La graduatoria del coraggio: giro di ricognizione nella letteratura degli Arditi

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Luca Scuro – Venezia

Maestri nell’assalto rapido e brutale, nei colpi di mano, nella lotta corpo a corpo, gli arditi furono le truppe d’élite del Regio Esercito durante la Prima guerra mondiale, resi celebri dalle operazioni sul San Gabriele nel 1917 e ancor di più dall’assalto a Col Moschin nel giugno del 1918. Adombrati dal ruolo politico che ricoprirono nell’immediato dopoguerra, la storia di questi reparti è rimasta per molto tempo poco studiata, perdurando dentro i miti e le leggende che le profonde lacune nella documentazione ufficiale e la fitta pubblicistica a sfondo politico dell’immediato dopoguerra non hanno aiutato a demistificare. La caratteristica che rende interessante una rassegna sulla letteratura degli arditi, è la concordanza delle opere – pur tra di loro anche molto diverse – nella loro illimitata esaltazione, per le qualità belliche, fisiche e morali, riconducibile all’assoluta originalità dell’esperienza vissuta.

Gli arditi nascono ufficialmente nell’estate del 1917 presso la 2a Armata comandata dal generale Capello, su iniziativa del tenente colonnello Giuseppe Bassi, che si era particolarmente distinto nella sperimentazione di nuove tecniche d’assalto adatte alla guerra di trincea. Tuttavia la decisione di formare dei reparti d’assalto – seppur in forma vaga – era già stata presa, come si legge in una circolare del Comando Supremo del 26 giugno 1917. Le cui modalità di costituzione, addestramento e impiego prendevano a modello le Sturmtruppen austroungariche, ma nella sua attuazione pratica vi sarà però una profonda differenza, basata principalmente sul rapporto massa-fanteria. Mentre queste ultime erano parte integrante delle unità di fanteria – in pratica una componente specializzata dell’unità – gli arditi erano dei veri propri reparti autonomi che godevano di privilegi particolari, fra cui l’esenzione dai turni in trincea, l’abolizione dello zaino e una paga superiore.

Seppur universalmente la letteratura ardita riconosca al tenente colonnello Bassi la creazione istituzionale dei reparti d’assalto, durante il fascismo fu popolare un’altra versione, quella di Cristoforo Baseggio. Comandante di una «compagnia esploratori», operò in Valsugana nel 1915-1916, pubblicando nel 1929 il suo libro-diario La compagnia della morte 1915-1916 – noto anche come La compagnia arditi Baseggio – in cui rivendicò il ruolo di padre e precursore degli arditi. Il contesto dell’opera riguarda le prime fasi dell’entrata in guerra, quando il Comando Supremo sperimentò la formazione di alcune compagnie esploratrici, soldati a cui erano affidati compiti di ricognizione avanzata, incursioni, sabotaggi, e di sventare eventuali imboscate nemiche. La compagnia di Baseggio, venne sciolta nel 1916 a causa delle elevate perdite riportate contro un assalto a delle posizioni fortificate austriache. L’intera opera appare al lettore più accorto come decontestualizzata, per l’utilizzo fuorviante di termini tipici del fascismo, come l’elogio dell’uomo nuovo, e la naturale evoluzione dell’ardito – termine utilizzo ante litteram – in futurista-fascista. Il diario racconta però anche alcuni episodi (seppur probabilmente romanzati) tipici della goliardia che caratterizzava gli arditi:

 

Mi fermai quindi e, sotto gli sguardi certo attoniti degli ufficiali nemici che mi tiravano di binocolo, pensai di soddisfare, con tutta calma, ad un mio bisogno corporale e lasciai a terra un ricordo sul quale non mancai di infilare una bacchetta col mio biglietto da visita, bene in evidenza con i dovuti ossequi: Omaggi a Cecco Beppe.

 

Con i suoi benemeriti di fascista della prima ora, Baseggio, chiese ed ottenne, sia da Mussolini che dagli ambienti combattentistici, il ruolo di padre degli arditi. Solamente nel 1938 verrà contestato da Salvatore Farina, tenente di complemento della 2a Compagnia del Io Reparto d’Assalto. Ferito seriamente alla gamba destra (in seguito amputata) durante l’assalto sul S. Gabriele, sarà decorato con la Medaglia d’Argento al Valore Militare. Presidente nel dopoguerra del F.N.A.I. (Federazione Nazionale Arditi d’Italia) e redattore del giornale «L’Ardito d’Italia», il suo libro Le truppe d’assalto italiane. Con cenni sulle truppe d’assalto straniere è una delle rare eccezioni del periodo, in quanto ricostruisce con meticolosità e accuratezza storica, le vicende degli arditi. L’analisi di Farina rivela come le indicazioni tattiche che Baseggio attribuisce ai suoi arditi non siano nient’altro che le disposizioni dello Stato Maggiore sul combattimento in territori montani, del 1908. Con questa revisione non cercò mai di sminuire il ruolo o le imprese compiute dal mag. Baseggio e la sua «compagnia esploratori volontari» – come scrisse lo stesso Farina – ma solamente di evidenziare l’appropriazione indebita (a scopi politici) del titolo di arditi.

