommettere sulla presunta ambivalenza del protagonista. Due dei personaggi principali, Eugenio Onegin e Tatiana – l’uno afflitto dalla noia esistenziale e l’altra depositaria della saggezza e dell’innocente bellezza della Russia rurale che sfiorisce a contatto con i salotti nobiliari cittadini –  rappresenteranno, inoltre, due modelli per la letteratura avvenire. Altre innovazioni, ugualmente importanti, sono l’uso – come già accennato – della lingua russa e di formule colloquiali e popolari del linguaggio. La prima parte del primo capitolo ne è l’esempio: Onegin, in carrozza, sta andando a trovare suo zio ormai moribondo e pensa:

 

[…] Dio mio, che noia starsene giorno e notte con un malato, senza allontanarsi neppur di un passo! E che bassa perfidia far divertire uno che è mezzo morto, rassettandogli i guanciali, porgergli la medicina con volto triste, sospirare e pensare fra sé: ma il diavolo quando ti porterà via?.

 

Anche in seguito alla tormentosa gestazione del romanzo (1823-1825/30) sarebbe impossibile affibbiare categorie letterarie definite ad un’opera poliedrica e spiccatamente innovativa, nata in un contesto in cui i termini “classicismo” e “romanticismo”, lungi dall’essere autoctoni, venivano importati e utilizzati indiscriminatamente senza tenere conto della tradizione intellettuale russa.
Una delle sue opere più tarde, per concludere questa veloce e scarna panoramica, è Il Cavaliere di Bronzo (1833) nel quale Puškin anticipa il tema dostoevskiano di Pietroburgo come “città straniante”, vista con gli occhi di un piccolo uomo discendente da una famiglia nobile decaduta che in vita sua aveva aspirato solamente ad una vita stabile e ordinaria; in realtà il destino lo  avvierà sulla strada della follia dopo la morte dell’amata a causa dell’esondazione della Neva. Il componimento è diviso in due parti, nella prima si descrive la nascita della città per volontà dell’Imperatore Pietro I, mentre nella seconda si svolge il racconto vero e proprio. In questo poema, pubblicato nel 1841 dopo la morte dell’autore, Puškin riprende il nome Eugenio per il suo protagonista che – in quanto nome “parlante” – dovrebbe denotare le qualità del personaggio: infatti il nome Eugenio (dal greco “ευ” ossia “bene” e “γενης” ossia “nato”) significa “nato bene” o in senso più ampio “di buona stirpe”. L’epilogo vede Eugenio, l’uomo dai fortunati natali,  impazzire miseramente e il testimone muto di questa follia non è altro che il suo persecutore ossia Pietro il Grande fattosi statua, costruttore di questa diabolica ed inospitale città nata per suo capriccio su un mare ostile e costruita in fredda pietra alla maniera occidentale.

Il cavaliere di bronzo, alias Pietro il Grande. Fonte: Dezidor / Čeština: Bronzový jezdec, památník Petru Velikému (2008)

Come abbiamo visto, Aleksandr Puškin morì giovane ma la sua vita era stata segnata da eventi e rivolgimenti che ne avevano influenzato tanto gli affetti quanto la carriera: dall’invasione francese del 1812 ai moti decabristi del 1825, nei quali si ritrovò invischiato; da testa calda qual era, rifiutò un incarico nell’amministrazione civile e fu uno dei primi a cercare di mantenersi con il mestiere dello scrittore, tentativo che però fallì nel momento in cui si dovette piegare all’ingerenza dello zar; non scrisse solamente liriche e opere in versi ma applicò la lingua russa anche alla prosa (ricordiamo i Racconti di Belkin del 1830 o La figlia del Capitano del 1836) e fu autore di teatro e di saggi storici, come quello sulla rivolta di Pugacëv del 1834.

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