Anthropocene – L’epoca umana: uno spettacolare monito all’azione

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Giulia Barison, Venezia –

Antropocene. L’epoca geologica in cui il primo fattore condizionante non sono i fenomeni naturali, ma l’azione dell’uomo. L’Anthropocene Working Group (AWG) è un gruppo di ricerca internazionale formato da scienziati che, dal 2009, sta cercando di raccogliere tutte le prove necessarie affinché vi sia il riconoscimento ufficiale da parte della geologia del superamento dell’Olocene – al momento né l’ICS (International Commission on Stratigraphy), né l’IUGS (International Union of Geological Sciences) hanno fornito un’approvazione ufficiale.

Ma l’approvazione sulla carta non è necessaria per capire quanto l’azione umana abbia ormai condizionato irrimediabilmente gli ecosistemi: negli ultimi dieci anni lo sfruttamento delle risorse e la produzione di scarti inquinanti hanno raggiunto livelli tali che è già possibile vedere con chiarezza gli effetti della sesta estinzione di massa. Il numero ordinale che apre la locuzione potrebbe dare adito a un qualche senso di conforto: ne abbiamo già superate cinque, quale sarà mai il problema? Il problema sta proprio nella presunzione umana di avere un ruolo così centrale: ci sbagliamo. L’ultima estinzione di massa è avvenuta tra il Cretaceo e il Paleocene: 65 milioni di anni fa. La Terra ha 4 miliardi e mezzo di anni. L’Homo Sapiens è apparso sulla terra 300.000 anni fa, ma l’uomo “moderno” non ha più di 70.000 anni. Abbiamo distrutto il nostro Pianeta in meno di due secoli, accelerando vertiginosamente il processo di distruzione negli ultimi anni. Ma non stiamo portando solo noi stessi all’estinzione: stiamo portando con noi il 75% delle specie viventi.

Le specie animali dichiarate estinte, funzionalmente estinte o a rischio di estinzione sono decine e decine, se leggiamo solo i dati relativi all’ultimo secolo. L’estinzione di animali non umani lascerà presto piede a quella degli esseri umani stessi: probabilmente le prime a cadere saranno le popolazioni indigene, poi le popolazioni più povere, fino ad arrivare all’uomo occidentale, causa maggiore della crisi climatica ed ecologica, eppure il più privilegiato davanti alle sue conseguenze dirette e indirette. La sesta estinzione di massa è in atto: dobbiamo avere paura, dobbiamo iniziare a credere al fatto che il sistema in cui viviamo non è solo sbagliato, ma tossico, dobbiamo cambiarlo e cambiare noi stessi con esso.

È proprio questo ciò che ha voluto trasmettere l’Anthropocene Project con Anthropocene – The Human Epoch. Basta dati scientifici, basta paroloni, basta articoli che si perdono nella home di Facebook: silenzio. Spazio alla musica, alle registrazioni di suoni e immagini, alla spettacolare fotografia di Edward Burtynsky – fotografo di fama mondiale che ha accompagnato i registi Jennifer Baichwal e Nicholas de Pencier in sei continenti e venti Paesi per girare le scene del documentario. Dal mercato illegale dell’avorio in Kenya, alla “Grande Muraglia” in cemento costruita in Cina per proteggere le installazioni petrolifere dalle maree; dalle enormi installazioni per la produzione di litio in Cile, alle incandescenti miniere di potassio in Russia; dalle barriere coralline sbiancate dall’acidificazione delle acque in Australia, fino alle mostruose cave per l’estrazione di marmo a Carrara… tutte realtà elette a rappresentanti di quella che è l’azione umana su un ecosistema che sta inesorabilmente andando a fuoco.

 

 

Le immagini si susseguono sullo schermo raggruppate in diverse sezioni tematiche, dal processo di deforestazione fino a quello di estinzione. L’ingegneria che guida l’immagine è elevatissima. All’impiego di tecnologie di altissima qualità si aggiunge l’ingegno poetico della fotografia e della regia, che non hanno come unico obiettivo il rendere lo spettatore consapevole di quanto sta accadendo: lo spettatore ne è il protagonista. La crisi climatica ed ecologica ha come causa l’uomo, anche quello seduto in sala, e spetterà all’uomo fare qualcosa per invertire il processo in atto.

