Esser belle nella Roma antica: la cura del corpo e le acconciature delle donne romane

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Martina Tapinassi, Firenze –

 

Un’eleganza semplice ci piace: ma non siano senza stile le chiome, cui dà o toglie grazia la mano in moto. Non c’è un modo soltanto di pettinarsi e quello adatto a lei ciascuna scelga consultando prima lo specchio. Vuole, un volto allungato, soltanto una scriminatura esatta: così voleva avere le chiome Laudamia. Quanto ai visi rotondi, esigono che resti sulla fronte un nodo piccolino, a scoprire le orecchie. Di una donna i capelli spiomberanno sull’una e l’altra spalla, tale sei tu, cantore Febo, quando hai la lira. Potrà un’altra legarseli all’indietro, come Diana che insegue con la veste raccolta, mute e immobili fiere. E se a questa si addicono gonfi capelli sciolti sulle spalle un’altra dovrà invece stringerli intorno al capo, e quest’altra mi piace di tartaruga Cillenia adorna e porti quella i ricci come i flutti del mare.

Ovidio, Ars Amandi, Libro III, 133-148

 

 

La toeletta

 

Nell’antica Roma era già presente tutto ciò che troviamo oggi nel mondo dell’hair styling: posticci, parrucche, extension, chignon. Le chiome venivano adornate con spilloni, diademi, coroncine, veli e tenute ferme in posa con forcine, mollette e spesso addirittura cuciti.  Venivano anche usati prodotti specifici come lacche per fissare la piega, colorazioni e decolorazioni. Non mancavano naturalmente i pettini e le spazzole erano di ogni foggia e materiale; lo stesso vale per gli spilloni e i fermagli, vere e proprie opere d’arte artigiana. Dei costumi e usanze romane nel mondo femminile ci arrivano notizie grazie alle fonti. Solo i ricchi potevano permettersi certe pettinature, perché occorreva avere schiave ben addestrate e tanto tempo a disposizione. Le serve pettinatrici (ornatrices), peraltro, correvano anche il rischio di essere duramente punite se l’acconciatura non soddisfaceva la signora.  La toeletta di una matrona richiedeva ore di lavoro e il risultato era una complicata scultura a onde, a ricci, a bande, a volute, a boccoli. Un’opera d’arte che seguiva o che addirittura lanciava una moda, con infinita fantasia e nello stesso tempo con precisione chirurgica, perché nel capolavoro non doveva apparire una forcina o un pettine che sostenesse quell’aggrovigliata, e al contempo ordinata, architettura.

 

L’evoluzione della moda

 

In epoca monarchica e repubblicana le donne romane erano sottoposte a costumi più severi rispetto all’età imperiale, come se si volesse dimostrare la pudicizia e la serietà che le doveva caratterizzare. I capelli venivano divisi semplicemente al centro della testa con una scriminatura e poi venivano legati dietro la nuca oppure intrecciati raccogliendoli in un cercine sulla fronte. Le giovani romane dovevano tenere i capelli raccolti in massa con una coda di cavallo, legata semplicemente con un nastro, senza scriminatura né centrale né laterale. Questa era l’acconciatura delle donne nubili: solo dopo aver contratto matrimonio potevano difatti agghindare i capelli in modo più complesso. Nel giorno delle nozze le fanciulle dividevano i capelli in sei parti, li legavano con dei nastri e li raccoglievano in una crocchia a simbolo della loro verginità.

Le donne sposate erano obbligate a coprire la testa con un velo o con un copricapo (rica) quando uscivano in strada. Le matrone, pur coprendo i capelli, non indossavano veri e propri cappelli, ma ponevano semplicemente sul capo un lembo del mantello. Lo storico Valerio Massimo testimonia come Caio Sulpicio Gallo avesse ripudiato sua moglie perché si era trattenuta fuori casa a capo scoperto; egli giustificò la terribile severità del suo comportamento, dicendo che “la legge stabiliva che solo i suoi occhi dovevano sapere quale fosse la bellezza della moglie e costei doveva ornarsi e farsi bella unicamente per mostrarsi ad essi; ogni altro sguardo attirato su di lei da mal riposta civetteria la rendeva necessariamente sospetta e colpevole”.

 

Fu ancora molto aspro e severo il castigo, che diede alla moglie Caio Sulpicio Gallo, tanto che egli la licenziò e ne la rimandò a casa, avendo inteso che l’era andata fuora senza velarsi la testa. Fu questa punizione molto severa e risoluta; nondimeno l’ebbe in sé qualche ragione, perch’egli poteva dire la legge comanda che tu non cerchi di piacere ad altri occhi che ai miei, e a questi solamente ad aggredire; la tua bellezza, per questi ha ad ornarti , a questi a parer bella e con questi hai a consigliare e startene al giudizio loro; e ogni altra cosa, che tu farai per piacere ad altri che a me, è necessario che l’uomo sospetti e ingelosisca di te, e tu ne sei cagione.

