Storici di tutto il mondo unitevi! Recensione al Manifesto per la storia

Enrico Ruffino, Venezia –

Conversazioni tra colleghi che si tramutano in seminar-papers. Poi, la stesura di alcuni articoli e infine le rielaborazioni dei materiali, limati e ampliati dal confronto con altri studiosi del panorama storiografico internazionale. Un manifesto, un testo di profonda denuncia, nasce così; e si differenzia da una semplice riflessione per il suo intento prettamente politico. Il Manifesto per la Storia (Donzelli, 2016) di David Armitage e Jo Guldi, storici americani rispettivamente di Harvard e della Brown University, è infatti un testo politico che si muove da una semplice constatazione: la disciplina storica attraversa un periodo di profonda crisi.

A partire dagli anni ’90, tanto in Europa quanto negli Stati Uniti, ci si rese conto infatti che la storiografia, inseguendo sempre più le scienze sociali, aveva finito per marginalizzarsi, spostandosi sempre più sul terreno teorico, specializzando i propri linguaggi e perdendo la propria capacità di analisi. In questa crisi di ordine generale, vengono individuate dal Manifesto alcune cause di ordine più specifico: la tendenza degli storici militanti “post-sessantottini” a studiare il passato “per comprendere meglio il presente”, e quindi a ridurre la scala temporale delle proprie ricerche (short termism) e il conseguente abbandono della longue durée, determinata anche da uno scontro generazionale con gli storici cresciuti con la scuola delle Annales. Una polemica da cui non è esente la “microstoria”, contro la quale, proprio per la sua inclinazione metodologica verso il “passato breve”, i due autori non sentono di esimersi dalla critica. Occorre precisare però, come ha sottolineato Renato Camurri nella densa introduzione al pamphlet, che il riferimento non è alle radici italiane della metodologia – che vengono indirettamente salvate “come metodo per mettere alla prova problematiche di lunga durata, in reazione alle teorie totalizzanti del marxismo e della scuola delle “Annales” ( anche se, ed è sempre Camurri ad intervenire, non vengono citati né il Formaggio e i vermi di Ginzburg né l’Eredità immateriale di Levi, che di fatto aprirono e chiusero la stagione italiana della microstoria) – ma al passaggio agli storici di lingua inglese, rei di aver generato “una storiografia condizionata da scale sempre più ridotte da un uso sempre più intensivo degli archivi” producendo un paradosso secondo il quale “più un particolare complesso di documenti si presentava oscuro o difficile da comprendere, meglio era”.

Quest’ultima frase è emblematica di una polemica che gli autori pongono sull’eredità che questa prospettiva ha lasciato alle nuove leve di storici, cresciuti con l’idea che “più un insolito archivio metteva alla prova la finezza con cui lo storico si muoveva all’interno di una molteplicità di teorie contrastanti sull’identità, la sessualità, la professionalità e l’agire umano, più la sua utilizzazione dimostrava la perizia del ricercatore nel ricercare le fonti e il suo impegno nell’immergersi nella ricerca sul campo”. Un’eredità in cui vengono individuate un’altra serie di “svolte”: il linguistic turn, la cultural history, la storia transnazionale e infine quella globale. L’oggetto della polemica non è però la definizione di taluni orientamenti storiografici ma il termine stesso che li accompagna.

 

“Parlare di indirizzi di ricerca in termini di “svolte” – scrivono i due studiosi – implica che gli storici si muovano sempre lungo un percorso ad un’unica corsia, anche se la strada per giungervi è tortuosa, piena di curve e cambiamenti di direzione. Proprio per questa ragione, è opportuno sia mettere in discussione le svolte, sia essere disposti a prendere in considerazioni i ritorni, come quello della longue durée”.

 

Certo, sarebbe stata più opportuna, occorre dirlo, una più attenta analisi del concetto di lunga durata postulata, tanti anni orsono, da Fernand Braudel. Sarebbe bastata, anche solo per accenni, un’attenzione più specifica ai concetti di ciclo, sequenza ed evento con cui lo storico francese cercò di spiegarla e con i quali molti storici si sono criticamente confrontati (si veda Traverso ne La guerra civile europea), anche per le problematiche e le opportunità che essa portava in grembo. L’intento politico ha forse surclassato una riflessione più ampia ma che non tarda, però, a prendere atto dei “ritorni”.

