Un antidoto al monologo della contemporaneità: Fraulein Else di Arthur Schnitzler

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Oriana Rodella, Verona –

Freulein Else è una novella del 1924 scritta da Arthur Schnitzler. Siamo in pieno impero austroungarico e lo scrittore, figlio dei suoi tempi, ambienta la vicenda della gnädige Frau proprio all’interno dello stesso contesto in cui vive e che caratterizza tutta un’epoca.

È il tempo di Vienna, capitale di un regno immenso con più di cinquanta milioni di abitanti, melting pot di popoli, culture, lingue, religioni che convivono gomito a gomito. È il tempo della Vienna “gaudente che balla su un vulcano” pronto a sputare lava incandescente perché lacerata tra innumerevoli volontà e intenti politici, economici, egemonici. È il tempo della Vienna fin de siècle, la cosiddetta “prigione dei popoli” in cui a pochi è riconosciuto molto e a molti, poco o nulla, nemmeno il nome. È la Vienna che passa il tempo ad alzare palazzoni sulla Ringstraße, è la Vienna che si entusiasma per i divertimenti serali dei finesettimana, è la Vienna che ascolta musica leggera e balla il valzer a mo’ di rituale per scongiurare i sintomi di una crisi latente e dilaniante. Ma è anche e soprattutto la Jung Wien, la giovane Vienna, quella di un movimento intestino che non ne può più di una cultura da museo, “di valori morali minimi ricoperti di massimi valori estetici”, che considera l’ornamento uno sfregio, che scopre disincantato il velo di Maja di una società bipolare, che soffre l’urgenza di annunciare a gran voce che il re è nudo, che vuole e deve seccedere dalla superficie di edifici dorati e che si innalza sopra i muri che separano inneggiando con gioia i versi di Schiller sulle note di Beethoven:

 

Abbracciatevi moltitudini!
Questo bacio al mondo intero
sopra il cielo stellato
deve abitare un padre affettuoso (…)

 

È questa la Vienna  di Schnitzler, rappresentante della borghesia ebraica, figlio di medico e medico pure lui, oltre che scrittore. È questo il contesto in cui ambienta tutti i suoi personaggi che scientificamente scruta e psicanalizza tanto che Freud dice, riferendosi all’autore, di custodire una sorta di timore del sosia poiché Schnitzler sbuccia ogni carattere, lo ama e lo indaga nel profondo rivelando tutte le fragilità e le contraddizioni che l’essere umano tenta quotidianamente di dissimulare.

Else interpretata da Elisabeth Bergner nel primo film ispirato al romanzo, uscito nelle sale nel 1929, per la regia di Paul Czinner. L’opera di Schnitzler è stata oggetto di molti adattamenti cinematografici, da quello del 1970 (di Yvonne Lex), all’ultimo del 2013 (di Anna Martinetz)

Else, è una di loro, una giovane altoborghese nel pieno dei suoi diciannove anni che va in vacanza dalla zia a San Martino di Castrozza e improvvisamente le viene recapitato un Expressbrief – un telegramma – con il quale i genitori la pregano di salvare il padre dalla rovina economica. Else è costretta suo malgrado a rivolgersi a una vecchia conoscenza, un mercante d’arte ospite proprio del suo stesso albergo che le promette la somma di denaro richiesta a patto però che la ragazza si faccia ammirare nuda davanti a lui. Else si trova così di fronte a un conflitto insanabile che la porterà al suicidio. La giovane libera un flusso di coscienza all’interno del quale sono condensate tutte le azioni che compie, tutto quello che pensa e tutto ciò che dice ad altri interlocutori senza soluzione di continuità. Schnitzler ci butta a capofitto nella testa di Else in un andirivieni di piani in cui il punto di vista cambia incessantemente e noi rimaniamo disorientati del tutto.

Perché la storia di Else? La vicenda di Else è una storia perfetta perché, a sentirla ora, non suona affatto nuova. È un classico. Ci dice, ieri, esattamente ciò di cui abbiamo bisogno ora, domani mattina, ci aiuta a comprendere la nostra realtà ancor meglio di come potremmo fare noi perché non è intrisa di particolare, è libera dal pregiudizio e non si riferisce a nulla e a nessuno di contingente. Eppure parla di noi. Adesso. Else monologa da sola e tocca corde e tematiche che ci parlano attraversando la storia dell’umanità.

