Quando la letteratura fluttua nell’”Invisibile” spazio tra scrittura e lettore: The Road, di Cormac McCarthy

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Filippo Ferraresi, Padova –

Il mondo ridotto a un brandello di cenere, senza un motivo preciso. Un uomo e suo figlio. La fame e tutto quel che è rimasto sul piatto della terra trasformato in una minaccia. Gli occhi di un uomo che guardano quella che probabilmente è l’ultima cosa pura rimasta a respirare e a fare domande sul mondo che veniva prima, sul mondo che verrà. Lo guarda, si maledice, maledice Dio, e non smetterà un solo secondo di proteggerlo, suo figlio. Ma credo che solo Cormac McCarthy ci possa dare un’idea più precisa:

 

“Di lei ricordava tutto tranne il profumo. Seduto in un teatro con lei accanto che si protendeva per meglio sentire la musica. Arabeschi dorati e candelabri a muro e le lunghe pieghe del sipario come colonne ai lati del palco. Lei teneva la sua mano in grembo e lui sentiva l’orlo delle calze sotto la stoffa leggera del vestito estivo. Fermate quest’immagine. E adesso fate venire giù tutto il buio e tutto il freddo del mondo e andate all’inferno.”

 

Sì. La trama di The Road è questa. “Tutto il buio e il freddo del mondo e andate all’inferno”. McCarthy ci lascia a seguire la vicenda di un uomo e di suo figlio mentre tentano di andare a sud, alla ricerca di un posto dove non avere più freddo o averne almeno un po’ di meno, alla ricerca di cibo, di speranza, di qualcosa.

Mentre si muoveranno lungo il Paese ne vivranno molte, per la maggior parte terribili oltre l’immaginabile, e si diranno parole che ci rimarranno sulla pelle senza saperne il motivo preciso. Non ci sono capitoli, l’intero libro è fatto di frammenti, ricordi, sogni, piccoli eventi; il calare del sole, i risvegli in notti gelate, quelli che probabilmente sono gli stessi riferimenti del tempo che hanno i protagonisti.

 

 

Potrei stare qui a parlarvi a lungo della trama, dello sviluppo dei personaggi, dei colpi di scena e appiccicare superlativi e giudizi vari, ma c’è qualcosa di più preciso che mi interessa cogliere e, forse, anche a voi.

Nonostante tutto quello che succede c’è una cosa straordinaria che va ben oltre al mondo distopico creato da Cormac, ed è la capacità di sentirlo fin dentro le vene, quel mondo. La scrittura di McCarthy è scarna, essenziale, a volte anche troppo. Per dire, c’è un punto verso la fine del libro in cui liquida uno degli snodi più importanti di tutta la trama in una frase, e per l’esattezza lo fa in quattro parole.

Non ve le riporto perché, insomma, a farlo mi sentirei un grande infame in quanto contiene uno spoiler grande abbastanza da accendere le irascibilità più sopite. Per offrirvi un esempio concreto del suo modo di ridurre gli eventi all’essenziale, invece, vi mostro come in un punto in mezzo al libro racconta come è iniziato tutto:

 

“Gli orologi si fermarono all’una e diciassette. Una lunga lama di luce e poi una serie di scosse profonde. Lui si alzò e andò alla finestra. Cosa c’è?, disse lei. Lui non rispose. Andò in bagno a premere l’interruttore ma la corrente era già andata via. Un debole bagliore rosato alla finestra. Lui si chinò su un ginocchio ed alzò la levetta per bloccare lo scarico della vasca e aprì tutti e due i rubinetti. Lei era ferma sulla porta in camicia da notte, aggrappata allo stipite, una mano a sostenere il pancione.

Cosa c’è? Che succede?

Non lo so.

Perché ti fai il bagno?

Non mi faccio il bagno.”

 

Nel mondo post-apocalittico di McCarthy la trama va a ridursi a semplice strumento. Ciò che conta è ad un altro livello: l’Invisibile. Dietro al suono delle parole, dietro ai gesti dei personaggi, in quello spazio di mezzo tra parole e lettore. Dentro quei dialoghi semplicissimi tra padre e figlio, nascosti tra le pieghe delle pagine, ci sono mondi e realtà differenti, ci sono tutte le cose che non si possono dire e che nemmeno riusciamo a pensare.

