L’Io a brandelli: “Le voci della sera” di Natalia Ginzburg

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Caterina Mongardini, Venezia –

Le voci della sera mi è stato donato. E a voce, dapprima, solo annunciato tramite la semplice formula: “Poi te lo porto”. Una frase essenziale, retorica in apparenza, capace però di accendere quel guizzo birbante e affettuoso: la curiosità. Finalmente, dopo qualche giorno, è giunto e con lui le voci, con la loro morsa da nenia provinciale, fitte e indistinte come il rumore dell’acqua sull’acciottolato eroso.

 

 

Sin dalla sua nascita, l’annuncio di questo libro ha preceduto il libro stesso. Natalia Ginzburg nel marzo 1961 scrisse da Londra a Luciano Foà, segretario generale di Einaudi, a proposito di un parere critico su di un testo che era stato sottoposto all’attenzione della casa editrice: nella lettera, scarna, stronca senza possibilità d’appello il romanzo che le avevano inviato e dichiara: “Io ora scrivo un romanzo e ve lo manderò da leggere appena finito”.

Il 12 aprile 1961, in un’altra lettera a Foà, Natalia scrive:

 

“Caro Luciano, ho finito il romanzo proprio sta mattina, l’ho dato da battere a macchina, e penserei di mandarvelo”.

 

Infine si raccomanda di farlo avere al suo caro amico Italo Calvino, insistendo che egli lo legga e gliene scriva.

In quegli estremi temporali, 20 marzo-12 Aprile 1961, posti in calce alla fine del romanzo si concentrano tutti gli sforzi londinesi della Ginzburg: l’energia e la certezza di uno slancio creativo vivo, impellente; la rapidità di un demiurgo che forgia personaggi nuovi e al contempo reminiscenziali, a cui si affeziona, ma dai quali non dipende, cogliendoli nella loro fredda vita borghese; lei stessa ha la consapevolezza di aver scritto qualcosa di nuovo che possa concorrere a testa alta, sebbene in extremis, al prestigioso Premio Strega.

 

Natalia con Leone Ginzburg. Dalla loro unione nacque, primogenito, Carlo, tra i più grandi storici italiani viventi

Allo stesso tempo però, quelle date scritte in calce, somigliano a quelle apposte sulle lapidi fredde e mute dei sepolcri, ornamenti all’epitaffio di quella vita borghese provinciale del secondo dopoguerra che, con le sue convenienze e regole, tutto ottunde nei sensi e nelle anime. La breve vita di questo slancio produttivo inserisce la Ginzburg nel panorama letterario del 1960-61 in cui, secondo Elio Vittorini, sono due gli autori che spiccano per quella “dolce contestazione” della famiglia e dei rapporti interpersonali: Moravia – con La Noia – e, non a caso, la Ginzburg.

Inoltre è proprio quel paesaggio “piemontese da far piangere”, citando Calvino, che aveva visto le figure travagliate di Pavese muoversi in uno spazio dolcemente collinare, diviso tra campagne e città, ad assistere alla destrutturazione del personaggio introspettivo: questo processo, corollario del titolo, è annunciato e portato avanti dalla struttura dell’apparato dialogico, costruita sull’uso anaforico e demolitore dei “disse”. Il “disse” funge da mina anti-coscienza: ogni sua ripetizione allontana il personaggio da una riflessione su se stesso fermando l’attenzione al dato riportato dalle “voci”, da tutte quelle chiacchiere che alla sera compendiano il giorno trascorso davanti al caminetto nel salotto arredato dalle mani annoiate delle padrone di casa. Anche Pasolini, che nel ’61 partecipò al Premio Chianciano con la Ginzburg, scrisse che solo La Capria – vincitore dello Strega – e la Ginzburg stessa sapevano raccontare come pochi la vita quotidiana borghese: tematica che, di lì a pochi anni, svilupperà anche lui con il film-romanzo Teorema.

In relazione alle manifestazioni di vita borghese che stillano dalle pagine de Le Voci della Sera, è da sottolineare come proprio Moravia e Vittorini avrebbero dovuto presentarlo al Premio Strega, salvo poi – all’ultimo momento – lasciare quello spazio a Calvino, che subentrò ai due: sicuramente è una lettura arbitraria, non senza suggestione, pensare che questa sostituzione abbia come precedente la volontà di Natalia di sapere assolutamente cosa lo scrittore sanremese pensasse del suo scritto.

Natalia Ginzburg e Italo Calvino

Natalia Ginzburg scrisse a Italo Calvino subito dopo la fine della stesura e la comunicazione d’ufficio all’Einaudi:

 

“Carissimo Calvino, ho spedito stamattina il mio racconto, lì da voi. Se lo leggi, e me ne dici qualcosa, ti sarò riconoscente. Dimmi anche se ti viene in testa un titolo migliore. […] leggilo con amore, e dimmi qualche cosa. Ti saluto con affetto, Natalia”.

 

La lettera di risposta dell’amico scrittore è bellissima, quasi un saggio critico – perché ligio ad un dovere d’analisi ponderato – ma copioso di affetto e ammirazione per una scrittura che ormai non poteva essere di nessun altro se non della Ginzburg: la consapevolezza delle relazioni profonde che intrecciano una famiglia nella complessa moltitudine delle parentele. Due anni dopo Le Voci della Sera, uscirà Lessico Famigliare – nuovo slancio creativo della scrittrice con il quale vincerà il Premio Strega – la storia della sua famiglia a cui non bisogna chiedere “nulla di più, né di meno, di quello che un romanzo può dare”.

Severa con se stessa nel Lessico Familiare, sorprendiamo la Ginzburg attendere alla sorte dei suoi personaggi ne Le Voci. Per farlo – come facendo capolino da dietro un angolo – annuncia al lettore anticipando la prima pagina, addirittura in epigrafe, che essi non sono mai vissuti: “E mi dispiace dirlo, avendoli amati come fossero veri”. Come il libro che si è manifestato ancor prima della sua fisicità, delle sue pagine bianche inchiostrate uniformemente dalle stampe, anche i personaggi sono annunciati nella loro forma d’invenzione aderente alla realtà. Potremmo dire che essi si presentino come una sorta di “manifestazioni di realtà”: tutti diversi, nelle loro caratteristiche, movenze e caratteri, eppure uguali nella loro creazione.

Pier Paolo Pasolini, Natalia Ginzburg e Giorgio Bassani

Nel momento stesso in cui, però, le voci della sera li narrano, li raccontano, se ne appropriano e li annullano sotto la coltre polverosa del loro pettegolezzo, essi diventano “altro”: potremmo dire che siano una “creazione di manifestazioni”, creature inventate che – scontornate dal “disse-anti-coscienza” – assumono forme nuove, plasmate dalle “voci” interne alla narrazione. Ed è qui che “la morsa di assurdità e dolore” di cui parla Calvino cinge lo stomaco del lettore; è qui che egli si accorge di poter scegliere per quale delle creazioni ginzburghiane soffrire, perché non ci sono buoni e cattivi, vittime e carnefici, fascisti e comunisti. Ci sono delle epifanie di vita che si riducono all’osso nel momento stesso in cui ne diciamo qualcosa: esse non possono ribellarsi se non ritirandosi dalla realtà e dalle convenzioni del reale, come fa Tommasino – uno dei più complessi personaggi del romanzo – rifiutando un matrimonio senza amore accettato per convenzione e non per scelta.

N. Ginzburg
Le voci della sera
Torino, Einaudi, 1961 (2015)
pp. 154

 

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