Russofobia, o della Diffidenza

Caterina Mongardini, Venezia –

 

C’era una volta la Russia;
no, c’era una volta la Rus’; no, forse non si capisce: c’era una volta la Moscovia.
No, cosa ne sa la gente della Moscovia? C’era una volta l’Impero Russo.
Alt, facile a dirsi: “impero”. È un termine improprio, importato da Pietro il Grande dall’Occidente, meglio prendere un’esperienza originale.
Facile: c’era una volta l’URSS.
C’è stata: è caduta da poco, come si fa a raccontare una favola su un cadavere ancora caldo?
Va bene, allora c’era una volta l’Orso Russo.
Ecco, che incipit avvincente.

 

Una favola, questa dell’Orso Russo, un mito che ci tiene al sicuro e ci culla nella nostra concezione del mondo; come il mito di Europa – bellissima fanciulla rapita da Zeus fattosi toro – ci ha fornito una toponomastica nobile e di tutto rispetto per il nostro sub-continente, il mito dell’orso famelico ci è stato fornito affinché potessimo comprendere subito le caratteristiche e le aspirazione del nostro vicino.
Il mito è uno strumento di origini ancestrali, legato alle forme di religione più antiche le quali lo utilizzavano spesso per spiegare – attraverso formule comprensibili a tutti come quelle di un racconto – le origini del mondo e della vita. Non si pretendeva che fossero verità universali, tanto meno rivelate, ma erano parte costitutiva della cultura che li produceva e, in quanto prodotto, ne riflettevano le pulsioni (aspirazioni, paure, desideri, ecc…). Il Cristianesimo – verità rivelata a cui si doveva prestar fede incondizionata – esautorò il logos del mito, senza per questo annichilirne le funzioni. L’esempio del mito d’Europa e dell’Orso Russo ce lo dimostrano: sono miti secolarizzati che rinviano ad una visione del mondo da parte di chi se ne appropria – come nel primo caso – o di chi li produce – come nel secondo.

Nel libro Russofobia: Mille Anni di diffidenza, (Sandro Teti Editore, 2016) Guy Mettan illustra come il mito dell’aggressività russa (l’orso pronto a balzare sull’Europa, donzella in difficoltà) sia stato costruito con sapienza e pazienza attraverso mille anni di storia: una storia eurocentrica ed euro-referenziale.
Il libro è diviso in tre parti, tre macro saggi che mirano alla decostruzione della russofobia e alla sua esegesi: perché temiamo tanto i russi? Come siamo giunti a considerarli dei nemici?

 

 

Questa nostra attitudine – confortata dalle aggressive politiche mediatiche che caratterizzano ogni nostra giornata – se posta sotto i riflettori che le dedica questo libro, ci potrebbe risultare una pratica ipocrita e meschina, non meno deprecabile del razzismo. È una visione del mondo che mira a tracciare un confine fra noi – occidentali “brava gente” – e loro – i terribili, i rossi – in una sorta di atteggiamento schizofrenico che ci induce a mettere sotto accusa qualsiasi mossa dell’altro, sicuramente volta alla nostra rovina.

 

Le origini di tale avversione, secondo Mettan, sono da rintracciare nella contesa tra Roma e Costantinopoli, millenni or sono: il fatto che – prima del 476 d.C. – fossero state parte di un’unità Imperiale induceva entrambe a sentirsi incomplete l’una senza l’altra. La divisione comportò che esse prendessero strade diverse e l’allontanamento fu concepito da entrambe come un tradimento. Contrariamente a quanto la nostra forma mentis ci suggerisce – conformemente a quanto abbiamo imparato a scuola sul 1054 – non fu la parte Orientale ad allontanarsi culturalmente da quella Occidentale, ma – secondo l’analisi di Mettan – sarebbe stata la parte Occidentale a rigettare l’ortodossia e ad intraprendere la strada della moltiplicazione del titolo Imperiale e la stigmatizzazione dell’Oriente come dispotico. E non solo la logica, ma anche un’attenta analisi dei fatti ci suggerisce che lo Scisma – che ci è stato presentato come l’atto superbo e irreversibile dell’Oriente – in realtà rifletta una dialettica politico-religiosa più complicata. La colpa della Russia è stata quella di proclamarsi erede dell’Impero Romano d’Oriente, in qualità di ultimo difensore dell’Ortodossia. Queste le fondamenta su cui si costruirà il “discorso” della Russia nemica dell’Occidente.
Ma cosa ha impedito che la vulgata della Russia miscredente e barbara si estinguesse di fronte al “sacrificio” della Rus’ che salvò l’Occidente dall’invasione tartara? Oppure di fronte all’ “europeizzazione” dell’Impero da parte di Pietro il Grande? O, tra il XIX e il XX secolo, di fronte alla sconfitta di Napoleone e di Hitler?

