L’animale femmina: storia di una riscossa tutta femminile. Un’intervista all’autrice Emanuela Canepa

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Emanuela Canepa, è romana, ha cinquant’anni, lavora come bibliotecaria presso l’Università di Padova ed è la vincitrice della XXX edizione del Premio Calvino – concorso letterario dedicato agli scrittori emergenti – con il suo primo romanzo L’animale femmina, che uscirà ad aprile 2018 per i tipi di Einaudi.
L’animale femmina, si legge nelle motivazioni della giuria, è “un romanzo compiuto, maturo, di esemplare nitidezza nella struttura e incisivo nella lingua, che mette in campo uno spiazzante gioco di seduzione senza sesso e che, pur attento alla psicologia maschile, dà in particolare voce, con stringente analitica, alla forza carsica del femminile”, la storia di una studentessa che rimane coinvolta in un rapporto ambiguo con un anziano avvocato, liberandosene poco a poco.
Ma Emanuela Canepa è anche laureata in Storia medievale, e con due maestri eccelsi: Alessandro Barbero e Chiara Frugoni. Parentesi Storiche l’ha incontrata e ne è nata una splendida conversazione che ha spaziato dalla letteratura, all’editoria fino, ovviamente, alla storia.

A cura di Caterina Mongardini ed Enrico Ruffino, Venezia –

 

Iniziamo con una domanda introduttiva, anche se a molti danno fastidio (ma noi dobbiamo anche pensare a chi legge): è sempre stato nelle tue corde scrivere? Cosa ti ha portato, poi, a decidere di partecipare al Premio Calvino?

Scrivere è sicuramente sempre stato nelle mie corde, penso di poter dire che fosse una dimensione che mi apparteneva già da piccola quando ancora non sapevo farlo. Sin da bambina avevo questa consapevolezza: non sapevo da dove arrivasse, ma ero convinta che scrivere sarebbe stato ciò che avrei fatto da grande.

Poi però, onestamente, ho cazzeggiato tanto, tra obblighi e scadenze da rispettare, progetti, ecc…; inoltre mi sono un po’ lasciata trasportare dai social che se da una parte mi hanno aiutato – perché comunque acquisti una certa disciplina nello scrivere quotidiano – dall’altra però mi ha anche fatto perdere tempo, perché l’aspetto social è divertente ma non ti porta da nessuna parte.

La costruzione narrativa di una storia è diversa dallo scrivere un post sull’articolo del giorno: però non ne sono pentita, è stato molto strutturante da un certo punto di vista. Tutto è iniziato quando mi sono trovata ad avere una storia: o meglio, avevo un personaggio, “conoscevo” perfettamente il suo passato, la famiglia da cui proveniva, il contesto e il punto di partenza. Ma non andava da nessuna parte.

Poi, del tutto casualmente, mi sono imbattuta in una scuola di scrittura – la Palomar di Rovigo diretta da Matteo Signorini – e la sua réclame era proprio: “Hai in mente una storia che non sai come portare a compimento? Vieni da noi!” Sembrava fatto proprio per me. E infatti, devo dire che mi ha dato una disciplina mentale circa la modalità di sviluppare una storia che è stata utilissima.

Tutto è cominciato da qui. I primi suggerimenti di che cosa farne di questa storia sono arrivati dallo stesso direttore della scuola, anzi è stato proprio lui a parlarmi del Calvino.

 

Noi abbiamo cercato il sito di questa scuola e abbiamo notato che è – come era prevedibile – a pagamento: come si inseriscono queste realtà, comunque valide, nel panorama letterario italiano?

Notoriamente la scrittura creativa in Italia, non si capisce perché, non è praticata nelle scuole o a livello di “istruzione pubblica”; negli Stati Uniti, ad esempio ci sono corsi universitari assolutamente dedicati a questo (pensiamo ad esempio Philip Roth che insegnava scrittura creativa).

Purtroppo pare che qui in Italia ci sia una sorta di discredito, anche un po’ snobistico, nei riguardi della scrittura creativa: da una parte, chi ne è fuori, pensa che non sia una cosa che si possa insegnare, dall’altra l’Università (come istituzione) non ritiene sia abbastanza “scientifica” da poter essere inserita nei corsi di studio.

È un gran peccato: e questo lascia il campo libero alle scuole private. Certo, su quest’ultime è sempre bene informarsi molto prima perché – vista la crisi che investe in questi anni l’editoria – le scuole di scrittura sono nate come funghi perché chi lavorava nel settore editoriale e ne è stato espulso ha provato a reinventarsi aprendo queste scuole. Quindi, bisogna valutare bene chi ci lavora, chi ci insegna, che tipo di possibilità può offrire.

In realtà io sono stata molto fortunata: dato che Matteo Signorini è ormai dentro l’editoria da anni e vi lavora con successo, ha effettivamente degli ottimi consigli da dare e io gli sono particolarmente grata per questo. Questa particolare scuola è collegata con un agente letterario (una nuova figura all’interno del panorama editoriale, molto utile se sa fare il suo lavoro).

Quindi, alla fine del percorso alla Palomar – se riesci a scrivere il tuo romanzo e a completarlo – presentano il tuo lavoro all’agente; se l’agente lo trova valido, si decide per un contratto di rappresentanza. Sulle prima l’agente – che ora è anche la mia agente – me l’ha rifiutato: ha detto che era interessante ma che non sapeva bene dove poterlo presentare.

Per cui, in mancanza di alternative, l’ho riscritto tutto da capo – devo dire la verità – e poi l’ho mandato al Calvino. Poi, dopo la vincita, l’agente è tornata sui suoi passi: effettivamente lei aveva valutato la prima stesura, nel frattempo io l’avevo riscritto, quindi era una cosa diversa.

Quindi è andata così: diciamo che il Calvino ha facilitato molto le cose.

 

 

Sicuramente è un premio di grande spessore, anche solo per il nome che porta…

Sì, è sempre stato un premio di una certa rilevanza. Questa è la XXX edizione, ma negli ultimi anni sono cresciuti tantissimo la rilevanza e il rispetto che gli da mondo editoriale: non vi so dire che cosa effettivamente abbia determinato questo cambiamento. Se andate sul sito del Premio Calvino c’è la griglia con tutti gli autori, i vincitori, le giurie e gli editori che poi effettivamente hanno pubblicato i partecipanti. E negli ultimi anni sono tutte grandi case editrici.

 

L’architettura di un romanzo è sicuramente la parte più difficile e, ci dicevi, la scuola ti ha aiutato molto: quindi questa tua esperienza con l’architettura del romanzo come l’hai vissuta?

Questa parte dell’elaborazione di un romanzo, l’architettura, per me è difficilissima, non tutti gli scrittori vi trovano la stessa difficoltà: certo la nostra tradizione letteraria non ha portato spesso l’attenzione su questo aspetto, noi siamo “gentiliani”, per cui la forma ha un peso e una rilevanza maggiori laddove la tenuta della storia assume un aspetto meno rilevante.

Ora, sarà un cliché, però i grandi della letteratura americana sono dei grandi narratori di storie; magari lo stile dipende da autore ad autore però sono storie decisamente più codificate rispetto alle nostre. Per me, questo aspetto dell’architettura – come vi dicevo – è un problema terribile, nel senso che il mio modus operandi è partire da un personaggio per costruire la storia, ma il mio istinto mi spinge ad entrare dentro quel personaggio e guardarlo sempre più profondamente dall’interno.

Ed è qui che cominciano i problemi perché va bene il personaggio, ma se scrivi un libro il personaggio deve fare qualcosa… la mia tendenza è perdermi nei miei personaggi. Ed è un appunto he mi hanno fatto appena entrata all’Einaudi per mettere a punto l’editing del romanzo facendomi delicatamente notare che ho la tendenza allo “spiegone”. Ed è esattamente quello che faccio: tendo a descriverti dettagliatamente l’interiorità del personaggio; però ho dei problemi ad escogitare strutture narrative complesse per quel personaggio, mi devo sforzare.

 

Abbiamo letto sulla pagina del Premio Calvino un tuo breve scritto in cui racconti un aneddoto a commento della tua vincita: spicca la presenza di due particolari “angeli custodi”… che rapporto hai con queste due scrittrici?

Pensa, la foto ce l’ho ancora in ufficio. Allora, Alice Munroe ed Margaret Atwood sono le mie divinità letterarie e, della Munroe, ammiro la capacità di restituire una realtà allo stesso tempo parcellizzata ma potente e universale delle minuscole cose della vita.

Ecco, loro riescono a fare una cosa che veramente trovo straordinaria e cioè, a costruire una storia senza niente di epico – non si parla di grandi eventi, sono storie “minuscole” – però hanno una loro potenza e hanno un linguaggio così universale che a me emozionano molto di più rispetto ai grandi romanzi d’avventura che mi hanno lasciata sempre abbastanza indifferente.