Jo Guldi

Si tratta di un ritorno dettato dall’esigenze del proprio tempo (in primis, un mondo globalizzato) che tuttavia Armitage e Guldi poco tengono in considerazione incentrandosi piuttosto su ciò che queste esigenze hanno prodotto.  Al di fuori della disciplina storica – nell’ambito del dibattito sulla governance, sul cambiamento climatico e sulla diseguaglianza – gli autori individuano una particolare sensibilità verso il passato nell’ottica di una riflessione per il futuro. La scienza del clima, in una lunga riflessione, è arrivata infatti a cogliere nella storia le proprie conclusioni, sostenendo che per modificare il nostro atteggiamento è necessario cogliere i “meccanismi casuali” piuttosto che asservirci a forme di comportamento economico compromettenti per il futuro sia degli esseri umani sia degli altri organismi viventi. La storia è dunque divenuta un mezzo attraverso il quale non solo si sono sanate le controversie tra economisti e scienziati sulle strategie da adottare ma anche uno strumento imprescindibile per elaborare cronologie condivise relative al ruolo del fattore umano nel cambiamento climatico (non a caso il riferimento è all’antropocene di Crutzen) e alimentare un dibattito internazionale sulle strategie politiche da attuare (si coglie qui un non troppo velato riferimento alle politiche dell’amministrazione Obama ma si spera che gli autori facciano i conti con la nuova amministrazione).

David Armitage

Per quanto riguarda la riflessione sulla governance, gli autori, che peccano di troppo ottimismo, sostengono che i dati storici “possono fornire non solo strumenti utilmente imitabili, ma anche ammonimenti, in particolare sui pericolosi effetti dei monopoli tecnologici sui mercati nazionali”. Una riflessione sacrosanta che però troppo poco prende in considerazione l’uso dei social network, che in verità non vengono nemmeno mai citati, come strumenti di veicolazione di informazioni, optando piuttosto sulle potenzialità dei Big Data e sulle problematiche a loro afferenti. Si capisce bene l’intento politico del Manifesto, ovvero alimentare il dibattito su uno strumento potenzialmente utile agli Stati (sempre restando, sia chiaro, nell’ottica della “scienza umana critica”), ma anche questo punto credo non possa prescindere dai temi e dai problemi posti da questo nuovo tipo di reti sociali. Si citano, ad esempio, gli eccessi di “miti” e “storie fittizie” inserendoli, credo giustamente, come conseguenza della crisi del pensiero a breve termine. Naturalmente quando Armitage e Guldi lavoravano al Manifesto il tema, certamente presente, non era così onnipresente nel dibattito pubblico come nel momento in cui scrivo. Non sfuggirà però che, oltre all’interessante tesi a cui giungono i due studiosi, il tema della proliferazione delle fake news giunga in concomitanza con il ruolo, tutt’altro che marginale, assunto dai social network nella vita sociale. Un tema su cui riflettere.

Renato Camurri. Professore di Storia contemporanea all’Università di Verona, ha curato la prefazione all’edizione italiana

Volendo però restare nell’ambito dell’intento politico, occorre avvertire che temi preponderanti nel dibattito storico, come la public history, non sono volutamente affrontati in virtù dell’intento. Il Manifesto per la storia, con un gusto prettamente americano, non affronta il tema ben più spinoso della disciplina storica con il suo pubblico ma si concentra piuttosto sulla sua “missione pubblica”: la storiografia si configura perciò come una delle discipline “dotate della vocazione a riformare o a illuminare l’esistente”. Un pamphlet davvero stimolante anche se, molto spesso, come sostiene Camurri, “si ha l’impressione che gli autori lancino il sasso per poi ritrarre la mano”.

 

Per una riflessione sulla crisi e sul senso della storia: