La lotta per le investiture: il grande scontro tra l’Impero e il Papato nell’Europa dell’XI secolo

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Jessica Romiti, Torino –

Nella seconda metà del XII secolo, il Papato e l’Impero furono protagonisti di una tra le più celebri dispute dell’età medievale. La posta in palio era elevata, soprattutto alla luce della natura del contenzioso in questione.

La questione inerente alla preminenza nell’investitura episcopale di membri ecclesiastici celava, infatti, uno scontro ideologico e pratico di portata ben maggiore: decidere chi dovesse eleggere un vescovo significava fregiarsi dell’esclusività del potere temporale.

Lo scontro, in altre parole, riguardava, i rispettivi limiti di potere, le innumerevoli interferenze, i rapporti stessi tra Papato e Impero.

 

 

Il Sacro Romano Impero

Con l’avanzare dei secoli, la figura dell’Imperatore aveva acquisito sempre maggior preminenza nella nomina dei chierici alle dignità ecclesiastiche. Tale processo andava contro le norme canoniche, che prevedevano la designazione delle alte cariche ecclesiastiche mediante una libera elezione operata dal clero e delle comunità di fedeli.

Se è vero che questa consuetudine ebbe origine già ai tempi di Carlo Magno, fu solamente sotto Ottone I che la prassi si consolidò ufficialmente.

Nel 962, l’imperatore emanò il Privilegium Othonis che, in pratica, subordinava l’elezione papale al consenso dell’Imperatore. Tra gli innumerevoli aspetti contenuti nel privilegium, il più importante arrogava alla figura imperiale il diritto di investire i vescovi-conti.

Questo aspetto, d’altra parte, non deve stupire: a partire dal periodo alto-medievale, gli Imperatori erano soliti far amministrare il regno alla feudalità ecclesiastica che, rispetto a quella laica, non comportava problemi di successione: morto l’ecclesiastico, il beneficio rientrava all’imperatore che poteva ritornare a disporne a suo piacimento.

L’assegnazione ai vescovi di importanti poteri civili comportò, tuttavia, non soltanto ad un conflitto di “giurisdizione”, ma contribuì anche alla diffusione del fenomeno della corruzione e della simonia, vere e proprie piaghe nella società dell’XI secolo.

 

Gregorio VII

 

Il Papato

Il Papato, al contrario, proiettato verso un rafforzamento progressivo del potere temporale, proprio in questo periodo stava attraversando una fase di profonda crisi, causata dalle lotte per la nomina dei nuovi pontefici e dovuta al forte decadimento morale e di prestigio, conseguenza dell’instabilità interna e della sottomissione politica all’Impero.

Un timido tentativo di svolta si registrò con l’elezione al soglio pontificio di Niccolò II che, durante il concilio lateranense del 1059, emanò il Decretum in electione papae in cui condannava l’investitura laica dei vescovi e stabiliva di estromettere l’imperatore dall’elezione del pontefice. Il provvedimento, tuttavia, rimase fondamentalmente lettera morta.

 

Lo scontro

L’apice dello scontro si raggiunse quando il soglio pontificio era retto da Gregorio VII e alla guida dell’Impero si trovava Enrico IV.

Il primo rappresentava l’artefice della riforma della chiesa della seconda metà dell’XI secolo, passata alla storia sotto il nome di riforma gregoriana.

Eletto nel 1073, condannò ripetutamente la simonia e il nicolaismo, ma soprattutto si impegnò energiamente nella lotta alle investiture.

Nel 1075 emanò il Dictatus papae, in cui venivano sanciti il primato romano e le prerogative esclusive spettanti al pontefice – come ad esempio la possibilità di sciogliere i sudditi dal vincolo di fedeltà mediante la scomunica -, l’assoluta preminenza politica del Pontefice, la definizione ontologica del concetto di eresia come discordanza dall’ortodossia romana.

A questi postulati non si fece attendere la risposta dell’imperatore, impegnato, fin dalla sua ascesa al trono, nel vigoroso rafforzamento dell’autorità imperiale, uscita malconcia dal lungo periodo di reggenza.

Nella realtà dei fatti, la sua attività di governo si contraddistinse in un continuo tentativo di trovare un equilibrio tra l’assicurarsi la fedeltà dei principi tedeschi e l’avere l’appoggio del Pontefice.

L’annus orribilis di Enrico IV fu il 1073, in cui, rispettivamente, nominò un suo uomo alla diocesi di Milano, scatenando le ire del papa che lo accusò di non rispettare la parola data e di aver continuato ad appoggiare consiglieri scomunicati, per poi affrontare lo scoppio della rivolta dei Sassoni, appoggiata da principi e vescovi tedeschi e domata solamente nel 1075.

