Paolo Perantoni – Verona
Scritto nel 1973, Figlio di Dio è il terzo romanzo di Cormac McCarthy. Qui inizia a trapelare la cruda violenza – sia narrativa che di penna – con cui l’autore del Rhode Island si farà conoscere più tardi con capolavori come Meridiano di sangue (1985), Non è un paese per vecchi (2005) e La strada (2006), questi ultimi successi anche sul grande schermo.
Il racconto segue la vita di Lester Ballard, un giovane balordo completamente disadattato, dal momento in cui perde la fattoria e si trova costretto a vivere come un senzatetto prima in una baracca di caccia e poi nientemeno che in alcune caverne.
Quella che ci racconta McCarthy è una lenta ma inesorabile discesa negli inferi della mente e del corpo del giovane Ballard, sempre più isolato dalla comunità e dal vivere “civile”.
Dopo una fortunosa vicenda con una prostituta, Ballard inizia da un lato a ritenersi intoccabile dalla legge, e dall’altro cresce in lui un morboso desiderio sessuale indissolubilmente legato alla morte.
Si dipana così una spirale di morte, violenza e necrofilia a cui gli abitanti di Sevier (Tennessee) non sono per nulla abituati, così come noi lettori.
Seguendo passo a passo le imprese di Ballard in questa danza macabra, tra omicidi, stupri, incendi e necrofilia, rimaniamo impressionati soprattutto dalla violenza.
Una violenza che sia gli uomini che la natura sono incapaci di arrestare ma soprattutto di capire: non a caso il romanzo si chiude in un ospedale psichiatrico.
Questa violenza viene descritta con uno stile lucido e pacato – merito anche dell’ottima traduzione di Raul Montanari – che è troppa da sopportare e comprendere, essa infatti finisce per colpire il lettore come un pugno nello stomaco, come solo un autore del calibro di McCarthy riesce a fare.
Cormac McCarthy
Einaudi, Torino, 2010