Quando l’Europa disse addio alla Terra Santa: Acri 1291. La caduta degli stati crociati

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Giuseppe Catterin, Venezia –

Il termine “crociata” si è abbondantemente diffuso nel linguaggio comune. Ad uno sguardo più approfondito, nel quotidiano l’utilizzo della parola esula dalla sua origine primaria, dal suo significato storico: con esso, in fin dei conti, siamo abituati ad indicare dei movimenti collettivi, caratterizzati da una vasta partecipazione, dalle forti connotazioni morali e ideologiche.

Con crociata, insomma, possiamo tranquillamente spaziare dalle campagne di lotta al fumo ai progetti di sensibilizzazione ad un maggiore decoro pubblico, per non tacere le azioni, connotate dalla loro forte decisione politica – sennò, non sarebbero “crociate” – , contro fenomeni più o meno vasti di criminalità.

Al di là delle considerazioni di carattere semantico, la natura delle crociate, nell’accezione squisitamente “storica” del termine, è spesso relegata a poche pagine di sussidiario. Il più delle volte, e ad essere fortunati, sono a loro destinate una manciata di facciate: reductio ad unum di un fenomeno che, al di là della non indifferente espansione sul piano temporale, oltre ai templari – che continuano ad affascinare l’immaginario, alimentando un filone mitico lungi dal definirsi completamente esaurito –, può vantare una profondità ben più vasta, annoverare tematiche decisamente più complesse.

La storia di questo «guazzabuglio mediorientale», come ha modo di definirlo icasticamente Antonio Musarra nel suo Acri 1291. La caduta degli stati crociati (Il Mulino, 2017), si merita tutto salvo il venir imbrigliata entro gli angusti spazi di un breve saggio riassuntivo.

 

 

Lo sguardo dell’autore si concentra sull’analisi degli ultimi lembi di Outremer, frutto delle conquiste di quel Goffredo di Buglione, paradigma del fervido paladino cristiano a servizio della Fede, che ebbe tanta fortuna presso la letteratura occidentale.

Questo caleidoscopio di popoli, punto di convergenza delle principali religioni monoteistiche del Globo, improbabile connubio tra sacro e profano, era retto da una monarchia il cui potere, a differenza di quanto si possa immaginare da un sovrano medievale, era molto labile, se non addirittura nominale, tutto fuorché saldo.

L’autorità regia doveva, infatti, tenere a bada le forze centrifughe dei Poulaines, la riottosa nobiltà franca dell’Outremer, considerare la crescente autonomia degli ordini monastici – soprattutto nel campo che definiremmo di “politica estera” – nonché tenere in considerazione la preminenza, prima ancora economica che politica, di Genova, Pisa e Venezia, affannosamente protese a ritagliarsi una presenza nel lucroso circuito commerciale del bacino orientale del Mediterraneo.

In realtà, sarebbe riduttivo definire l’opera di Musarra solamente come passo lungo il percorso d’edificazione di una storiografia circa il Regno di Gerusalemme, seppur limitata alla narrazione degli ultimi e convulsi aneliti di vita della sua ultima capitale. Insomma, se si cerca un volume che si prefigga unicamente l’obiettivo di spiegare le problematiche connesse alla successione di una corona pesante come quella gerosolimitana, il libro Musarra potrà risultare insufficiente a sanare questo genere di curiosità.

 

 

Le pagine del libro, frutto di un vaglio approfondito di fonti narrative latine e arabe, si prefigurano piuttosto come un viaggio alla riscoperta dell’assetto geopolitico del Medioriente del Duecento.
Le parole si tramutano in passi, le pagine in mappe che conducono il lettore tra il brulicare del porto di Acri, le cui acque divennero il campo di battaglia che vide contrapporsi le principali città marinare italiane dell’epoca, le animate viuzze della città vecchia, animate dalla babele di lingue di abitanti provenienti dalle più disparate coordinate geografiche, passando per le possenti torri, fatte edificare da quel Luigi IX che legò indissolubilmente la sua vita alle – sfortunate – crociate personalmente condotte e che contenevano una pluralità di comunità che, nella migliore delle ipotesi, sovente si guardavano in cagnesco: Genovesi e Veneziani iniziarono proprio qui, in questo lembo di occidente trapiantato in Medioriente, la guerra che contrappose le due città attraverso tutto il Mediterraneo.