 

Una carta satirica giapponese all’alba della Grande Guerra (Settembre, 1914 ca.: la Russia ha le sembianze di un orso

 

La permanenza di questa phobia ci apre gli occhi su quanto non si tratti di un conflitto politico ma di una struttura di “lunga durata” (se mi si passa la formula). Se fosse stato lo zarismo a far paura allora questa phobia non avrebbe più avuto ragione d’esistere dopo il 1917; se fosse stato l’antisovietismo, allora non sarebbe dovuto nascere il timore nei confronti dello Zar Nicola I ritratto come un vampiro – Bram Stoker docet – e l’Occidente e l’Oriente si sarebbero dovuti riappacificare dopo il 1991. E Putin? Dipinto a seconda delle licenze poetiche che si concedono i giornalisti e i politici come un despota, uno zar, un degno erede di Stalin o un novello Hitler, egli è sottoposto – più di qualsiasi altro capo di stato – ad una copertura mediatica ossessiva pronta a coglierlo in fallo in ogni momento. Senza voler giustificare né tanto meno appoggiare la linea politica del Presidente Putin, bisogna riconoscere che Mettan ha ragione quando asserisce che tanto accanimento – a volte gratuito e paranoico – non si riscontra nei media per i corrispettivi occidentali.

Ma la demonizzazione del nemico, pratica antica come il mito, esige che esso sia incarnato da qualcuno. In quest’ottica in cui la Russia sarebbe l’unica potenza affetta dal morbo dell’espansionismo (facilmente confutabile con un’attenta analisi del colonialismo del XIX secolo e della tendenza inclusivista della Nato); in questa visione aggressiva che mette costantemente in discussione le sue forme di sovranità, per quale motivo essa non si dovrebbe difendere? Tutto sta nel verificare quanto l’ “universalismo democratico” occidentale sia valido anche al di là di quella presunta cortina che si pretenda tagli l’Europa da Tallin a Odessa.

Guy Mettan

Lucidamente, l’autore analizza in quattro capitoli appositi la genesi e la costruzione della russofobia occidentale – rispettivamente quella francese, quella inglese, quella tedesca e infine quella americana – dandone una panoramica più che esaustiva: l’apparato bibliografico che propone è ampio e ricco, specchio della mole di lavoro svolto e di informazioni raccolte e messe a confronto. Il libro, costruito con argomentazioni corpose ed esaustive, non pecca di pedanteria pur usando un procedimento logico molto serrato, a volte forse ai limiti del virtuosismo oratorio. L’ambiente giornalistico da cui proviene l’autore – oltre a conferirgli una scrittura fluida e piacevole – gli ha consentito di dotare il lettore degli strumenti più adeguati per un’analisi del “discorso” mediatico occidentale riguardo la Russia.

Uscendo da questa lettura con un occhio più attento alle nostre phobie e a quelle che ci vengono proposte/imposte, invece della storia dell’Orso (o dell’orco, se riferito a Putin) cattivo, potremmo raccontare ai bambini Europei la storia di Biancarussia, vittima di un confronto in uno specchio tarato su modelli culturali diversi.

LE LETTURE CONSIGLIATE: