Educati “all’europea”: i Decabristi dopo la Campagna di Francia (1813-1814)

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Vasily Timm, The decembrist revolt (1853)

Caterina Mongardini, Venezia –

In seguito al processo di reazione, che in Europa aveva visto il sacrificio del “venticinquennio rivoluzionario” (1789-1814) e la repressione dei moti del 1820-1821, anche in Russia si trovarono delle vittime sacrificali: i decabristi.

Le loro idee, alla luce di quelle liberali post-rivoluzionarie, però, non maturarono in Russia ma all’estero: in seguito alla Campagna di Francia del 1813 e alla successiva Occupazione di Parigi del 1814, infatti, per la prima volta i Russi portarono a compimento un’esperienza importantissima, viaggiando attraverso l’Europa e soggiornando nella capitale francese dove ebbero l’opportunità di vedere con i propri occhi le differenze con la madrepatria.

Nel 1813 gli ufficiali russi in Francia, educati secondo i costumi europei, partecipavano alla vita dei salotti parigini, ben accolti dalle dame e dai loro pari grado; si sarebbero certamente sentiti più francesi che russi, se non fossero entrati in quella città come vincitori, ruolo che – dopo la Guerra Patriottica – ricoprivano con orgoglio. Lo stesso Alessandro si beava del trionfo raggiunto, lasciandosi andare a comportamenti assai liberali per un autocrate – permettendo, ad esempio, che la Francia si dotasse di una Costituzione – i quali, sfortunatamente per il suo successore Nicola I, furono notati da alcuni arguti osservatori, per lo più giovani ufficiali russi. Lo dimostra una lettera del decabrista Bestužev all’Imperatore Nicola I:

 

[…] Il governo dello Zar Alessandro sembrava da principio autorizzare le migliori speranze per il bene della Russia. […] L’infelice guerra del 1807 mandò in disordine le finanze, ma allora non lo si osservò perché ci si preparava alla guerra patriottica. Infine Napoleone invase la Russia, ed in questo momento il popolo russo divenne per la prima volta conscio della sua forza; in questo momento si destò nei cuori il sentimento della libertà, anzitutto della libertà politica, poi di quella nazionale. Questo fu l’inizio del pensiero liberale in Russia. Lo stesso Governo lanciava le parole d’ordine: «Libertà! Liberazione!». Esso diffondeva scritti contro l’abuso del potere illimitato fatto da Napoleone, il grido del Monarca Russo giunse fino alle rive del Reno e della Senna.

 

Proprio in questo periodo, questi giovani – cresciuti “all’europea” – portarono a maturazione le teorie illuministe che, fino a quel momento, erano rimaste nozioni perlopiù astratte: a queste si sommarono il fervore con cui aderirono alla Guerra Patriottica contro l’invasore e l’esperienza vissuta fuori dalla Russia, al seguito di uno Zar che sembrava sensibile alle istanze costituzionaliste.

La propaganda russa, utilizzando in funzione anti-napoleonica la fedeltà e la devozione radicati nella popolazione per la “Santa Madre Russia”, per la Chiesa Ortodossa e per lo Zar (affettuosamente chiamato dai sudditi batjuška, piccolo padre), creò un sentimento comune capace di connettere direttamente il contadino analfabeta siberiano al ricco principe della corte di Pietroburgo; allo stesso tempo, però, sottovalutò la capacità critica delle menti istruite ed ‘europeizzate’ dell’aristocrazia cittadina. A guerra finita, infatti, i sentimenti liberali che gli ufficiali avevano visto agitarsi in Francia, affiancati al sentimento di appartenenza alla comunità slava di cui erano partecipi, portò alla nascita di una sorta di autocoscienza di classe, che sarà la base dalla quale si svilupperanno i moti decabristi del 1825.

Mentre in Europa le antiche dinastie riacquistavano i propri troni e il Congresso di Vienna definiva il nuovo assetto geopolitico del continente, le preoccupazioni che interessavano il Governo Russo più da vicino, in quel momento, riguardavano la lontananza dell’Imperatore da Pietroburgo e il pericolo che i soldati in Francia si rendessero conto delle diverse condizioni di vita delle masse popolari e che le paragonassero alle proprie.

L’assenza dell’Imperatore a corte, occupato nella ‘crociata’ in Europa, era un evento alquanto insolito per la Russia: l’unico Zar che fino a quel momento aveva lasciato il suolo russo per recarsi all’estero era stato Pietro il Grande. È interessante osservare che l’unico paese nel quale lo Zar si rifiutò di andare fu proprio la Francia, dal momento che essa era il principale alleato della Sublime Porta, con la quale l’Impero Russo era costantemente in conflitto.

Tale assenza da Mosca aveva provocato una congiura di palazzo ad opera della sorellastra di Pietro, Sofija, figlia dello Zar Alessio e della sua prima moglie Marija Miklaševskaja. Pietro era l’ultimogenito dello Zar, figlio della seconda moglie Natalija Naryškina, ed era stato acclamato Zar dai bojari in seguito al disastro in Crimea, avvenuto durante la reggenza di Sofija. Quest’ultima nel 1698, mentre Pietro era lontano, organizzò la II Rivolta degli Strel’cy – unità militari dotate di armi da fuoco, come gli archibugi con le quali Sofija si era guadagnata la reggenza durante I Rivolta – che però venne repressa nel sangue da Pietro, tornato dal suo viaggio.