In quest’occasione egli si rivolse al papa, chiedendo la deposizione dei vescovi ribelli. Il rifiuto di Gregorio VII sancì, di fatto, l’inizio della lotta. Il pontefice, infatti, non solo rigettò la richiesta dell’imperatore, ma lo esortò anche a collaborare nella riforma dei costumi conseguente il Dictatus.

Ma per Enrico questa rappresentava una grave ingerenza al suo potere e come reazione, nel 1076, convocò il concilio di Worms: i principi e i vescovi tedeschi lì convenuti dichiararono illegittima l’elezione di Gregorio VII, rifiutandone l’obbedienza.

A sua volta il Pontefice scomunicò l’Imperatore. La decisione presa dal successore di Pietro rappresentò, di fatto, il primo banco di prova del Dictatus. Le conseguenze, d’altra parte, non si fecero attendere: con la scomunica, Infatti, il potere di Enrico iniziò a vacillare.

Molti vescovi si allontanarono da lui; i Sassoni si ribellarono nuovamente e alcuni principi tedeschi giunsero addirittura a sospenderlo dal potere (nel 1077, in una riunione a Forchheim, elessero re di Germania Rodolfo di Svevia).

La restante nobiltà, formalmente rimasta fedele all’autorità imperiale, intimò comunque ad Enrico IV una riconciliazione con il papa entro un anno, fissando poi la data per un’assemblea da tenersi con Gregorio VII ad Augusta l’anno successivo.

 

Enrico IV, Gregorio VII e Matilde a Canossa

 

L’umiliazione di Canossa

A questo punto, il rappresentante della Casa di Franconia non poteva far altro che scendere in Italia e tentare di riconciliarsi con il Pontefice. Appena Gregorio VII seppe della discesa dell’Imperatore, si rifugiò nel castello dei Canossa, ospite di Matilde.

Per tre giorni e tre notti, nell’inverno del 1077, Enrico, in veste di penitente e con il capo cosparso di cenere, attese fuori dalle porte del castello dell’altopiano reggiano di essere ammesso al cospetto del papa.

Infine, grazie all’intercessione dell’abate di Cluny e di Matilde, il 28 gennaio egli fu ricevuto da Gregorio VII, il quale gli revocò la scomunica.

Uno scontro così grande non poteva, però, dirsi concluso semplicemente in questa maniera: dopo aver eliminato i suoi oppositori in Germania, Enrico IV riprese a nominare i vescovi.

Sceso nuovamente in Italia, depose Gregorio VII e nominò al suo posto Clemente III, dal quale si fece consacrare imperatore a San Pietro.

Nel frattempo, Gregorio VII si era rifugiato a Castel Sant’Angelo, da dove chiese l’aiuto del re normanno Roberto d’Altavilla per sfuggire all’assedio dell’imperatore.

Sebbene il Guiscardo riuscisse a liberare la città, le violenze e i saccheggi perpetrati dai suoi soldati inasprirono il popolo di Roma, il quale si ribellò a Gregorio, che fuggì a Salerno, dove morì esule nel 1085.

 

Matilde di Canossa

 

Epilogo

La lotta proseguì, anche se in toni meno drammatici, sotto i successori di Gregorio, Vittore III, Urbano II e soprattutto Pasquale II: l’accordo di Sutri (1111), stipulato durante il pontificato di quest’ultimo, parve riuscire nel tentativo di riconciliare l’Impero al Papato. Tuttavia, si rivelò ben presto inconcludente.

Fu solo sotto il regno di Enrico V, figlio e successore di Enrico IV (morto nel 1106) che si riuscì a mettere la parola fine alla lunga diatriba tra impero e papato.

Il 23 settembre del 1122, l’Imperatore del Sacro Romano Impero e l’allora Pontefice, Callisto II, siglarono a Worms un concordato i cui termini prevedevano la rinuncia dell’imperatore all’investitura di vescovi e abati con la consegna dell’anello e del pastorale, emblemi della carica ecclesiastica.

L’Impero si riservava, però, il diritto di investirli con lo scettro, a simboleggiare l’autorità temporale sui beni feudali. All’autorità imperiale, inoltre, era conferito il diritto di presenziare e influenzare, limitatamente ai confini del regno di Germania, l’elezione dei vescovi, secondo una “etichetta” che prevedeva la seguente successione: alla elezione, seguiva una cerimonia di investitura feudale e, solo alla fine, giungeva la consacrazione ecclesiastica.

Tale prassi, tuttavia, non valeva nei regni d’Italia e Borgogna: presso questi territori, all’Imperatore era addirittura proibito presenziare all’elezione del vescovo. La concessione di eventuali beni feudali, inoltre, poteva avvenire solamente sei mesi dopo la consacrazione.

Sebbene il Concordato dovesse rappresentare solo un compromesso di massima tra le due parti, di fatto chiuse definitivamente la questione e contribuì al riconoscimento dell’autonomia del Papato: la storia dell’Europa cristiana stava prendendo un nuovo corso.

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