Una nave da guerra rivoluzionaria: la HMS Dreadnought

dreadnought, storia navale, storia militare, prima guerra mondiale

Stefano Grassia, Catania –

L’arco temporale che va dagli ultimi tre decenni del XIX secolo al primo del XX fu caratterizzato, nell’ambito della Naval architecture, da una rapida obsolescenza delle tecnologie applicate alla costruzione di navi da guerra, un processo culminato nell’avvento delle rivoluzionarie navi del tipo dreadnought.

Ad avviarlo fu la realizzazione della nave da battaglia HMS Dreadnought, varata il 10 febbraio 1906 nei cantieri navali britannici di Portsmouth. L’unità inglese introduceva una serie di fondamentali innovazioni – qui di seguito analizzate – che avrebbero comportato una cruciale “rivoluzione tecnologica” a cui tutte le Marine mondiali dovettero adeguarsi: la portata delle modifiche strutturali introdotte fu tale da rendere legittimo il ricorso al termine “dreadnought” per indicare un’intera categoria di mezzi navali.

Il cambiamento più drastico riguardò senza dubbio l’armamento principale, che nelle navi da battaglia era stato composto fino al 1905 da artiglieria sia di grosso che di medio calibro – valga come esempio il caso della recente classe Lord Nelson, che montava 4 pezzi da 305mm e 10 da 233mm. Le configurazioni proposte in fase di progettazione furono molteplici, ma infine si giunse alla sistemazione di cinque torrette binate per un totale di dieci cannoni da 305mm, tipologia Mark X, a cui si aggiunsero cinque tubi lanciasiluri sommersi e svariate postazioni di fuoco secondarie, deputate alla difesa ravvicinata contro le torpediniere tramite armi a tiro rapido da 76mm.

Nei primi anni del XX secolo, infatti, si era andata affermando l’idea di un’ipotetica All-Big-Gun battleship, nave armata, cioè, di soli cannoni di grosso calibro, oltre che di un eventuale armamento silurante e/o di cannoni “a breve gittata”. Un tale modello era il risultato di alcune considerazioni di carattere pratico – quali la maggiore potenza di fuoco in funzione anti-capital-ship e una semplificata correzione del tiro –, che in maniera più o meno contemporanea stavano interessando anche le Marine statunitense e giapponese. In entrambi i casi furono intrapresi progetti che precedettero quello della stessa Dreadnought, anche se la costruzione delle unità così concepite andò a rilento e il loro completamento fu quindi successivo alla nave da battaglia britannica, nota come la prima “corazzata monocalibro” del secolo.

Un’altra innovazione introdotta con quest’ultima riguardò l’installazione delle turbine Parsons, già sperimentate in navi minori e ormai pronte a sostituire i tradizionali motori a vapore a triplice espansione, con vantaggi evidenti già in termini di velocità massima. L’apparato motore diventava così capace di raggiungere i 21 nodi, contro i 18 della precedente classe Lord Nelson, e non meno considerevole diveniva il risparmio in termini di spazio nei locali da destinare alla propulsione. A questi due fattori, armamento e apparato motore, si aggiunsero poi una serie di migliorie in altri tre elementi nevralgici: corazzatura, struttura interna e apparecchiature imbarcate.

Le ragioni strategiche sottostanti alla decisione di realizzare la HMS Dreadnought e legate inscindibilmente alla figura del First Sea Lord J. Fisher restano, ad oggi, ancora controverse e troppo articolate per essere adeguatamente discusse in questa sede. Ciò che vale la pena evidenziare, in ogni caso, è invece il multiforme intreccio di conseguenze che la nave britannica comportò: in termini economici la sua introduzione accrebbe sensibilmente il costo medio per nave da battaglia e contemporaneamente, in termini tecnici, rese decisamente obsolete e inefficaci le unità precedenti, non per niente poi definite pre-dreadnought.

Un’arma così potente, sviluppata per di più nell’epoca d’oro degli imperialismi, implicò inoltre l’avvio o l’aggravamento di almeno tre corse agli armamenti navali. La prima e più rilevante fu quella tra britannici e tedeschi (1898-1914); la seconda coinvolse nel teatro mediterraneo Italia e Austria-Ungheria (1909-1913); la terza, basata su costruzioni europee ma “delocalizzata” in Sud America, ebbe luogo tra Argentina, Brasile e Cile (1907-1914). Le ultime due non sfociarono in un conflitto aperto, ma la prima fu corresponsabile della conflagrazione mondiale avvenuta nel 1914.