Il Governo tra il 1814 e il 1815 temeva proprio che la prolungata assenza di Alessandro potesse generare una nuova congiura, giacché anche il padre dell’imperatore, Paolo I, ne era stato vittima (per ragioni politiche riguardanti un’eventuale guerra contro l’Inghilterra). L’Imperatore Alessandro, nonostante le pressioni per un veloce ritorno in patria, continuava a presenziare agli eventi mondani francesi nei quali era acclamato e desiderato.

Vasily Timm, Attaque du carré des décabristes (1853)

La seconda preoccupazione del Governo Russo a Pietroburgo, riguardante la permanenza all’estero dell’esercito, era anch’essa dettata dalle nuove esperienze che i soldati avevano avuto la possibilità di sperimentare durante la Campagna di Francia. Essi, seppure non istruiti come gli ufficiali, avevano i mezzi per comprendere le differenze fra le loro masse contadine, anime che non possedevano nemmeno la loro identità, e i contadini proprietari francesi. Le istanze che scaturirono da questo confronto, non esplosero con rivoluzioni su vasta scala, ma si incanalarono nel diffuso malcontento popolare descritto, ancora una volta, dal decabrista Bestužev, nel momento in cui l’esercito fu smobilitato:

 

La guerra non era ancora terminata, ed ecco i soldati reduci spargere nel popolo manifestazioni di malcontento. […] Tutti i militari, dal generale al soldato semplice, tornati a casa, non facevano che parlare del buon ordinamento della vita all’estero. […] I militari dicevano: «Abbiamo dunque liberato l’Europa soltanto per portare noi stessi le sue catene? Abbiamo aiutato la Francia ad avere una costituzione, per non poterne ora neppure parlare?».

 

Anche Nikolaij Turgenev – politico ed economista russo – al servizio del Barone Von Stein all’epoca dell’occupazione di Parigi, scriveva nel suo Diario:

 

Molti Russi se ne torneranno da qui alla loro patria dopo aver constatato che il servaggio non è indispensabile a far regnare l’ordine civile e a far prosperare gli imperi.

 

Alessandro, partì da Parigi, per andare a Londra, il 3 giugno 1814; a quella stessa data l’esercito cominciò a ritirarsi in buon ordine, portandosi dietro un’esperienza di guerra del tutto originale.

L’Imperatore tornò a San Pietroburgo tra il 13 e il 14 luglio 1815: nello stesso anno concesse alla Polonia – granducato controllato dal Granduca Costantino – una Costituzione molto liberale, concessione pericolosa a causa della scarsa propensione alle riforme in patria. Infatti negli ultimi anni del suo regno, Alessandro si attestò su posizioni sempre più reazionarie e conservatrici; l’unica cosa che aveva dissuaso gli aristocratici intellettuali a protestare contro il potere costituito, era un sentimento d’onore dovuto al giuramento di fedeltà prestato all’Imperatore, ma gli intellettuali e alcuni reparti dell’esercito erano già in fermento.

Nel momento in cui lo Zar morì, nel 1825, questi intellettuali di tendenze liberali – germogliate dall’esperienza ‘francofila’ della fine del XVIII secolo, dal furore patriottico della Guerra del 1812 e dalla maturazione delle teorie illuministe durante l’occupazione di Parigi – approfittarono della confusione ai vertici del potere per esternare le proprie rimostranze.

Alla morte di Alessandro, infatti, poichè lo Zar non aveva avuto figli, il potere sarebbe dovuto passare a suo fratello, il Granduca Costantino, ma questi – preso dall’incarico in Polonia – rifiutò la Corona. A quel punto la responsabilità imperiale ricadde sulle spalle del terzo fratello, Nicola I, che si trovò a dover fronteggiare un moto “rivoluzionario” composto, però, solo da pochi intellettuali e qualche militare. Tra le loro fila c’erano anche alcuni membri della guardia reale che – non sapendo della decisione del Granduca di non succedere al fratello – avevano giurato fedeltà a Costantino e si rifiutarono di giurare fedeltà al nuovo autocrate; questi, inneggiando a Costantino e alla Costituzione, si assembrarono nella Piazza del Senato a San Pietroburgo, dove Nicola I decise disperderli con l’artiglieria. La risoluzione di sparare sulla folla sortì l’effetto desiderato e stroncò i cosiddetti “moti decabristi”, chiamati così perché avvenuti nel dicembre 1825. Non si può parlare di rivoluzione, giacché i decabristi erano – come ci dimostrano le vicissitudini di Puškin – un esiguo gruppo di aristocratici intellettuali e di pochi rappresentanti dell’esercito che coltivavano segretamente idee liberali: non c’era alcun coinvolgimento popolare, nessuna propaganda, le attività segrete di questo gruppo avvenivano all’interno di organizzazioni spesso massoniche, con rituali d’iniziazione. Pensavano che il popolo avrebbe capito le loro motivazioni e che li avrebbe seguiti, ma ciò non accadde perché non era stato debitamente sensibilizzato: cosa che alcuni membri dell’intelligencija russa cercheranno di fare nella seconda metà dell’Ottocento, con programmi pedagogici e di alfabetizzazione.

L’esperienza decabrista fu opportunamente oscurata dal governo e dalla propaganda imperiale: i responsabili furono condannati al confino in Siberia (al quale aderirono, a volte anche stoicamente, anche le mogli e le famiglie) o alla pena capitale; in seguito alcuni degli intellettuali più liberali scelsero l’esilio – o vi furono condannati- per poter continuare la loro attività senza essere perseguiti dal governo.

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