Un aspetto fondamentale che viene messo in luce dal documentario è quello sociale. Le vittime sono anche coloro che lavorano in questi luoghi dell’orrore, non solo perché sfruttati, sottopagati, privati di diritti fondamentali e non tutelati dalla benché minima norma di sicurezza: sono vittime di un sistema tossico che li ha convinti che il loro lavoro è quanto di meglio la vita potesse offrire. A Dandora, nei pressi di Nairobi, è situata la più grande discarica dell’Africa orientale. La discarica ospita i rifiuti della zona e tutti i rifiuti che l’Occidente non smaltisce in loco. Ogni giorno vi prestano servizio 10.000 persone, il 40% delle persone che vivono nelle baraccopoli adiacenti la discarica. La donna intervistata nel film afferma, appoggiata sopra a un enorme cumulo di rifiuti, che non potrebbe essere più orgogliosa del lavoro che fa. Negli Urali russi, una delle lavoratrici delle mostruose miniere di potassio afferma con amarezza: «Penso che mi metterei a piangere se vedessi un fiore crescere tra le rocce».

 

 

Ma le vittime non sono solo gli esseri umani. Nell’ultima sezione, dedicata all’estinzione, la prima immagine è un primo piano su una tigre di Sumatra: un animale meraviglioso, elegante, che guarda in camera. Ma non sta guardando solo l’obiettivo. Mentre il focus si allarga sull’intorno, lo spettatore si ritrova dietro a un vetro, in uno zoo. La tigre è solo uno dei tanti prigionieri della struttura, una delle tante vittime dello sfruttamento perpetrato dall’uomo: dalla caccia, al bracconaggio; dalla cattura di animali destinati a zoo, acquari, delfinari e circhi, all’utilizzo degli stessi per alimentazione, vestiario e qualsiasi perversione umana, gli animali sono stati i primi a pagare le conseguenze dell’antropocentrismo. Ciò non ha avuto effetti disastrosi solo sulla biodiversità, ma anche sulla società stessa: il perpetrarsi di abitudini violente ci ha resi immuni alla violenza, ci ha portati alla convinzione che è giusto così, che l’oppressione dei più deboli, chiunque essi siano, è un diritto che possiamo arrogarci. Ma proprio perché la crisi climatica ed ecologica è anche un’istanza sociale – non a caso ciò che oggi viene chiesto ai governi è giustizia climatica ed ecologica – la soluzione deve essere anche sociale.

Anthropocene è stato prodotto in collaborazione con associazioni e movimenti per l’ambiente, fra cui Greenpeace ed Extinction Rebellion: in particolare quest’ultimo ha come obiettivo una rivoluzione del sistema, basata sulla disobbedienza civile, la non violenza e le assemblee cittadine. Dobbiamo riappropriarci del nostro diritto decisionale sulle sorti del Pianeta e dei suoi abitanti, laddove i governi fanno spallucce. Dobbiamo riappropriarci del nostro diritto alla vita, ribellandoci all’estinzione. Dobbiamo riappropriarci di valori fondamentali, quali la giustizia, intesa come istanza universale. Non abbiamo più tempo: dobbiamo agire.

Dopo la scena della “Grande muraglia” in cemento costruita in Cina, come già detto, per proteggere gli stabilimenti petroliferi dalle maree, il focus si sposta su un altro luogo che sta risentendo dell’innalzamento delle maree: Venezia, la nostra Venezia. Le riprese sono silenziose, si sentono solo le voci dei passanti e la musica di sottofondo: Piazza San Marco viene invasa dalle acque della laguna. Un’immagine a cui ci stiamo tristemente abituando, ma che acquista tutt’altro sapore in questo contesto. Nessuna didascalia accompagna le immagini. Solo il silenzio.

 

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