La Germania, infatti, impegnata dalla fine del XIX secolo in una corsa agli armamenti navali con l’Impero britannico, dovette adeguarsi ai nuovi parametri costruttivi imposti dalla potenza rivale: se da un lato l’introduzione delle turbine a vapore fu almeno in un primo tempo rinviata, dall’altro lato l’artiglieria imbarcata nella classe Nassau, impostata ad un anno di distanza dall’entrata in servizio della Dreadnought, incluse 12 pezzi da 280mm. Per di più, negli anni successivi al 1907, il progressivo incremento dei costi in relazione al miglioramento delle specifiche tecniche (armamento, dislocamento e dimensioni, propulsione, corazzatura, apparecchiature di bordo) comportò: a) un rifinanziamento costante dei programmi di costruzione; b) un acuirsi delle tensioni politiche nella corsa vis-à-vis con la Gran Bretagna, ben decisa a conservare la propria supremazia marittima.

Da un punto di vista strategico, il programma a lungo termine avviato dalla Germania e la rivalità con l’Impero britannico seguivano una logica che oltrepassava la mera politica navale, inserendosi nel più ampio panorama internazionale. In questo contesto la flotta tedesca fungeva, secondo le intenzioni dei suoi artefici, da strumento di supporto per rivendicazioni di carattere coloniale e per la difesa dello status (in via d’affermazione) di Grande Potenza con interessi commerciali globali. Un’interpretazione ben sintetizzata dallo studioso J. Steinberg:

Tirpitz sosteneva che l’impatto della flotta sull’economia, la sua attrattiva nei confronti della borghesia liberale, anglofila, commerciale; l’estensione dei poteri di comando del Kaiser negli oceani, e il suo massimo effetto sulla bilancia internazionale del potere avrebbero potuto fornire il collante interno per un fatiscente regime e una leva in politica estera in grado di innalzare la Germania tra le fila degli Stati imperialisti.

La concezione appena descritta giustifica la fase di espansione attraversata dalla Kaiserliche Marine, che ricevette un forte impulso grazie alle politiche adottate dall’ammiraglio A. von Tirpitz, le quali trovarono espressione in quelle celebri Leggi Navali destinate a finanziare la costituzione di una flotta moderna dal 1898 al 1912.

Alla base di una simile strategia stava la dottrina della Risikoflotte (Risk-fleet), secondo cui la presenza di una consistente flotta tedesca – la seconda al mondo per dimensioni – avrebbe funto da deterrente ai potenziali attacchi britannici. Tuttavia, se da una parte l’avvento delle dreadnought parve un’occasione utile a colmare o a ridurre il gap esistente fra le due flotte, dall’altra lasciò emergere le contraddizioni finanziarie che una tale politica comportava, poiché troppo onerosa per uno Stato federale la cui prima preoccupazione militare rimaneva pur sempre la difesa dei confini continentali.

Nonostante ciò, la flotta germanica continuò a espandersi e quella britannica fece altrettanto, sicché entrambe si dotarono di un imponente numero di dreadnought destinate a incontrarsi e a scontrarsi in una delle più celebri battaglie della storia navale contemporanea: quella dello Jutland, alla fine del maggio 1916.

LE LETTURE CONSIGLIATE:

  • A. Dodson, The Kaiser’s Battlefleet. German Capital Ships 1870-1918, Seaforth Publishing, Barnsley, 2016.
  • N. Friedman, The British Battleship 1906-1946, Seaforth Publishing, Barnsley, 2015.
  • R. Gray (ed.), Conway’s All the World’s Fighting Ships, 1906-1921, Conway Maritime Press, London, 1985.
  • R. Hough, Dreadnought. A History of the Modern Battleship, Periscope Publishing, Penzance, 2003.
  • P.M. Kennedy, The Rise of the Anglo-German Antagonism, 1860-1914, Humanity Books, New York, 1987.
  • R.K. Massie, Dreadnought. Britain, Germany and the Coming of the Great War, Random House, New York, 1991.
  • J. Steinberg, The Tirpitz Plan, in “The Historical Journal”, 16, 1973, pp. 196-204