Le Opinioni di un clown e i paradossi rivelatori: un capolavoro di Heinrich Böll

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Ph. P. Grasso, 2015

Giulia Barison, Venezia –

Qualche giorno fa, parlando con una persona del libro che stavo leggendo, mi sono sentita dire: “Che titolo strano!”. Insomma, pur non conoscendo Opinioni di un clown, la combinazione bizzarra di quelle quattro parole le aveva suscitato un ingenuo impulso di stupore. Dopo un breve attimo di silenzio, mi sono resa conto che quello che sul momento mi era sembrato un commento quasi inopportuno, era subito diventato uno spunto di riflessione.

“È vero” le ho risposto “è proprio un titolo strano”. “Ma perché?”, mi sono chiesta. Tuttavia, la risposta mi è giunta solo dopo aver letto l’ultima riga del libro: perché nessuno vorrebbe ascoltare le opinioni di un clown! È proprio questa la magia del celebre romanzo di Heinrich Böll: presentarci qualcosa che non vorremmo leggere e farcela amare.

 

 

Il clown di Böll è Hans Schnier, la pecora nera di una famiglia ricca e borghese, o meglio, la pecora nera di una società cristiana e benestante. La denuncia a questa realtà, ovvero quella della Germania post-nazista, è di un sarcasmo tagliente e si sviluppa in un intreccio di presente e ricordi passati che si risolve in un tempo effettivo di qualche ora trascorso nel proprio appartamento vuoto, in compagnia di una bottiglia di cognac e delle ultime sigarette.

Sono ore drammatiche per il protagonista, il quale ha perso il proprio lavoro come clown e non ha più un Pfenning, zoppica a causa di un lancinante dolore al ginocchio e, soprattutto, è stato abbandonato dall’unico vero amore della sua vita: Maria.

Unico vero amore della sua vita”: sembra un cliché, ma in Heinrich Böll costituisce invece uno dei tanti paradossi della società del benessere. Hans non è cristiano, anzi, critica profondamente sia i cattolici che i protestanti, ma proprio nelle prime pagine, quasi fosse un biglietto da visita, dice:

 

“Il più terribile dei miei mali è la predisposizione alla monogamia; c’è una sola donna con la quale posso fare tutto quello che gli uomini fanno con le donne: Maria. […] Mi ero già chiesto se non avrei dovuto andare in campagna, nella mia vecchia scuola, a chiedere consiglio a uno dei padri, ma quelli considerano l’uomo come una creatura poligama (per questa ragione difendono con tanta violenza l’indissolubilità del matrimonio).”

 

Non si tratta della monogamia cristiana, anzi, lo stesso Hans afferma: “Quando mi figuro che esiste qualcosa come il “dovere coniugale” mi sento venir freddo” e rifiuta di sposare Maria, pur considerandosi suo marito; si tratta di una monogamia assoluta, ma semplice e sincera. E questo è in grado di rendere il matrimonio cristiano qualcosa di piccolo, se non addirittura artificioso.

Ma non si tratta dell’unico paradosso messo in luce da Hans. La società cristiana è una società dissimulatrice. Suona davvero strano detto da un portatore seriale di maschere, ma è proprio il clown, in questo romanzo, che è visceralmente incapace di mentire e trattenersi dallo svelare l’ipocrisia dei propri interlocutori a costo dell’isolamento e dell’abbandono.

Si profila così la vera essenza di personaggi come i genitori di Hans: palesemente nazisti durante il regime, diventano paladini della democrazia dopo la guerra, tanto che la madre, la stessa che aveva spedito la figlia Henriette a morire come volontaria per la FlaK – acronimo di FlugabwehrKanone, ovvero la difesa contraerei nazista – , diventa presidentessa del Comitato Centrale della Società per la conciliazione dei contrasti razziali.