Lo percepiamo solamente, l’Invisibile, la forza del non-detto, la tenerezza dello sguardo, la sensazione di qualcosa di grande che ci viene sussurrato all’orecchio. C’è qualcosa che si muove sotto le pagine, che sfiora le parole e ci fa risuonare. Là dove gli occhi non arrivano sentiamo l’amore di un padre per suo figlio, la paura di entrambi, l’amore di un figlio per il padre, tenerezze senza fine, l’ombra del tempo che si muove e sgretola tutto, la forza della vita, il terrore degli uomini.

 

 

Il segreto della letteratura è che la realtà te la restituisce intera, senza doverla spiegare tutta, restituendo il mistero. E questo McCarthy l’ha capito bene. Parole semplici, dirette, potenti, gravi, che portano con loro mondi talmente grandi da essere commoventi.

E infine c’è il bambino. Lui. Capiterà molte volte che questo bambino senta la necessità di voler aiutare coloro che trova per strada volendo condividere quel poco che ha da mangiare.

Il padre, ovviamente, glielo impedirà, sentendo di doverlo proteggere, sapendo che ogni essere umano, su quella terra, potrebbe essere una minaccia, e che donare cibo ad estranei quando non se ne trova per giorni non sia proprio una buona idea. Il bambino ogni volta si metterà a piangere. Fino a che la storia arriverà ad un punto in cui una di queste scene si riproporrà e il bambino implorerà il padre di tornare indietro ad aiutare un uomo:

 

“Che cosa vuoi fare?

Aiutarlo, papà. Voglio solo aiutarlo.

L’uomo si voltò a guardare la strada.

Papà, aveva solo fame. Adesso morirà.

Sarebbe morto comunque.

Ha tanta paura, papà.

L’uomo si accovacciò e guardò il bambino. Anche io ho paura, disse. Lo capisci? Anche io ho paura.

Il bambino non rispose. Rimase seduto lì a capo chino scosso dai singhiozzi.

Non tocca a te preoccuparti di tutto.

E il bambino disse qualcosa che l’uomo non capì. Cosa?, disse.

Il bambino alzò gli occhi, il viso sporco e bagnato. Sì, invece, disse. Tocca a me.”

 

In questo passo la voce è chiara: nel mondo si fa così, punto. Il padre insegna, il bambino deve imparare come vanno le cose. Il mondo è duro e pesante, qui si sopravvive, non c’è spazio per pensare agli altri e a sciocchezze come queste. E il bambino avrebbe potuto stare zitto, acconsentire, ingoiare le lacrime e abbassare il capo: sua padre ha parlato, colui che lo protegge e lo nutre, l’unico a cui è legato. Ma ad un certo punto la dirà con esattezza quella cosa che ci ha fatto pensare durante tutto il resto del libro: “Sì, invece, disse. Tocca a me.

 

Cormac McCharthy

 

È con questa osservazione che il bambino si prende sulle spalle tutto, pure quello che gli adulti non hanno il coraggio e la forza di prendersi, pure quello che tagliano fuori e si giustificano dicendo che “è così che si fa”. Lui se lo prende sulle spalle, il mondo, ogni vita, anche quelle vite che non riesce a vedere. – Se non lo fa nessuno, se non lo fai tu, chi altri se non Io? – È questo che il bambino sta dicendo a suo padre, a noi. E dopo quella risposta del bambino, suo padre fa l’unica cosa che un uomo assennato dovrebbe fare: gli dà retta.

Ognuno di noi lo deve proteggere, il bambino, lo deve trovare e proteggere. Perché noi siamo l’uomo e il bambino, siamo sempre davanti a quel mondo distrutto e tocca a noi scegliere che cosa essere. McCarthy lascia tutto questo nel suo Invisibile.

 

 

Sono fermamente convinto che questo libro parli della grandezza della vita, solo che per farlo ha dovuto distruggere la vita stessa. L’ultima spiaggia dell’umanità sta in un uomo che deve insegnare a suo figlio a rimanere vivo, a diventare uomo, a non perdersi in tutta quella dannazione.

L’ha dovuta distruggere l’umanità, per farcela vedere veramente dentro i gesti e le parole di un bambino, mettendo un unico puntino bianco nel nero della parete. Per dirci quanto è grande tutto quanto.

Questo è The Road.

Ma l’unico modo per poterlo capire e sentire veramente, è leggerlo.

 

Cormac McCarthy,
La Strada,
Giulio Einaudi editore, Torino, 2014
pp. 220