Come ti invento la natura: l’incredibile vita di Alexander von Humboldt

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Paolo Perantoni, Verona –

Chimborazo, 23 giugno 1802. Da ormai tre anni il naturalista Alexander von Humboldt si trova in Sudamerica, esplorando zone in cui pochissimi uomini europei avevano mai messo piede. Era il suo sogno, e ora, sulle Ande ecuadoriane, lo stava realizzando.

All’epoca della scalata del Chimborazo, allora ritenuta la montagna più alta del mondo, Alexander aveva trentadue anni e una grande passione per la natura e per la strumentazione scientifica.

In America Latina si era portato parecchi strumenti dall’Europa – scialacquò buona parte dell’eredità lasciatagli della madre per pagarsi il non plus ultra scientifico per l’epoca – aveva con sé un barometro, un termometro, un sestante, un orizzonte artificiale e un cosiddetto “cianometro”, uno strumento di sua invenzione che misurava l’azzurrità del cielo e che aveva inaugurato nel 1789 sulle Alpi svizzere.

In ogni sua spedizione Alexander von Humboldt annotava ogni cosa che vedeva, spinto da una grandissima curiosità e da un’innata capacità mnemonica che gli permetteva di compiere analogie con animali, piante, rocce e quant’altro avesse già visto in precedenza e così fece anche in questa.

Mentre saliva, attraverso la nebbia che ricopriva il monte, vedeva ed annotava la specie viventi  che scomparivano a mano a mano che l’altezza aumentava, poi, finalmente, a quota 5917,16 metri la nebbia svanì e gli apparve la cima del Chimborazo incappucciata di neve.

 

 

“Una vista magnifica”, annoterà nel suo diario, ma terribile allo stesso tempo: un crepaccio gli impediva la via verso la conquista della vetta, ma non il record di scalata mantenuto per 30 anni.

Lì a quasi seimila metri d’altezza, respirando a fatica l’aria rarefatta, in un punto dove mai uomo prima di allora aveva messo piede, Alexander von Humboldt ebbe la sua illuminazione. In quel preciso istante, racconterà poi, ebbe l’intuizione che la terra fosse un unico grande essere vivente – in cui tutto era connesso – rivoluzionando totalmente il modo in cui la natura era stata intesa fino a quel momento.

Quel viaggio durato cinque anni e dove, con il fedele amico Aimé Bonpland e il portatore factotum Carlos Montúfar, percorse quasi 9.650 chilometri, lo cambiò per sempre e le sue intuizioni lo trasformarono velocemente in un punto di riferimento per la comunità scientifica.

Questo fu merito soprattutto della sua capacità dialettica e di scrittore: oltre alle sue opere e ai suoi diari, scrisse oltre 50 mila lettere, perché era fortemente convinto che la conoscenza andasse condivisa, scambiata e messa a disposizione di tutti; un grande e magnifico esempio di “civiltà delle lettere” che scosse l’intera comunità scientifica preparando il terreno per la successiva rivoluzione darwiniana.

 

I libri, i diari, le lettere di Humboldt rivelano un pensatore lungimirante, molto più avanti della sua epoca. Inventò le isoterme – le linee della temperatura e della pressione che si vedono sulle odierne mappe climatiche – e scoprì l’equatore magnetico. Sua fu l’idea di zone climatiche e di vegetazione che si snodavano attraverso il globo. Ma soprattutto, ed è la cosa più importante, rivoluzionò il nostro modo di concepire il mondo naturale, trovando connessioni ovunque: niente, neanche il più minuscolo degli organismi poteva essere visto da solo. “In questa grande catena di cause ed effetti”, diceva, “non c’è un sol fatto che possa essere considerato isolatamente”. Con questa intuizione aveva inventato la rete della vita, il concetto di natura che noi oggi conosciamo.

 

Da quel momento sulla vetta del Chimborazo in poi, Alexander von Humboldt dedicò la propria vita alla ricerca e ai viaggi di scoperta, che lo porteranno, oltre a scoprire centinaia di nuove specie floreali, animali e minerali, a definire in maniera sempre più certa la propria teoria di natura come forza globale, che possedeva zone climatiche ben precise e che travalicavano i continenti: erano quelle zone che oggi chiamiamo ecosistemi.

 

Era una rete vitale incessantemente percorsa da lotte sanguinose, un’idea ben diversa dalla concezione prevalente della natura come macchina ben oliata in cui ogni animale e ogni pianta hanno un posto assegnato da un’entità divina.

 

Allo stesso modo, sarà il primo a capire come questi ecosistemi siano fragili e a formulare teorie sui mutamenti climatici: già a partire dalla sua osservazione del lago Valencia – avvenuta durante la sua permanenza in Venezuela – infatti, accuserà l’uomo di aver prodotto un mutamento climatico dai risultati dannosi per le generazioni future.

 

 

Nelle sue affollate – e completamente gratuite – lectures presso l’Università di Berlino, Alexander von Humboldt aprirà le porte della scienza a un numero sempre più vasto di persone, introducendo il concetto di democratizzazione del sapere.

Nella sua opera più importante, Il cosmo (1845-62) – opera monumentale in cinque volumi redatti con stile letterario-divulgativo – descrisse la terra come “un insieme naturale animato e mosso da forze interne” anticipando così le idee di James Lovelock di 150 anni.

Egli privilegiò il nome di Kosmos, dopo aver scartato quello di Gäa/Gaia, ovvero il termine che lo scienziato inglese Lovelock sceglierà nel 1979 per dare voce alla sua teoria olistica di spiegazione della natura e che tanta fortuna ha trovato nella comunità scientifica contemporanea (Gaia. A New Look at Life on Earth).

Una vita incredibile, quella di Alexander von Humboldt (1769-1859), magistralmente raccontata dalla storica Andrea Wulf in L’invenzione della natura (2017) e pubblicata in Italia da Luiss University Press in una pregevole edizione di 517 pagine con illustrazioni e foto a colori, che le è valso anche il primo posto al Premio Acqui Storia 2017 per la sezione storico-divulgativa.

 

 

La storica anglo-tedesca ha il merito non comune, infatti, di coniugare la rigorosa ricerca storica con uno stile narrativo da scrittore puro (merito anche dell’ottima traduzione di Lapo Berti) che l’avvicina a storiche del calibro di Linda Colley e Arlette Farge.

Le pagine scorrono velocissime nella lettura – pare di leggere Ian Fleming e le avventure del suo James Bond, anziché un libro di storia – ma questo è merito, prima ancora della Wulf, dello straordinario personaggio di Alexander von Humboldt, un eroe della scienza che curiosamente e ingiustamente è stato dimenticato.

Lui, ciambellano del kaiser Federico Guglielmo III, amico intimo di Goethe, che aveva conosciuto Thomas Jefferson e Simón Bolívar, che ispirò Foglie d’erba di Walt Whittman e Walden di Henry David Thoreau e che soprattutto era l’eroe indiscusso di Charles Darwin, fu probabilmente eclissato da quest’ultimo nella fortuna e nella fama; ma oggi può essere giustamente riscoperto da quest’opera, che è consigliata a chiunque voglia guardare la natura con gli occhi appassionati di chi, quella natura, l’ha “inventata”.

Andrea Wulf
L’invenzione della natura
Luiss University Press, Roma, 2017
pp. 517