O, ancora, Maria. Cristiana devota, perde la propria verginità con Hans e, dopo una serie di aborti involontari, sposa un altro devoto cristiano, il quale accetta un matrimonio con una donna “impura” dopo averla corteggiata per molto tempo, durante la sua convivenza con Schnier. E se la propria ipocrisia, il proprio passato vergognoso, vengono affidati all’oblio e strategicamente nascosti dal buonismo presente, Hans è l’unico che, proprio per la sua sincerità endemica, vive nel ricordo e nell’analisi del passato personale e altrui, mettendo in difficoltà chiunque incontri sul suo cammino.

 

Heinrich Boll, Premio Nobel per la letteratura nel 1972

 

Insomma, Hans Schnier è un uomo semplice. Non ha ambizioni, la sua vita è stata perfetta quando poteva lavorare come clown, condividere il proprio amore monogamo con Maria, giocare con lei per ore a Mensch-ärgere-dich-nicht e girare l’Europa senza una casa, tra un albergo e un altro.

Eppure è proprio questa semplicità, per la sincerità e la trasparenza che comporta, che lo rende un uomo moralmente superiore agli altri. Quando il padre di Hans decide di fargli visita nel suo appartamento triste, sporco e disordinato, trova un figlio in accappatoio, zuppo di caffè e sfacciatamente pronto a chiedergli più denaro di quanto sia disposto ad offrirgli.

In questo si concretizza la semplicità e la coerenza di Hans, il quale si mostra agli altri esattamente per ciò che è, anche se questo comporta reazioni di disgusto. Inoltre, non si trattiene mai dall’esprimere le proprie opinioni, le quali, pur rimanendo opinioni di un clown, per lo più fallito, sono sempre così vere, che non possono non imbarazzare o ferire chi ne è l’oggetto. Questo perché, nella sua semplicità, Schnier comprende.

A tal proposito, risulta esemplificativa la sua capacità di percepire gli odori attraverso la cornetta del telefono – “aveva una voce seria, controllata, molto virile e annusai subito che aveva mangiato qualche cosa di acido, aringhe marinate o roba del genere” – o, ancora, di immaginare nei minimi particolari la vita di sconosciuti, alla stregua di quella di persone che conosce profondamente. È il caso dell’immagine di Maria insieme al nuovo marito, dei bigliettini lasciati per casa, dell’impermeabile del suo bambino, della luna di miele a Roma.

Si profila così, attraverso un’abile utilizzo dei dialoghi e dei monologhi, la figura di un clown per il quale non possiamo non provare simpatia ed affetto e al quale ad un certo punto iniziamo addirittura a credere, a dare importanza alle sue opinioni, a riflettere davvero sull’ipocrisia della società moderna.

 

La copertina originale del romanzo, uscito per la prima volta in Germania nel 1963

 

In questo romanzo costruito sul paradosso rivelatore, l’antinomia finale non si gioca nella partita tra Hans e la società, ma tra l’io e se stesso. L’aspettativa del lettore, da parte di un clown, è la risata, il divertimento. Schnier sa farci ridere, con la sua ironia tagliente, ma la sua figura è tragica.

“Quando sono ubriaco, sulla scena eseguo senza precisione dei movimenti che solo la precisione giustifica e cado nell’errore più penoso che un clown possa fare: rido delle mie stesse trovate. Un’umiliazione terribile”, ci racconta il protagonista nelle primissime pagine del libro, facendoci percepire sin da subito che ci troviamo di fronte ad un clown sui generis.

Ma sono le telefonate attuate durante il corso del racconto, i continui ricordi e la progressiva scoperta della casa spogliata da Maria che svelano al lettore ed al personaggio la drammaticità della realtà di Hans. Alla fine, non gli resta che darsi un’occasione: dipingere la propria faccia di bianco, trascinare il suo ginocchio malandato e la sua chitarra alla stazione e chiedere l’elemosina. Canterà canzoni d’amore e attenderà Maria, in ritorno dalla luna di miele, per sapere se lei, vedendolo, sarebbe ancora in grado di abbracciarlo. Altrimenti, l’unica soluzione rimarrà il suicidio.

 

«Ma che tipo di uomo sei, in conclusione?» domandò Leo.
«Sono un clown» risposi «e faccio raccolta di attimi. Ciao.» E riattaccai.

 

Heinrich Böll,
Opinioni di un clown,
Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2016
pp. 300