Questo itinerario, senza mai abbandonare l’occhio di riguardo destinato alle vicende acritane, spazia oltre, andando ad abbracciare un comprensorio territoriale più vasto. E non potrebbe essere diversamente, vista la moltitudine di soggetti che animarono un’area geografica proprio allora mossa da una serie di sconvolgimenti politici destinati a disegnarne l’assetto politico dei secoli a venire.

L’autore delinea, pertanto, una rotta e, al contempo, traccia i mutamenti di “breve” e “lungo” periodo di questo caldo, a tratti rovente, trait d’union tra le ricche pianure mesopotamiche e la fertile valle del Nilo, fucina di civiltà che proprio allora diventava testimone della crisi della dinastia Ayyūbide, naufragata nelle sue interne rivalità ad appena un secolo delle sua fondazione ad opera di quel Saladino, che i codici miniati occidentali non esitarono a raffigurare loricato come un qualsiasi miles occidentale.

 

 

Dalle ceneri della dinastia d’origine curda, emerse l’Egitto mamelucco, destinato a scrivere importanti pagine nella storia della regione, capace di resistere ai pericoli provenienti da quella avanzata mongola che proprio presso Acri aveva destato nuove speranze, ravvivato fiducie di future alleanze soprattutto di fronte al sordo silenzio di un Occidente non più interessato alle vicende oltremarine.

Perché la caduta di Acri, in fin dei conti, avvenne quasi in sordina, effetto di una crisi nel pensiero e nella prassi politico – diplomatica europea che nelle crociate non intravedeva più le motivazioni sufficienti per organizzare una nuova peregrinatio armata, capace, in precedenza, di infiammare abbondantemente le menti e gli spiriti di numerosi europei: persa la loro forte valenza ideologica, il fenomeno, prima di ritrovare nuova linfa presso le popolazioni ancora pagane dell’Europa nord – orientale, divenne un labile ricordo, da cui trarre, tutt’al più, alcuni exempla utili all’edificazione di modelli nella letteratura tattico – strategica o addirittura nella manualistica politologica.

Personalmente, tuttavia, il pregio del libro di Musarra non finisce qui. Ricollegandomi al discorso con cui ho voluto iniziare la seguente recensione, il florido impianto mitico legato al fenomeno delle crociate può annoverare alcuni capitoli ancora lontani dalla loro fine.

Tra di essi spicca certamente il concetto di scontro, ancora prima che tra civiltà, di religioni che, tradotto nell’immaginario comune, sfocia nell’idea di una guerra endemica, dalle sembianze di perenne conflitto a bassa intensità. Lungo i capitoli del volume, tuttavia, il lettore avrà modo di comprendere la profonda mutevolezza degli schieramenti politico – diplomatici dello scenario mediorientale. Gioco delle alleanze che, più di una volta, vide il crearsi di patti tra Europei e Mussulmani, Crociati e Mamelucchi, contro …. altri Cristiani, anch’essi alleati ad altri seguaci di Maometto.

 

 

Qual è, dunque, il vero protagonista? La risposta, scontata, potrebbe pervenire da una rapida lettura del titolo stesso del libro. Personalmente, tuttavia, nel divorare le pagine, si è fatta in me la convinzione di cercarlo altrove, soprattutto tra i comprimari di questa narrazione di popoli, vicende e storie. Sono indotto, forse a torto, ma profondamente convinto, a cercare il protagonista tra la spuma delle onde, capace di celare network ben più profondi e intensi, del Lago di braudeliana memoria: il Mediterraneo.