Valerio Massimo, Factorum et dictorum  memorabilium librim novem, Libro VI, 6.3.10

 

Solo nella fase imperiale si arrivò al progressivo abbandono di tali usanze e le donne poterono iniziare ad acconciare i capelli in modo più estroso. Si diffuse poi l’uso di raccoglierli in lunghe trecce disposte come torri sulla sommità, alte fino a 2-3 volte la testa. La monumentalità di questa nuova acconciatura attirò l’attenzione di molti letterati dell’epoca tanto che Giovenale (poeta latino che fece della satira antifemminista un vero e proprio genere letterario) vi dedicò perfino dei versi in cui evidenzia il contrasto tra la bassa statura della donna e l’acconciatura più alta di lei che ostenta sulla testa. Si riferisce ad Andromaca, moglie di Ettore, nota per la sua altezza.

 

Mette sul capo tanti ordini di trecce e lo innalza con tante architetture; davanti ti sembra Andromaca; di dietro è più piccola e ti sembra un’altra.

Giovenale, Satira VI: Difetti e perversioni femminili, 502-504

 

All’epoca dei Flavi, le donne acconciavano i capelli con riccioli fittissimi tramite un ferro riscaldato, detto calamistrum. Durante gli Antonini si fece largo uso di capelli finti, usando posticci intrecciati raccolti sulla fronte come fossero diademi. Dall’età Severiana si torna alla semplicità: una scriminatura centrale, con i capelli ondulati, raccolti morbidamente in uno chignon basso a coprire la nuca.

 

L’Igiene

 

Per la cura e la detersione dei capelli, erano usate varie misture, tutte a base di prodotti naturali: succo di mele, tuorlo d’uovo, aceto e latte ma anche fiori di iris, vaniglia, cannella e miele che ne rendevano più gradevole il profumo. Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia descrive la tecnica con cui si potevano ottenere detergenti specifici per i capelli, mescolando cenere di faggio e grasso di capra. La parola sapone deriva dal termine saponem, che indicava una miscela usata per la tintura dei capelli di origine celtica-germanica. Si usavano anche palle di sapone prodotte in Germania, vicino Wiesbaden (di cui fa menzione Martiale nei suoi Epigrammi XIV, 26) o la Spumae Batavae proveniente dalle regioni degli odierni Paesi Bassi.

 

 

Tinta e sapone, questo è una scorta dei galli per rendere rossi i capelli. Realizzato dal sebo e dalla cenere, ottimo con faggio e caprino, è presente in due versioni: compatto o liquido. Ambedue, presso i Germani, sono utilizzati maggiormente dagli uomini che dalle donne.

Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, Libro 28, 191

 

S. Solomon, Toilet of a roman lady (1869)

 

Le tinture

 

Nell’immaginario collettivo dell’epoca, gli Dei erano considerati biondi, probabilmente perché i capelli chiari erano poco diffusi nell’area mediterranea.  Per i Romani, sfoggiare una capigliatura bionda o rossa era considerato sinonimo di fascino; moda che andò però sparendo nel medioevo, assumendo addirittura un’accezione negativa: le tinte vennero considerate diaboliche così come le donne coi capelli rossi, ree di farsi notare e accusate poi di stregoneria. Per diventare bionde le donne romane usavano posticci di chiome di barbari nordici, oppure spargevano sui capelli una porporina d’oro. Esisteva anche lo schiarimento con una mistura di limone ed acqua distillata di fiori di ligustro, una pianta sempreverde dalle bacche velenose. Successivamente, con l’avvento dell’età imperiale, venne introdotto un prodotto nuovo di importazione egiziana: l’hennè. Era usata invece la cenere del focolare per conferire alla chioma dai riflessi rossi. Colori più spregiudicati venivano usati solo dalle prostitute.

Gli accessori

 

Per impreziosire le acconciature le donne romane vi inserivano nastri (vittae) di vario genere.
Per adornare i capelli delle ricche signore veniva usato il bisso, una fibra tessile di origine animale. Il bisso era una sorta di seta naturale marina ottenuta dai filamenti secreti da una specie di molluschi, la cui lavorazione è stata sviluppata esclusivamente nell’area mediterranea. Da esso venivano ricavati pregiatissimi tessuti con i quali venivano confezionate vesti ostentate come status symbol dai personaggi più influenti delle società babilonese, assira, fenicia, ebraica, greca e infine romana. Oltre al bisso, venivano utilizzati più comunemente la seta e il velo, spesso dorati o tempestati di paste vitree, perle e gemme.

Oltre ai nastri, le teste delle donne romane potevano essere ornate con diademi, coroncine o spilloni di varia foggia.

Nel periodo estivo, per affrontare la calura, le matrone portavano un cappello conico, realizzato in paglia, detto tholia. Questo copricapo appare in un affresco rinvenuto nella Casa dei Dioscuri a Pompei: davanti a una capanna di canne è rappresentata una donna seduta, con un cappello con queste caratteristiche.

Usavano spesso anche una semplice retina sottile (cecrifalo) oppure una fascia piuttosto alta, il titulus, che formava sui capelli un cono aperto in cima. Spesso era realizzato in feltro ma rivestito all’interno di seta o damasco.

 

 

I posticci e le parrucche

 

Per le donne anziane che avessero subito la perdita dei capelli si ricorreva all’uso di posticci e parrucche (galeri), spesso realizzati con capelli veri. I posticci, in realtà, non venivano usati solo per la calvizie ma anche per rendere più voluminose le acconciature e aggiungere come ornamento finti chignon o il cercine sulla nuca o sulla fronte, come fece per prima la moglie di Adriano, Vibia Sabina, lanciando una nuova moda. [continua…]

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