Margaret Atwood, è una scrittrice che ha segnato un’intera stagione della mia vita distante ormai, circa 15 anni fa. Ci stavo pensando proprio mentre venivo qui: avrete sentito parlare del Racconto dell’ancella, per il fatto che è uscita la serie Tv su questo libro che ha circa trent’anni mi sembra. Quando io l’ho letto trent’anni fa, insieme a tantissime altre cose sue, mi fece molta impressione ma non mi spaventò affatto.

Si tratta di un futuro distopico e devastante. Ricordo distintamente che di quel libro pensai: “dio che cosa orribile, menomale che l’umanità ormai ha preso una strada secondo la quale un futuro così non è più possibile”; adesso, invece, la sensazione che, ripensandoci, ho io è di grandissimo spavento. Ossia, la sensazione di lontananza e impossibilità che avevo trent’anni fa su quel romanzo oggi non ce l’ho più.

Sono tornata a pensarci quando è uscita la serie: oggi lo sento più vicino quel futuro, perché il “delta” – il differenziale – rispetto a trent’anni fa è molto ridotto. La Atwood è un tipo di scrittrice che non potrei mai essere: ha un tipo di lucidità, d’intelligenza e una ferocia nella presentazione della realtà che io non avrò mai. Però, diamine, il suo sguardo è come lei: ha due occhi che ti trapassano da parte a parte.

 

 

L’amicizia di queste due scrittrici, questa scoperta che hai fatto e che hai preso come un “segno”, ti ha rassicurata nella consapevolezza che, nonostante le ambizioni personali, la letteratura unisce?

Sì, mi ha dato tanto conforto soprattutto sapendo che sono due scrittrici così diverse fra loro. Questa è una cosa che sento molto, soprattutto adesso, per merito di Fb: è un contesto – e di questo devo essergli riconoscente – che mi ha permesso di entrare in contatto con molti scrittori, anche più giovani di me, scoprendo la dimensione della collaborazione e anche del supporto reciproco che per me è essenziale. Per cui sì: vederle così, a quel party, abbracciate, condividere la gioia del Nobel assegnato alla Munroe – senza quella gelosia che pura ci sarebbe potuta essere tra concorrenti –  vederle così felici insieme, mi ha detto tanto sul potenziale della letteratura.

Alice Murno e Margaret Atwood

 

Invece, possiamo parlare del tuo libro? Che dovrebbe uscire ad Aprile per Einaudi…

Ma in generale certamente, anzi, ci stavo riflettendo proprio in questi giorni perché il Presidente del Premio Cavino ha chiesto a tutti noi finalisti di scrivere una cartella più o meno sulla genesi del romanzo. Fondamentalmente è la storia di una ragazza, una studentessa fuori corso, che studia medicina a Padova; viene dal sud, da una famiglia molto tradizionale, con la madre che – vedova – è del tutto contraria che lei se ne vada fuori a studiare, che la vorrebbe a casa, sposata e con figli; lei, invece, non ci pensa nemmeno ad un futuro del genere.

Di fatto, però, dopo questo primo moto di ribellione che la spinge fuori casa, a Padova, di fatto la sua sua vita va a rotoli: perde la borsa di studio, la residenza universitaria, si deve mantenere da sola perché la madre non può aiutarla, e quindi comincia anche a non fare esami e a lasciarsi un po’ andare.

Sembra quasi, ad inizio romanzo, che non ce la possa fare: casualmente, però, conosce un anziano avvocato padovano che in apparenza le vuole dare una mano – offrendole un lavoro – ma che, in realtà, è solo interessato a soggiogarla psicologicamente data la sua natura misogina e misantropa.

Il suo scopo è legare a se qualcuno con un forte legame di dipendenza –  in questo caso offrendo un lavoro ad una ragazza in difficoltà – per poi scaricare sul malcapitato le proprie frustrazioni. Lei, che è una personcina delicata ed insicura nell’affermare se stessa, deve trovare il modo per contrastare quest’uomo e impedire che la distrugga. È la storia di questo confronto.

 

Lo definiresti quindi un romanzo psicologico?

