“Chi salva una vita salva il mondo intero”: il Ponte delle spie di Steven Spielberg, una spy story nella Germania della Guerra Fredda

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Francesco Fontana, Verona –

C’è poco da stupirsi se Steven Spielberg abbia scelto di dedicare un film ad una vicenda che, in piena guerra fredda, ha infiammato i rapporti tra Stati Uniti e Unione Sovietica. La storia, il cui epilogo è svolto sul ponte di Glienicke (conosciuto in seguito, appunto, anche come “Ponte delle spie”), è affascinante e inizia qualche anno prima di quel conclusivo scambio di prigionieri avvenuto il 10 febbraio del 1962.

È il 22 giugno del 1953 quando un paper boy riceve da un cliente residente a Brooklyn una moneta da 5 centesimi; il ragazzo percepisce però che è molto più leggera di quello che dovrebbe essere e la lascia cadere a terra. Il nichelino si apre in due, svelando un microfilm contenente un codice cifrato, che finisce in tempi brevi nelle mani dell’FBI.

 

 

Dopo quattro anni di inutili tentativi di decifrazione, la svolta: nel maggio 1957 si presenta all’ambasciata americana di Parigi l’agente Reino Hayhanen, un disertore del KGB, con l’intenzione di consegnarsi agli Stati Uniti, rifiutando l’ordine di rientrare in patria.

Grazie al suo intervento si risolve il mistero celato dietro alle cifre del codice: era un messaggio di benvenuto rivolto allo stesso agente, contenente però anche precise disposizioni. Vengono allo scoperto i superiori di Hayhanen, tra i quali Vilyam Genrikhovich Fisher, considerato la più importante spia sovietica in territorio americano.

Fisher, che viveva sotto il falso nome di Rudolf Abel, viene catturato e processato come spia russa nell’ottobre del 1957. Il 25 ottobre dello stesso anno viene giudicato colpevole e, nel mese di novembre, condannato a trent’anni di reclusione e a una multa di tremila dollari.

Nel frattempo, però, accade l’imprevedibile: nel maggio 1960 viene abbattuto in terra sovietica, precisamente a Sverdlovsk, un aereo spia americano, il Lockhead U-2, guidato dall’agente ella CIA Francis Gary Powers. Il pilota riesce a salvarsi, ma viene arrestato e processato dai russi, ottenendo una condanna a tre anni di reclusione e a sette di lavori forzati. Da questo momento si gioca una partita alla pari: iniziano le trattative tra USA e Unione Sovietica per riportare a casa i prigionieri.

 

 

Il susseguirsi dei fatti sembra già suggerire la sceneggiatura di un film, quella di una spy story d’altri tempi, ricca di fascino e suspance. Gli equilibri sono fragili e i possibili risvolti di un conflitto nucleare tra le due potenze, nel clima bollente della guerra fredda, drammatici.

Spielberg chiama il suo film proprio Il ponte delle spie (2015) e decide di avviare la narrazione al momento dell’arresto della spia sovietica Fisher (interpretato da Mark Rylance), che fino a quel giorno aveva vissuto sotto copertura a New York facendosi chiamare Rudolf Abel e svolgendo l’attività di pittore.

Il montaggio alternato della sequenza di apertura, di hitchcockiana memoria, è molto intenso e permette di entrare in medias res in modo coinvolgente e immediato, oltre che fare da assist per l’introduzione del personaggio centrale del film: l’avvocato James B. Donovan, interpretato da un Tom Hanks perfettamente calato nella parte.

Donovan, che fino a quel momento si era occupato principalmente dell’ambito assicurativo, si vede assegnata la difesa di Fisher e ne rimane stupito. Deve svolgere in modo formale il suo compito al processo, senza particolare passione nella difesa del suo assistito, chiaramente detestato dalle autorità e dal popolo americano: sembra essere questo l’atteggiamento che gli viene richiesto.

Accade l’esatto contrario e la pellicola si sofferma proprio sul rapporto che si viene a creare tra i due, con entrambi gli interpreti protagonisti di grandi prove attoriali, tanto che Mark Rylance ha vinto il premio Oscar come miglior attore non protagonista.

 

 

C’è grande umanità nell’avvocato americano, che tesse un rapporto autentico con la spia russa, entrando in contatto con la persona, non con il nemico, e facendo di tutto per salvarla. È un uomo guidato dall’etica, dalla moralità, completamente fuori dagli schemi nei quali si voleva far rientrare, che si ritrova ad essere incompreso, non solo dalle autorità americane ma anche dalla sua stessa famiglia.

Ma la difesa della spia non è l’unica incombenza per Donovan. Dopo l’arresto di Francis Gary Powers, l’avvocato si ritrova così assegnato anche il ruolo di negoziatore per gestire lo scambio tra i due prigionieri e mantenere gli equilibri tra le due superpotenze mondiali.

Da questo momento iniziano le febbrili trattative per salvare le spie e, soprattutto, le preziose informazioni segrete che possiedono. Anche nel negoziato, oltre alle grandi capacità tecniche, Donovan mostra grande sensibilità, soprattutto in relazione ad un accadimento: nel corso delle trattative viene arrestato a Berlino uno studente americano, soggetto certamente di scarso interesse per lo Stato rispetto al pilota.

 

 

Ma l’avvocato prenderà a cuore la sua sorte allo stesso modo, cercando di salvare la vita di entrambi, anzi, di tutti e tre. L’impresa gli riesce. “Chi salva una vita salva il mondo intero”, recita un verso del Talmud ripreso dallo stesso Spielberg in Schindler’s List come emblema della condotta dell’industriale tedesco.

Donovan, con le dovute proporzioni, sembra proprio animato da questa spinta, in quanto considera la vita della persona che ha di fronte importante in quanto, appunto, vita, lungi dal considerarne il valore e il peso socio-politico.

Come in tutti i grandi film, anche in questo i fatti sono lo sfondo fedele per raccontare altre storie e proporre, eventualmente, dei modelli. L’intervento dei fratelli Coen nella sceneggiatura della pellicola, ben percepibile soprattutto nell’ironia di certe sequenze, rende la narrazione molto fluida e fruibile, dando completezza ad un film di spessore, che invecchierà bene e potrà diventare un classico senza tempo.