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Tavola di Vittorio pisani

L’ardito è il combattente “nuovo”, che si affianca al modello alpino di soldato tipo dell’esercito, forte e obbediente, ma combattente sulla difensiva, che bestemmia la guerra e chi l’aveva voluta. L’ardito invece è un assaltatore votato all’offensiva ed alla vittoria. Questo permise loro di fruire di una pubblicità maggiore in quanto l’immagine pubblica e della massa combattenti, necessitava il mito di un soldato vittorioso, ben visibile nella guerra-festa di Marinetti. Le stesse caratteristiche sono annotate in prima persona da Giovanni Comisso in Giorni di guerra, che descrive così il suo incontro con gruppo di arditi:

 

Questi arditi erano accampati vicino e fra tutti i soldati entusiasmavano veramente a vederli. Gli altri sotto ai loro panni si sentivano contadini, falegnami, muratori, impiegati od operai, ma negli arditi non era possibile riconoscere i segni di alcun mestiere. Parevano nati dalla guerra.

 

L’ardito non è dunque il tipico padre di famiglia, come il soldato alpino, ma piuttosto uno scanzonato goliardico alla ricerca di un’occasione per «menare le mani», e di tutta la moltitudine di miti legati alla loro fama: di accoltellatori, di strappi alla disciplina, il fatto che fossero tutti criminali e assassini, quello che è maggiormente ricorrente nella letteratura, e soprattutto distintivo rispetto a tutti gli altri combattenti, è il mito del coraggio, cieco e smisurato, ostentato come religione di vita, così come lo descrive Mario Carli in Noi Arditi:

 

C’è proprio una graduatoria del coraggio. Non esiste un tipo unico di coraggio. Gli Arditi sono sul gradino più alto della graduatoria. Il coraggio degli arditi non è quello di tutti gli altri. Sembrerà paradossale ma è così.

 

Il mito svolge un ruolo cruciale nella loro storia, in quanto li circonda totalmente. Gli stessi arditi contribuirono ad alimentare il loro miti, sempre mal tollerati dal Comando Supremo, ma necessari al tempo stesso per infondere un alto spirito di corpo per superare le elevate perdite dopo gli audaci assalti alle trincee avversarie. Pur non disponendo di una letteratura di successo come quella degli alpini (ben studiata da Marco Mondini in Alpini. Parole e immagini di un mito guerriero, Roma-Bari, Laterza, 2008), gli arditi non mancano di testimonianze – seppur più siano esse quantitativamente minori – che quei giovani affidarono ai loro diari: i pensieri, i caduti, i canti e le emozioni di quella nuova esperienza.

Altre opere da ricordare sono il già citato Noi Arditi di Mario Carli, che sconfina nell’acceso dibattito politico, significativo in questo caso è l’anno della sua scrittura, il 1919. Totalmente opposto è Vita di guerra (1952) di Ettore Viola, soprannominato l’Ardito del Grappa, fu uno dei soldati più decorati della guerra. Presidente dell’Associazione Nazionale degli ex combattenti, rimase alla Camera a contrastare il regime fino al novembre 1926, quando espatriò in Cile. Il testo di Paolo Giudici invece è un diario dai toni romantici, che narra le “avventure” dei “cavalieri della morte”, nel suo Reparti d’Assalto:

 

Se fossimo nati in altri tempi saremmo andati con Giasone alla conquista del Vello d’Oro; e avremmo seguito – consci di tutti i malanni e non sospinti dalla necessità di ritornare in patria o di trovare una patria nuova – Ulisse ed Enea nelle loro peregrinazioni mediterranee; o con Leonida saremmo corsi a difendere le sacre porte dell’Ellade; e Goffredo ci avrebbe visto per primi, all’avanguardia delle sue schiere, sotto le mura di Gerusalemme.

 

Per finire, il racconto più singolare, poiché è l’unico vero e proprio romanzo – pur nella sua estrema brevità – di tutti i testi menzionati finora, è sorprendentemente di un autore straniero, premio Nobel per la Letteratura nel 1954. Si tratta del celebre scrittore di Addio alle armi, Ernst Hemingway, giovanissimo dei suoi 19 anni conobbe gli arditi mentre si trovava a Villa Ca’ Erizzo (Bassano del Grappa) in quel momento residenza della sezione ambulanze della Croce Rossa Americana, che annoverò tra i suoi volontari autisti anche il futuro scrittore John Dos Passos. La scomparsa di Pickles McCarty è rimasta sconosciuta al pubblico fino al gennaio 1976, quando una traduzione italiana è apparsa ne «Il Racconto» (diretto da Giovanni Arpino), ed è la storia un pittoresco pugile italo-americano che rientra clandestinamente in patria per arruolarsi tra gli Arditi.

 

L’Ardito che gli sedeva accanto stava affilando il suo coltello con una piccola cote oleata. […] sorrise, e provò se il coltello tagliava, strofinando il filo della lama contro la guancia. Il soldato lo guardò muto, poi disse asciutto: «Gli austriaci. Hanno sfondato in montagna. Han rotto le linee sull’Asolone e stanno scendendo sulla strada. Ci ammazzeranno tutti.» […] «Arditi, oggi si mangia carne!».
Gli Arditi attaccavano a testa bassa, balzavano, pugnalavano, lanciavano «signorine», dovunque c’era spazio, nella massa grigia dei nemici. […] Gli Arditi non li distinguervi più. Si vedevano solo vortici di austriaci e potevi esser certo che lì in mezzo c’era un Ardito.

 

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