In qualche modo sì. Lo definirei un conflitto di natura psicologica: lui è molto bravo a capire i punti deboli delle persone; lei, invece, è assolutamente incapace di difendersi. Quindi sulla carta è lei la parte più debole e la vittima perfetta: poi il mio intento è stato quello di costruire un personaggio abbastanza credibile che evolva e trovi dentro di sé le risorse per liberarsi dall’influenza di quest’uomo.

 

Senza fare spoiler: cos’aveva di diverso la prima stesura?

Semplicemente, in due parole: nella vecchia stesura non c’era il passato di quest’uomo: era cattivo senza una motivazione, perfido senza che si capisse perché. Molti di quelli che hanno letto la prima stesura mi hanno chiaramente detto che mancava qualcosa a questo romanzo. Io ho dato ascolto a queste persone – perché erano persone di cui mi fidavo – e quindi la nuova stesura c’è tutta una parte si storia passata che racconta come questo personaggio sia diventato quello che è.

 

I consigli che hai ricevuto e accolto ti sono giunti da persone che hanno letto il libro per amicizia oppure dagli editor?

Entrambe le cose: c’è con queste persone amicizia e affetto ma sono anche editor professionisti. Quindi sì, erano consigli mirati e spassionati e sarebbe stato stupido da parte mia non tenerne conto. E avevano ragione.

 

Quindi: benedetti editor! …

Ah, assolutamente! Argomento molto dibattuto questo e se ne parlava proprio poco tempo fa su Facebook. Ci sono sostanzialmente due scuole di pensiero: c’è chi dice che l’editor non serve a niente e chi, invece, li ritiene indispensabili. Io, personalmente, al mio editor farei fare qualsiasi cosa: gli darei anche il mio IBAN se fosse necessario!
Quello che è certo è che non tutti prendono bene gli appunti di un editor…

 

Abbiamo visto che poco tempo fa su Facebook ti sei lanciata nella lettura di Lincoln nel Bardo di George Sunders. Noi ce ne siamo occupati poco tempo fa e visto che è stato gridato al capolavoro, vorremmo un tuo parere di lettrice e scrittrice. Cosa ha di rivoluzionario, secondo te, quest’opera?

Allora, non è che sia il primo esempio di romanzo corale – perché ce ne sono stati altri nella storia – però il linguaggio che sfrutta Sunders ti da veramente la sensazione che questo gruppo di personaggi dell’aldilà, questi fantasmi che circondano Lincoln (che invece è vivo) siano una sola ed unica creatura.

La narrazione, quindi, sembra procedere come un intero piano-sequenza – se mi è concessa una similitudine cinematografica – come se ci fosse una telecamera che gira costantemente per cui, di fatto, è un unico organismo che parla: è il cimitero che parla attraverso tutti i suoi personaggi.

Il passaggio da un personaggio all’altro, inoltre, è impercettibile e non segue un ordine di successione, essi parlando si toccano e, in certi momenti, essendo anime incorporee, trasparenti, entrano le une dentro le altre e si compenetrano e si capiscono, si scoprono reciprocamente; si guardano, reciprocamente, da un punto di vista che non hanno nel momento in cui non c’è questo contatto impalpabile e fantasmatico.

È come se una gigantesca idra come mille teste ti parlasse di una realtà – e su questo Sunders gioca molto – di cui tu lettore hai consapevolezza, mentre loro anime no. Tu, lettore, hai la consapevolezza del fatto che questi personaggi sono morti, sono fantasmi; loro no, i personaggi stessi non accettano questa loro dimensione. Essi non sono trapassati, sono lì in quel cimitero – come intrappolati in un limbo – proprio perché non accettano di essere morti.

Quindi il capolavoro di Sunders è stato far capire al lettore che l’organismo, in quanto cimitero, esiste e parla, ma attraverso le anime che lo compongono che si compenetrano a vicenda, mantenendo tutte la loro propria individualità.

Io l’ho trovato potente. Perché è come se mille persone parlassero contemporaneamente ed in ogni momento; devono passare almeno le prime trenta pagine per capire cosa cavolo tu stia leggendo, anche perché le primissime pagine non sono “il cimitero”, ma sono fonti storiche con le quali, volta per volta, viene raccontata l’agonia del figlio di Lincoln, Wille.

Finito il libro ho pianto per dieci minuti. Mi è capitato tre volte in vita mia: la prima volta è stato dopo aver finito i Miserabili di Victor Hugo; la seconda dopo un libro cubano; questa è la terza.

 

Finora abbiamo parlato di autori stranieri: cosa ci dici di autori italiani?

