“Il re è morto, viva il re!” L’orso: storia di un re decaduto, di Michel Pastoureau

 

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Giuseppe Catterin, Venezia –

Nell’immaginario comune, la trasposizione animale del comando, nonché gli onori derivanti da esso, sono indissolubilmente legati alla figura del leone: dall’arte alle tradizione, passando per l’araldica alla storia, al più conosciuto tra i felidi spetta l’indiscusso ruolo di re del mondo animale.

Non a caso, a molti di noi nomi quali “Mufasa” o “Simba”, oltre che a suonare noti, rievocano immediatamente, se non in maniera addirittura meccanica, la figura del re spodestato nonché quella del giovane rampollo che, strappato troppo velocemente dalla sua felice e spensierata giovinezza, spinto dalla necessità di vendicare il tradimento legato alla morte del padre, giunge a rivendicare ciò che gli spettava per diritto naturale: il titolo di re della giungla.

Sempre legato alla sfera dei cartoni, menzione particolare merita il Robin Hood del 1973. In questo cartone, reso immortale dall’utilizzo di animali antropomorfi come protagonisti – chiaro esempio di trasposizione allegorica nel mondo degli animali delle virtù umane – risulta particolarmente interessante soffermarsi brevemente sulla figura di re Riccardo e Giovanni.
I due fratelli plantageneti – proposti attingendo al ricco corredo mitico legato alle due autorità regali – vengono presentati come due leoni, figura che ricorda immediatamente il ruolo di monarca; la loro differente caratura morale, invece, viene evidenziata dallo sviluppo del crine: folto per Riccardo, inesistente per Giovanni. Se da un lato il ruolo e il rango sociale di quest’ultimo non vengono minimamente messi in discussione, ma anzi evidenziati dalla sua rappresentazione animale, la rappresentazione di una criniera sottosviluppata ottiene l’effetto contrario, e cioè quello di sminuire, a tratti deridere, una figura che, naturalmente, dovrebbe rappresentare l’acme della società animale – e, di rimando, anche quella umana.

 

La lotta tra l’orso e il leone per la conquista del trono del regno animale (dal Salterio di Ormesby)

Tralasciando momentaneamente l’ampio bagaglio consegnatoci dai cartoni animati, crescendo abbiamo imparato ad associare a tale animale ad una molteplice gamma di virtù, riscontrabili soprattutto nei modi di dire legati alla sfera del coraggio, e, in maniera forse minore, anche ad un range non indifferente di vizi.
La rappresentazione iconografica per eccellenza della figura di Eracle, ad esempio, prevede l’immancabile presenza del manto del leone di Nemea, mostro per antonomasia dotato però di una forza dai chiari tratti divini: criniera che incuteva naturalmente paura, zanne più dure del metallo, pelle coriacea, dotata di capacità di resistenza tali da renderla pressoché invulnerabile. Tratti chiaramente negativi, come ad esempio la capacità di seminare morte e distruzione, si venivano così a fondere con peculiarità – come ad esempio la forza difficile da sconfiggere – tipiche ad una sfera connotabile in maniera decisamente più positiva, tipica, forse, più di un eroe che di un mostro.
Ai cavalieri templari, invece, l’unica attività venatoria considerata lecita era la caccia al leone, intesa qui in un duplice significato: materiale, e cioè la lotta contro la presenza di tali animali nel panorama siro-palestinese di XII secolo, e soprattutto spirituale. La caccia al leone assume quindi una valenza psicosomatica di caccia al male e al peccato, seguendo l’esempio biblico di David e Sansone.

Giunti a questo punto, si profila chiaramente una visione dicotomica del leone: da una parte simbolo per antonomasia della regalità, reso evidentissimo dalle numerose monarchie (europee e non solo) che tutt’ora fregiano i propri simboli con dei leoni; dall’altra, certamente minoritaria, paradigma della ferocia e dell’aggressività. Ma è sempre stato così?

Sembrerà strano, ma l’elevazione del leone a rango di esempio paradigmatico della regalità è un processo tutto sommato molto recente, reso tuttavia necessario per poter spodestare il più antico re del mondo degli animali: l’orso.
Animale la cui goffaggine è celebrata nella sua versione più romantica, attualmente l’orso è, senz’ombra di dubbio, elevato ovunque al rango di difensore del sonno dei più piccoli, fedele compagno della loro infanzia. Eppure, per molto tempo, il ruolo di re degli animali del mondo occidentale spettò a lui. La sua caccia, ad esempio, nel mondo germanico rappresentava un importante rito di passaggio a cui ogni giovane doveva sottoporsi per potersi considerare uomo. Sovrano che, tuttavia, oltre ad incutere timore reverenziale, veniva visto, soprattutto per alcune sue caratteristiche fisiche – la possibilità di poter deambulare, sebbene per brevi tratti, usando solamente le due zampe posteriori – come lontano parente, un antenato di cui vantarsi: stando a Sassone Grammatico, la forza e la fama re danese Svend II Estridson (1047-1076) derivavano dalla sua lontana origine ursina: suo bisnonno era infatti figlio di un orso. Parentela che non destava nessun tipo di scandalo; anzi, a partire dagli anni ’80 del Duecento, pure i re di Norvegia iniziarono a vantarsi della loro lontana origine ursina. Eppure, attualmente entrambi i paesi, retti ancora da una monarchia, presentano come stemma nazionale due leoni. Come mai questo cambiamento di espressione della regalità?
E, soprattutto, perché il re degli animali ad un certo punto giunse ad una sottomissione totale, diventando docile, mansueto, a tratti annichilito nella propria natura ursina, di fronte il santo di turno? Perché il re, venerato fin dalla Preistoria, giunse a venir ritratto deriso e incatenato perfino nella bordure inferiore del celeberrimo arazzo di Bayeux? Ma, infine, cos’hanno in comune re Artù e Beowulf?

Una scena dell’arazzo di Bayeux con in basso l’orso incatenato, dal volto triste e sconsolato per la sua tragica fine, mentre un soldato è pronto ad ucciderlo.

In questo avvincente libro, L’orso: storia di un re decaduto (Einaudi, 2008), scritto con il consueto e amabilissimo stile che lo contraddistingue, Michel Pastoureau ci inviterà, attraverso dettagliate e minuziose ricostruzioni iconografiche, a riflettere sulle più intime connessioni della mente umana. Un avventuroso viaggio tra le righe della storia capace, sotto certi punti di vista, ad aiutarci a comprenderci un po’ meglio.

 

M. Pastoureau,
L’orso: storia di un re decaduto
Torino, Einaudi, 200
pp. 348