 

 Ognuno di noi ha timore degli altri, ognun di noi è solo.

 

Oppure:

 

A cosa mi servono le mie splendide gambe? Sarò costretta a vendermi prima o poi: sono loro che mi hanno educata così.

 

E ancora:

 

Siete stati tutti voi […] che mi avete spinto a questo, la colpa di quello che sono è vostra […]. Una carezza distratta quando si è tanto belline, […] poi ti mandano a scuola, […] e a tavola impari ad ascoltare tanti bei discorsi. Ma di ciò che si agita in me, dell’ansia che mi divora, vi siete mai preoccupati?

 

Frasi come queste non ci suonano così distanti.

Else lotta da sola contro la richiesta dei genitori che, contrariamente a lei, esprimono con forza i loro valori, le loro parole e i loro messaggi. I loro credo sono chiari e forti ed Else rispetto ad essi si trova sconfitta: non riesce ad accettarli, non si confronta con nessuno e si sente persa del tutto.

Arthur Schnitzler

Else è indispensabile oggi per raccontarci ancora ciò di cui abbiamo bisogno urgentemente perché quello che ci manca ora non sono di certo dati, informazioni, notifiche, messaggi, post. Quello di cui abbiamo davvero bisogno oggi è che tutti questi dati, informazioni, notifiche, messaggi, post, acquistino un senso profondo e per fare questo essi devono necessariamente far parte di un’autentica comunicazione. Mitteilen, dicono i tedeschi per esprimere il verbo “comunicare”, un passaggio di informazioni che ha in sé teilen, un taglio, una selezione, una scelta di esperienza, sapere, conoscenza ed empatia che vanno vissute insieme – mit sta per “con”- vanno con-divise quindi. Noi abbiamo bisogno di una narrazione, di storie, di dialoghi. Di confronti veri, che creino un dramma – dal greco drama che sta per “azione”- un movimento reale verso l’altro.

Lo smarrimento di Else non è altro che il nostro disorientamento, quello di chi nonostante i dati, le informazioni, le notifiche, i messaggi, i post, è lasciato a se stesso e al più straziante dei monologhi, non è altro che il nostro sconcerto, quello di chi non può accettare una realtà assente, che parla parole inconsistenti perché prive di un ritorno narrativo, altro non è quello di Else che il nostro disincanto, la nostra sfiducia, quella di chi vive un soliloquio assordante in cui tutti quei i dati, informazioni, notifiche, messaggi, post non sono frutto di uno scambio reale perché esso presupporrebbe un legame vero e quindi un dialogo – dal greco dià, attraverso e léghein, dire, raccogliere, unire insieme – fatto di soggetti che si relazionano, si scoprono, che creano attraverso l’unione che ha in origine un movimento verso l’altro e che deriva a sua volta da un taglio, da una scelta consapevole.

 

Hai una figlia eccezionalmente dotata papà […] farò una colletta, girerò col piattino. Perché solo Herr von Dorsday dovrebbe pagare? Che ingiustizia! […] sarà un piacere effimero il vostro, mi rivestirò subito. Dovrei provare vergogna di voi?

 

Una scena del più recente adattamento cinematografico del romanzo, con la regia di Anna Martinetz (2013)

Else sa esattamente quello che deve fare, perché glielo hanno detto i suoi genitori. Quello che davvero la tormenta e che la rende per questo davvero vicina a noi, coetanea, presente, è se quello che dovrà inevitabilmente fare non la cambierà in qualche modo, al punto tale da non riconoscersi più nemmeno lei. L’interrogativo, l’equivoco, l’essere o non essere di Else sta tutto qui dentro. È questo il quesito della contemporaneità. La domanda di Else riguarda l’assunzione di responsabilità di ognuno di noi, ha a che fare con quello che ogni individuo è e può fare rispetto al mondo. E quello che noi abbiamo il dovere di replicare oggi sta nell’insinuare quantomeno il dubbio, nel chiederci se il confronto, il dià-lego, il drama avrebbero potuto salvare Else.

Essere o non essere? È più nobile sopportare gli oltraggi o prender le armi contro un mare di tribolazioni? Morire o dormire? Sognare forse!

Forse. È questo che ci blocca: che i sogni, con le nostre storie, sopravvivano.

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