Penso ad Elsa Morante: direi che di tutte le autrici italiane, se dovessi indicare una maestra penso a lei. Poi ce ne sono tante che mi piacciono e che meriterebbero anche più attenzione: penso a Laura Liberale – che è tra le persone che ha letto il mio romanzo – che oltre ad essere una bravissima scrittrice è anche una poetessa sublime; anche Rossella Milone e ammiro molto i suoi racconti.

Però ecco, Elsa Morante occupa un posto particolare: è un’autrice incendiaria, fa paura a tratti, è quasi una strega. Ho letto di recente un aneddoto che la riguarda che è così morantesco ed è questo: tra i suoi amanti c’è stato anche Luchino Visconti – che oltre ad avere un comportamento sessuale ambiguo, me lo immagino come l’apoteosi del narcisismo – e mesi dopo che la loro storia era ormai finita, lei vedendolo in giro con una di quelle attrici stupende, una  di quelle star anni ’60, si è talmente incazzata che si è alzata la gonna e gli ha urlato una frase volgarissima del tipo “ce l’ho pure io!” mettendosi una mano sul pube.

Questa spudoratezza, questa schiettezza, mi ha colpito fortemente. Inoltre c’è una cosa che mi piace pensare mi leghi a lei: la casa di mio nonno, che è a Roma e ospita oggi la Casa Museo Alberto Moravia, mio padre l’ha venduta a Moravia stesso.

L’idea che mio padre bambino abbia abitato, seppur per poco tempo, nelle stesse stanze dove hanno abitato questi grandi scrittori mi commuove un po’. Non ci sono ancora mai stata, ma visto che si può visitare ci andrò. Devo dire però che Moravia non mi sta molto simpatico, anzi non mi spiego nemmeno come queste due figure siano potute stare insieme per vent’anni.

 

Elsa Morante

 

A noi sembra anche molto ferrantiano…

Sì, soprattuto ne La Figlia Oscura che ha molti punti di contato con Aracoeli, uno dei romanzi più scabrosi e conturbanti della Morante. Io ricordo distintamente che ero ragazzina quando lo lessi e tutti quei riferimenti sessuali – proprio sulla masturbazione o sui rapporti omosessuali – mi colpirono molto perché all’epoca era raro che i libro fossero così espliciti.

 

Di recente abbiamo avuto modo di chiedere a Paolo Roversi come fosse approdato alla narrativa noir e poliziesca dopo la sua laurea in Storia; anche tu hai fatto un percorso analogo, passando dalla Storia alla narrativa: come è avvenuto questo passaggio?

Io mi sono specializzata negli anni ’80 in Storia Medievale con una particolare attenzione per il francescanesimo medievale: mi sono laureata con Alessandro Barbero a Tor Vergata, con una tesi sulla Santa Patrona messinese Sant’Eustochia, sconosciuta ai più, che ho creduto – e credo – meriti più attenzione perché è una figura molto particolare nel panorama religioso femminile del tempo.

Sant’Eustochia è una santa vissuta nel Quattrocento che ha un’agiografia in volgare – e questo già di per sé non è comune – scritta, inoltre, da una donna: questo credo che la renda per lo meno una rarità. Studiare con Alessandro Barbero e Chiara Frugoni è stato per me un privilegio: Barbero in particolare lo ricordo come un docente appassionato che ti faceva innamorare di qualunque cosa spiegasse, un grandissimo comunicatore, prendevi degli appunti che a rileggerli dieci anni dopo rimangono chiarissimi.

In seguito, per dieci anni ho fatto la guida turistica a Roma; poi quando sono venuta qui a Padova, vent’anni fa, ho provato a fare la guida turistica per Venezia, poi, infine sono finita a lavorare in biblioteca. Devo dire che adesso, a distanza di anni, la preparazione storica sta cominciando a tornare prepotentemente fuori: ho una specie di pulsione costante che mi spinge a credere che prima o poi scriverò un romanzo storico.

Il tempo, nel mio caso, ha fatto decantare le cose: prima ho studiato storia, poi ho fatto la guida turistica e infine ho lavorato nelle biblioteche. Ora con la scrittura ho l’opportunità di mettere insieme tutte e tre le cose!

Insomma ragazzi è raro sentire due ragazzi della vostra età parlare con tanta passione e tanta competenza, sopratutto sulla letteratura, veramente mi ha fatto molto piacere parlare con voi.